Ars Bellica

Città del Messico (Tenochtitlán)

Giugno 1520 - Agosto 1521

Gli spagnoli di Cortès conquistano la capitale del regno azteco Tenochtitlàn ponendo le basi del più vasto impero coloniale della storia.

TENOCHTITLÀN

I Due comandanti

Hernan Cortès (Medellín, 1485 – Castilleja de la Cuesta, 2 dicembre 1547)

Hernan Cortes

Nato nel 1485 a Medellin, in Extremadura, da un famiglia di nobili decaduti (gli hidalgo), partì per il nuovo mondo nel 1504. Con il governatore Velazquez conquistò Cuba nel 1511, ricevendo il titolo di alcade di Santiago de Cuba (primo magistrato della città), e questo gli permise di entrare in contatto con gli alti ranghi della nobiltà ispanica, portandolo ad una notevole agiatezza economica.
Ma non si fermò a questo. Ricevute grandiose notizie dall'esploratore Nunez de Balboa (scopritore dell'oceano Pacifico), Cortès strappò il permesso di partire al governatore e si imbarcò immediatamente per esplorare la terraferma ad ovest dello Yucatan.
Il carattere e la personalità di questo personaggio, restano tutt'oggi misteriose, tanto è che per l'ambiguità delle sue azioni nel 1526 fu sotto inchiesta, e che nel 1534 venne nominato come vicerè del Messico Antonio de Mendoza invece di colui che quel regno l'aveva scoperto e conquistato.
Cortès tornò quindi in Spagna nel 1540, dove rimase fino al giorno della sua morte.


Montezuma II (1466 circa – Tenochtitlán, 29 giugno 1520)

Motzuma_II

Questo sovrano azteco salì al trono poco più che ventenne, ma da subito si dimostrò di grande valore come dimostra la vittoria sul grande regno rivale, il regno Texcoco, che gli portò il titolo di Imperatore.
Con il passare degli anni, accentuò il carattere spirituale della sua carica, e con esso anche la frequenza dei sacrifici rituali con i quali poteva controllare a dovere le tante etnie diverse sotto il proprio dominio. Sicuramente, anche questo atteggiamento, "estremamente ortodosso", da parte dell'imperatore azteco, risultò come una motivazione aggiuntiva per la "missione cristiana" del Cortès.
L'impressione suscitata dai soldati europei nei confronti degli indigeni, che non avevano mai visto simili armature, cavalli ed artiglierie, fu tale che Montezuma II stesso intraprese la strada dell'ospitalità invece che quella del conflitto. Questo atteggiamento "pacifico" gli inimicò buona parte della nobiltà "guerriera" azteca e dei sacerdoti. Diventato così per amici e invasori "l'imperatore donna"; praticamente si condannò a morte con le sue stesse mani.
Il nipote di Montezuma II, Cuauhtemoc, tentò anni dopo di riaccendere l'ardore sopito del suo popolo, riordinando la milizia e dotandola di lance anti-cavalleria spagnola. Ricostruì la città di Messico e intraprese una politica di sgravi fiscali per aggiudicarsi le simpatie dei popoli un tempo alleati.
Il suo tentativo fu tanto coraggioso quanto vano: Cortès riuscì al prezzo di sanguinosissime battaglie e numerose perdite, a rientrare nella città ancora una volta come vincitore.
Torturato, Cuauhtemoc morirà in prigionia.

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La guerra Azteca....

Tra la fine del XIII e il XIV secolo, un nuovo popolo, nomade e bellicoso, si impadronì del Messico: gli Aztechi.
Stirpe valorosa e crudele, venerava il dio della guerra Huitzilopochtili. Per gli Aztechi la guerra non era, come per la maggioranza dei popoli di ogni tempo e luogo, una necessità per superare una situazione di stallo, dove diplomazia e compromessi non riescono più a regolare controversie di diverso genere tra i contendenti.
La guerra ("la guerra fiorita", come la chiamavano gli Aztechi) era il mezzo con cui procurarsi dei prigionieri da sacrificare all'inestinguibile sete di sangue degli dei. Il sacrificio, era infatti indispensabile per questo popolo, per placare e rendere benevole le divinità che rappresentavano le forze naturali. Senza questi sacrifici, non una singola civiltà, ma l'intero pianeta sarebbe stato messo in pericolo.


...e la conquista spagnola

Terminata nel 1492 la Reconquista, per scacciare i Mori dalla penisola Iberica, la Spagna necessitava di oro, fino ad allora inutilmente ricercato a Granada.
I mezzi e la mentalità per iniziare la conquista di un intero continente, erano ben lontane dalle effettive possibilità delle Loro Maestà Isabella e Ferdinando. Impegnati nelle loro vicende europee (la contesa con la Francia in Italia), i due sovrani si erano limitati a istituire per il Nuovo Mondo, costituito essenzialmente dalle isole di Hispaniola (Santo Domingo) e Fernandina (Cuba), la Casa de Contrataciòn.
Questa istituzione aveva il compito di monopolizzare per la Corona il commercio con le Americhe. Più tardi venne introdotto anche il Consejo de la India per il disbrigo degli affari del Nuovo Continente. Da questo primo nucleo di possedimenti, e da pochi altri nelle Antille, sarebbe sorto l'impero coloniale spagnolo.
La fase espansiva cominciò sotto Carlo V, che regnava dal 1516, senza che la Corona elaborasse un piano preciso o una strategia globale. Ciò che emerge dalle testimonianze è il solo fatto che il governatore Velàzquez era interessato, in quel momento, all'ampliamento dei suoi traffici commerciali: proprio per questo Cortès ne ottenne il consenso alla sua spedizione.

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Gli uomini del continente sconosciuto

Verso la fine del XIII secolo, nelle terre che furono la culla dell'antica civiltà tolteca, giunse il popolo nomade dei Nahua, proveniente dall'antica e remota regione chiamata Aztlàn (probabilmente l'attuale California) in ossequio al volere del proprio dio della guerra. Coloro che assistettero al loro transito parlarono di un popolo di cui "...nessuno conosce il viso", come di temibili guerrieri.
Secondo la leggenda, verso la metà del XIV secolo, i Nahua, universalmente conosciuti come Aztechi, raggiunsero un lago oggi quasi del tutto prosciugato che si estendeva a 2.000 metri d'altezza e videro un aquila con un serpente nel becco, appollaiarsi su un cactus di un isola al centro del lago stesso. Hutzilopochtli, di cui l'aquila era la raffigurazione, aveva quindi espresso la sua volontà e gli Aztechi fondarono in quel luogo la loro capitale. La città prese il doppio nome di Mexico ("nel mezzo del lago della luna") e Tenochititlan per un altra tradizione secondo la quale Tenoch era il nome del capo-fondatore stesso della città.

Lago_Texcoco
Bacino di Mexico 1519 circa.

Coalizzatisi con i Tepanechi, gli Aztechi sottomisero diversi popoli vicini. Agli inizi del XV secolo, il re Itzcoatl sottomise anche gli stessi alleati. I suoi discendenti, con l'aiuto di popoli e paesi satelliti come i Texcoco e il regno di Tlacopan, estesero il loro dominio fino all'odierno Guatemala. Il maggiore artefice di queste conquiste fu Ahuitzatl che regnò dal 1486 fino al 1502; il suo successore, Montezuma II, regnava su 38 provincie.

impero_azteco
Espansione dell'impero azteco

Quando Cortès giunse, sogni, presagi ed oracoli davano come imminente il ritorno di Quetzalcoatl, il leggendario eroe divino, che aveva instaurato la pace nel regno, allontanandosi poi verso il mare orientale con la promessa di tornare.
Montezuma diventato malinconico e pensieroso, spesso rinchiuso nel suo eremo detto "casa nera", attendeva forse proprio il ritorno di tale divinità.

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Donna Marina

A questa india donata dai Cacicchi a Cortès in segno di pace, egli dovette parte dei suoi successi. Il condottiero l'aveva affidata inizialmente agli ufficiali Alonso Puertocarrero e Juan Jaramillo. Ma in seguito ne riconobbe l'intelligenza e l'abilità, ne fece sua interprete e consigliera, ribattezzandola Marina (Malina secondo la pronuncia azteca).

Donna_Marina
Donna Marina traduce la lingua dei mexica a Cortés. La donna è raffigurata sempre accanto a Cortés, a significare il suo ruolo determinante nella Conquista del Messico. Historia de Tlaxcala, Secolo XV

Accompagnando e confortando Cortès stesso, Marina ebbe un ruolo di primaria importanza nelle fasi critiche della conquista.
Figlia di "principi" indios, parlava correttamente sia l'azteco dell'altopiano, che quello delle popolazioni costiere. In breve avrebbe imparato anche il castigliano, e grazie all'amore che nutriva per il capitano avrebbe assunto compiti diplomatici importantissimi: sarà lei infatti a fare da tramite tra Cortès e Montezuma, e ad istruire lo stesso capitano sugli intrighi, le divisioni e la psicologia dei popoli indios.

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La guerra fiorita

Per molte delle culture dei popoli mesoamericani, la guerra era vista come lo strumento per procurarsi il numero sufficiente di vittime per i sacrifici rituali. Questi sacrifici umani, erano il rito per propiziarsi le divinità, personificazioni di sole, pioggia, terra fecondità, ecc. ecc.
Il sovrano stesso aveva la responsabilità di trovare il "materiale umano" fuori dalla tribù per effettuare i sopra menzionati sacrifici, ed il mezzo più comune nel popolo azteco era quello della guerra "fiorita".
Come preparazione a questa impresa, i giovani maschi imparavano l'arte della guerra in apposite scuole di quartiere detti capulli. Raggiunta la soglia di 7 prigionieri catturati, il guerriero diventava veterano e quindi: si schierava in prima fila durante le battaglie, aveva un seguito di servitori muniti di corde per imprigionare l'avversario e poteva battersi solo con avversari dello stesso rango. Se un novizio, identificabile con il nequen (un indumento bianco), non riusciva a catturare nemmeno una "preda" in 3 battaglie allora decadeva dal rango di guerriero.
Le truppe azteche dell'epoca, utilizzavano quasi tutte armi adatte a stordire più che a uccidere, questo proprio in considerazione del fatto che era un conflitto per catturare il nemico, non per ucciderlo.
L'equipaggiamento bellico quindi consisteva in: archi, fionde, bolas, piccoli scudi ricoperti di piume, mazze di legno con schegge di ossidiana all'estremità e dardi a punte ricurve per agganciare il nemico e portarlo tra le proprie linee con un'apposita fune.

guerrieri_aztechi
Guerrieri Aztechi raffigurati nel Codice Fiorentino.

La protezione principale era costituita da un corpetto di cotone imbottito, quello nobile era ricoperto di lamine d'oro o argento, mentre gli elmi, delle stesse leghe delle "armature", avevano la caratteristica dei variopinti colori e delle forme di teste d'animale.
La consuetudine voleva che gli ambasciatori annunciassero la sfida tra le due parti, composte da battaglioni di 8.000 uomini ognuno.
Come racconta un testimone spagnolo la tattica era piuttosto semplice, e divideva lo scontro in tre fasi: lancio di frecce, mischia e conclusione dovuta o alla morte di uno dei due comandanti o alla ritirata di una delle due parti.
Al termine della battaglia, i prigionieri venivano raccolti e portati nella città dove sarebbero stati sacrificati. Ma sia il sacerdote-carnefice, che la vittima, accettavano il proprio ruolo serenamente, consapevoli che il gesto che stavano per compiere gli avrebbe garantito dignità e rispetto sia nei confronti degli altri uomini, che nei confronti della divinità.

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Montagne...

Abbandonata la costa, Cortès trovava «fuerzas de flaquezas» ("forza dalla stanchezza") attraversando le montagne del Messico. Si guadagnerà l'alleanza dei popoli sottomessi dagli Atzechi, alimentandone lo spirito di ribellione e la voglia di libertà, secondo i consigli di donna Marina e fece imprigionare alcuni degli indios nemici, rilasciandone poi un paio affinchè recassero a Montezuma il suo messaggio di potenza e di sicurezza.
Questo atteggiamento avrebbe portato altri dei popoli sottomessi a schierarsi con gli spagnoli, anche se inizialmente gli erano stati ostili, come per esempio i Tlaxcalani.


...e Mèxico

L'8 novembre del 1520, gli spagnoli giunsero a Tenochititlàn (ora Città del Messico), una città costruita su una serie di isolotti preesistenti sul lago che dominava la piana, tutti collegati da ponti e solcati da un infinità di canali pieni di barche.
Torri, Templi, ed edifici sorgevano ovunque (scrive Diaz del Castillo). Un grande acquedotto alimentava la città con l'acqua sorgiva delle montagne circostanti, ed un enorme mercato pieno di vita e di colori, dava la dimensione del benessere azteco.
I vari borghi, avevano nomi strani come "ai giunchi" oppure "ai canneti". Al centro della città sorgevano la grande piazza e il tempio di Huitzilopochtli (dio della guerra), dal quale partiva la strada maestra. Intorno, 4 settori urbani, anch'essi circondati e solcati dalle acque, ognuno con la propria amministrazione civile e la casa dei giovani.

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Pianta della città

Secondo Cortès l'intera città doveva contenere non meno di 700.000 abitanti.
Montezuma condusse l'ospite a visitare i teocalli, le celle sacre dei più importanti templi della città, ed assegnò come residenza a lui e ai suoi un intero isolato. Cortès scrisse a Carlo V di aver stabilito con l'imperatore eccellenti rapporti, mentre i suoi detrattori ricordano che egli impose agli Aztechi pesanti tributi, e li obbligò a porre nei loro templi simboli cristiani.
Non sappiamo se la remissività dell'imperatore azteco verso gli spagnoli dipendesse dal fatto che egli accostasse Cortès al dio Quetzalcoatl dell'antica leggenda. E' certo però che l'imperatore chiedeva continuamente a Cortès quando sarebbe ripartito e che era a conoscenza dei vendicativi piani di Velàzquez.
Ben presto però la rabbia popolare si sarebbe sostituita al diplomatico sconforto di Montezuma.

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Conquistadores e notai

I conquistadores, erano avventurieri privi di scrupoli. Molti di loro erano i cosiddetti hidalgos, ossia appartenenti alla nobiltà terriera decaduta. La loro mentalità, e le loro azioni, spesso avevano il sapore epico-cavalleresco misto a quello di coloro che, provenendo dalle classi sociali meno agiate, andavano in cerca di ricchezze a qualsiasi costo. In molti tra gli hidalgos si trasferirono nel nuovo mondo attratti dal mito dell'oro, e nella speranza di poter ritrovare il loro perduto prestigio.

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Tipico elmo del conquistadore spagnolo.

E' sintomatico della loro mentalità religiosa il fatto che Cortès, nelle sue relazioni a Carlo V, chiami "moschee" i templi degli aztechi. Perfino la violenza dell'implacabile conquistadore impallidisce, davanti a quello che seppero fare i suoi successori "civili", alti burocrati e scribacchini i quali, costruendosi un alibi con l'"inumanità" degli indios, li avrebbero schiavizzati, riempiendo le loro tasche d'oro così come le navi del re, ancorate a Veracruz.

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La sconfitta di Narvàez

Alvarado
Pedro de Alvarado

Nel frattempo, un migliaio di uomini inviati da Velàzquez e guidati da Pànfilo de Narvàez, erano sbarcati nel continente con il compito di catturare l'impostore Cortès. I Cacicchi lo avevano riferito a Montezuma, che aveva fatto sapere a Narvàez di essere tenuto prigioniero da Cortès stesso.
Informato di queste vicende, lo spagnolo lasciò in città Pedro de Alvarado, un gigantesco "caballero" (autore poi della sconfitta delle popolazioni Maya) che il re azteco ammirava particolarmente, e si diresse verso Cempala, dove sorprese gli uomini di Narvàez e gli fece giurare fedeltà alla propria causa.
Giuntagli la notizia che la capitale era insorta, massacrando parte della guarnigione spagnola, Cortès si mise immediatamente in marcia verso la città. Appena arrivato, la trovò assolutamente tranquilla. Montezuma gli venne addirittura incontro per accoglierlo, ma il capitano ne rifiutò l'abbraccio e, lo fece scortare (forse addirittura in catene) nel suo palazzo.
Sembra che la rivolta popolare, scoppiata nonostante Montezuma cercasse sempre di mantenere la calma, fosse stata provocata proprio da Pedro de Alvarado. Sembra che egli avesse assalito, durante la festa di Huitzilopochtili, gli officianti con la scusa di aver scoperto un complotto contro gli spagnoli e avesse fatto uccidere 600 persone.

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Uomini, bestie, comunque schiavi

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Bartolomè de Las Casas

La figura dell'indio, inesplicabile negli usi e nei costumi per la mentalità cristiana dei conquistatori, diede luogo a delle elucubrazioni tese a giustificare la superiorità della razza bianca.
Il domenicano de Betanzos, ad esempio, affermava nel 1528, che gli indios in quanto esseri bestiali, erano stati destinati dalla Provvidenza ad una meritata estinzione.
La Chiesa e la stessa Corona, visto il bisogno di manodopera, riabilitarono la figura india, presentandolo come essere umano dotato di ingegno vivace e di una "simpatica indolenza", tutto sommato recuperabile se ben guidato.
Così l'opera del "Protector de los Indios", (il frate domenicano Bartolomè de Las Casas), dedito alla conversione degli indios e alla loro difesa dalla barbarie dei conquistadores, si presterà al consolidamento della barriera tra l'uomo europeo e quella umanità "imperfetta".
Da allora e per secoli si pensò che solamente l'evangelizzazione e la colonizzazione avrebbero potuto ricondurre al "disegno divino" quelle popolazioni indigene.

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Angoscia e miracolo

Nella notte del 14 giugno, il giorno stesso del rientro di Cortès, l'insurrezione divampò più furiosa di prima.
Improvvisamente gli spagnoli si trovarono assediati nel loro quartiere, fortificato e guarnito di artiglierie, da migliaia di Aztechi che li bersagliavano dai tetti e dalle terrazze prospicienti. Tutti i ponti erano sorvegliati ed occupati, così come ogni probabile via di fuga. I conquistadores rispondevano con archibugi e balestre ma, come scrisse Cortès nelle sue Relazioni «le frecce e i proiettili erano così fitti e avevano talmente tanto riempito gli edifici che a stento riuscivamo a muoverci».
La "notte d'angoscia", prima di una lunga serie, era solo all'inizio: ogni volta che gli spagnoli aprivano le porte per effettuare una sortita, faticavano a respingere la folla dei nemici che si trovava all'interno del perimetro difensivo. Gli spagnoli allora ricorsero a Montezuma, tenuto in ostaggio, perchè parlasse al popolo in loro favore, con l'unico risultato di attirare verso l'imperatore le antipatie dei suoi stessi guerrieri. Secondo fonti ufficiali, Montezuma venne addirittura bersagliato (e colpito al capo) da proiettili di ogni tipologia e morì pochi giorni dopo per quella stesa ferita.
La battaglia continuò per per quattro giorni con incredibile ferocia: meno di 1.000 soldati spagnoli veterani e bene armati (con le forze unite di Narvaèz e Cortès), erano affiancati da 3.000 indios. Gli Aztechi invece, non tutti guerrieri e anzi per la maggior parte popolani guidati da sacerdoti e notabili, potevano utilizzare armi come mazze di legno e sassi. Il loro unico vantaggio era il numero sterminato di uomini inferociti e motivati a tentare il tutto per tutto.
L'episodio più clamoroso fu l'assalto degli spagnoli a un tempio, probabilmente quello di Huitzilopochtili, sulla cui sommità si erano insediati 500 Aztechi che li bersagliavano. Poche decine di spagnoli, guidati da Cortès, superarono i più di cento gradini dell'edificio e sterminarono i difensori.
Ma gli scontri più sanguinosi avvennero per la conquista della via d'uscita dalla città, attraverso le strade barricate ed i ponti semidistrutti dai cittadini. A detta di Cortès, qui gli spagnoli combattevano uno contro cento, e qui contarono il maggior numero di caduti. Inizialmente, durante la ritirata essi appiccavano il fuoco e arraffavano quanto più possibile, ma presto dovettero pensare solo a salvarsi. L'ultimo canale fu superato grazie ai fedeli Tlaxcalani che si sacrificarono per proteggere la ritirata agli iberici.

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"Conquista de México por Cortés". Artista sconosciuto, seconda metà del 17° secolo. Si noti l'errata raffigurazione di abiti e armi degli Aztechi.

Secondo il condottiero i superstiti furono 447, i caduti 150 per gli spagnoli e 2.000 circa per gli indios. La ritirata costò anche 45 tra cavalli e giumente agli spagnoli. In realtà le perdite furono assai maggiori, calcolabili attorno ai 500-600 uomini.
La ritirata spagnola, proseguì verso la fedele città di Tlaxcala tra sentieri impervi e tallonati dal nemico per ben sei giorni. Il 7 luglio 1520, giunti quasi alla meta, gli iberici trovarono la valle di Otumba bloccata da un consistente esercito nemico. Durante la notte Cortès tenne un consiglio di guerra e decise di attaccare, convinto che questa sarebbe stata la sua ultima battaglia. I cavalieri superstiti, una ventina circa, si fecero strada tra i nemici, e i pochi fanti dietro di loro avanzavano sciabolando senza sosta. Nella mischia, Cortés riuscì ad individuare il capo nemico avvolto da un ricco manto piumato, si aprì la strada verso di lui e lo uccise.
Questa azione, dal sapore epico-cavalleresco, provocò immediatamente lo sbandamento e le fuga degli avversari: ancora una volta la "lucida e folle" determinazione del capitano aveva salvato la spedizione.

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Il codice Mendoza

Dopo anni di studio delle immagini, forme e colori delle pitture azteche, Joacquin Galarza riuscì a trovare la loro corrispondenza fonetica.
In effetti, tutta la simbologia azteca, oltre a rappresentare la trascrizione dei suoni della lingua aveva un valore puramente conservativo per quanto riguarda le tradizioni del popolo in oggetto.
La lettura avviene attraverso le chiavi, fonetiche, descrittive, tematiche e simboliche, dove, scomponendo l'immagine nei suoi glifi, struttura e senso variano a seconda della chiave scelta.
Sappiamo per certo che anche nella società azteca erano presenti degli scriba conosciuti come tlacuilo, che selezionati e istruiti da bambini, avrebbero ricoperto i ruoli di amministrazione delle tasse, astronomia e calendarizzazione.
La composizione del Codice Mendoza avviene grazie a numerosi documenti, esaminati dallo stesso Galarza, risalenti al XVII secolo. Tali documenti trattano di lamentele da parte indigena verso le autorità giudiziarie iberiche, presentate in scrittura ideografica e spagnola.
Il codice fu richiesto da don Antonio Mendoza (da cui il nome del manoscritto), viceré della nuova Spagna, per farne dono al re Carlo V. Contiene oltre alle illustrazioni, numerose note esplicative delle immagini stesse redatte in lingua spagnola.

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Pagina del Codice Mendoza. Questa pagina del Codice Mendoza raffigura lo sviluppo dell'equipaggiamento ed i tlahuiztli che accompagnavano la carriera militare da cittadino a portatore a guerriero a catturatore, e poi la scalata dei nobili da guerriero nobile a "guerriero aquila" a "guerriero giaguaro" a "Otomitl" a "tosato" ed infine a "Tlacateccatl"

Galarza riuscì a tradurre solo la prima pagina del codice, che descrive gli anni di storia azteca, a partire dalla fondazione di Tenochtitlan. Ma il suo lavoro permette oggi, a numerosi gruppi di ricerca, di studiare anche le immagini di altorilievi e bassorilievi, presenti in monumenti e dipinti murali. In un domani non troppo lontano, forse si riuscirà anche a contare su una teoria generale della scrittura azteca.

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La presa di Mexico

Le mire di Cortès erano tutte indirizzate alla presa di Mexico e alla sconfitta di Cuauhtemoc. Si prodigò immediatamente per raccogliere alleati e rinforzi, tanto che riuscì a partire per la capitale azteca con 25.000 indios alleati e 600 spagnoli.
Durante il viaggio, lo stesso conquistador, riuscì a sconfiggere altre popolazioni locali ed a guadagnare altri locali alla sua spedizione. Il 28 aprile 1521, giunse finalmente al lago della luna, dove ebbe subito l'occasione per varare la piccola flottiglia di navicelle a vela fatte trasportare dagli indios alleati, utili per giungere al centro della città evitando ponti di difficile conquista.
Le operazioni d'assedio avanzavano lentamente: prima il sabotaggio dell'acquedotto, poi la presa di un tempio centrale e l'accampamento di uomini e mezzi, quindi l'inizio della tattica di logoramento: assalti ed incendi durante il giorno e ritirate strategiche nella notte.
Cortès tentò una mossa decisiva dopo le prime settimane di combattimenti, attaccando con 2 colonne di uomini(una sotto il suo diretto comando l'altra sotto Alvarado) direttamente sui ponti, ma commettendo un grave errore: non aver prima controllato che tutte le interruzioni sui ponti e tutti gli acquitrini fossero state rimosse.
Fu così che gli indios allagarono quanto possibile delle direzioni in cui avanzavano gli spagnoli, attaccandoli mentre questi erano completamente impantanati. Nella ritirata, praticamente miracolosa, lo stesso Cortès rischiò la vita più volte, e gli spagnoli in fuga dovettero lasciare al nemico alcuni cannoni, cavalli e molte vittime.
Si pensò, da parte spagnola, che l'unica possibilità per vincere e conquistare la città fosse di colmare canali e fossi per avere la possibilità di lanciare in carica la cavalleria. Alla fine di Luglio i lavori per ottenere la piana desiderata dal Cortès erano completi, dando inizio alla vera avanzata spagnola.

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"Gli ultimi giorni di Tenochtitlan, Conquista di Mexico di Cortès", pittura del 19° secolo di William de Leftwich Dodge.

Ma la città indigena era ridotta alla fame da molto tempo, e quindi ormai l'avanzata dei conquistadores era contraddistinta solo da esecuzioni, stragi da parte dei Tlaxcalani e il ritrovamento nelle case di cadaveri in putrefazione.
Lo stesso Cuauhtemoc, venne catturato mentre cercava di fuggire su una canoa in direzione della terra ferma, e poi imprigionato dal comandante spagnolo, venne rinchiuso in un sotterraneo dal quale non sarebbe più uscito.
Il regno azteca non esisteva più. Dal 13 agosto 1521 Hernan Cortès era il dominatore indiscusso di un impero, con un numero così esiguo di uomini che ne sarebbero stati necessari dieci volte tanti per comporre un solo quadrato di picchieri svizzeri. Un impero dove oramai regnavano solo desolazione e rovina, e dove il tanto agognato bottino di guerra (in oro) non fu mai così misero.

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Conseguenze storiche

Il 15 ottobre 1522 giunse a Cortès da Carlo V la nomina di Governatore e capitano generale del regno della Nuova Spagna, nucleo del futuro Messico. La personalità di Cortès, tuttavia non era mai stata abbastanza affidabile per la Corona.
Il tempo del conquistador appena cominciato, già volgeva al termine. La Nuova Spagna veniva affidata a notai, missionari, burocrati e ai feroci tempi della conquista, si sostituivano gli ipocriti anni della colonizzazione.


Pubblicato il 03/07/2009