Ars Bellica

Battaglia di Stalingrado

23 agosto 1942 – 2 febbraio 1943

(parte II) La battaglia tra le rovine

L'inferno ha inizio, la guerra si manifestò agli abitanti di Stalingrado in tutta la sua drammaticità, è questa la fase più dura della battaglia. In città il combattimento si svolgeva in maniera completamente diversa dalla guerra convenzionale, era una nuova forma di guerra: combattimenti casa per casa a distanza ravvicinata spesso formati da imboscate con gravi perdite tra le truppe; si combatte tra edifici in rovina, carri bruciati, cantine, fogne e bunker nascosti.
A cura di Giuseppe Bufardeci

STALINGRADO

L'inferno ha inizio

Il pericolo principale, come si accorse subito il generale Erëmenko, era un attacco effettuato dalla 6a armata di Paulus da occidente, dopo aver attraversato il Don, e nel contempo un attacco della 4a Panzerarmee del generale Hoth1 da sud-ovest. Era in pericolo l'intero corso inferiore del Volga. Adesso, a parte il deserto, l'unica via di fuga era attraverso il mar Caspio.
Le forze da opporre a Hoth nell'arida steppa calmucca che i russi del nord chiamavano "la fine del mondo", non erano molte. Senza soldati a disposizione, le autorità sovietiche si erano rivolte alla Marina. Brigate di marinai furono trasferite in treno attraverso la Siberia dalla flotta dell'Estremo Oriente. I loro ufficiali erano cadetti diciottenni provenienti in origine dall'accademia navale di Leningrado, dove avevano combattuto durante i primi tempi dell'assedio in agosto. Mentre i marinai erano in viaggio dall'Estremo Oriente, i cadetti avevano ricevuto un addestramento accelerato di tre settimane nella steppa calmucca. Si comportarono magnificamente in battaglia, il tasso di perdite tra i giovani tenenti sarebbe stato terribile. Dei 21 cadetti solo due erano ancora in vita l'anno successivo.
Nel frattempo, tra i tedeschi aveva cominciato a diffondersi il senso di disagio, nonostante le vittorie. "Dopo il Don, avanzeremo fino al Volga", scrisse un comandante di compagnia. Ma era consapevole dei pericoli. La Germania non aveva semplicemente "truppe a sufficienza per spingersi in avanti sull'intero fronte".
Una volta assicuratasi anche la riva orientale del Don, i genieri tedeschi, il 22 agosto, costruirono un ponte di barche che fu attraversato dai primi reparti corazzati in direzione del Volga. La steppa si presentava dura come la roccia a causa della siccità estiva, il caldo era molto intenso.
La Luftflotte 4 (flotta aerea 4) circa 1.200 aerei, comandante in capo generale von Richthofen2, il 23 agosto sottopose Stalingrado ad un bombardamento massiccio.
Ondate di Junkers 88, Heinkel 111 e Junkers 87 (Stuka) bombardarono la città a tappeto, "non solo bersagli industriali, ma tutto quanto", disse uno studente presente quel giorno. Le descrizioni delle scene avvenute in città rendono difficile credere che ci possano essere stati sopravvissuti fuori dalle cantine o dai rifugi anti aerei. Centinaia di famiglie rimasero sepolte vive sotto le macerie. Anche gli enormi serbatoi di carburante sulla riva del Volga furono colpiti. Le bombe distrussero la centrale telefonica e gli acquedotti, mentre l'ospedale principale della città venne sfiorato da un grappolo di bombe. Il personale sanitario fu così terrorizzato da fuggire abbandonando i pazienti, alcuni dei quali rimasero cinque giorni senza cibo né cure.

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Eccezionale documento della ricognizione aerea tedesca. Si osservano le case sventrate e i complessi industriali in fiamme.

L'attacco aereo su Stalingrado fu il più intenso di tutto l'Ostfront, quel giorno gli aerei della Luftflotte 4 effettuarono un totale di 1.600 missioni, sganciarono 1000 tonnellate di bombe perdendo solo tre velivoli. Secondo alcune fonti, c'erano circa 600.000 persone a Stalingrado e 40.000 furono uccise durante la prima settimana di bombardamenti.
Il motivo per cui tanti cittadini e profughi erano rimasti sulla riva occidentale del Volga era tipico dell'atteggiamento del regime. L'NKVD aveva requisito quasi tutte le imbarcazioni fluviali, destinandone una minima parte all'evacuazione dei civili. Poi Stalin, decidendo che il panico non era permesso, aveva rifiutato di lasciare che gli abitanti di Stalingrado fossero evacuati attraverso il Volga. Questo, secondo lui, avrebbe costretto le truppe, in particolare la milizia arruolata sul posto, a difendere la città con maggiore accanimento.


 

Junkers 87, Stuka
Junkers 87, "Stuka"

Lo Junkers 87 è uno degli aerei più noti durante il secondo conflitto meglio conosciuto come "Stuka", abbreviativo della più lunga parola tedesca Sturzkampfflugzeug, letteralmente "aereo da combattimento in discesa".
Conosciuto dalla maggior parte dei profani è il caratteristico suono che emetteva durante la fase di picchiata con le così dette "trombe di Gerico", speciali sirene montate sui carrelli, che per effetto del vento, producevano un suono stridente che aveva lo scopo di seminare il panico nel nemico. Tale effetto aveva influenza specialmente sulla popolazione civile, mentre sui soldati era marginale in mezzo agli scoppi del campo di battaglia.
Le caratteristiche principali che contraddistinguono lo Stuka sono le ali di gabbiano invertite, o a doppia "V".
L'equipaggio era sistemato in tandem con il sedile posteriore posizionato in modo opposto al senso di marcia e da un'ampia cabina vetrata. Nel primo anno di conflitto lo Stuka divenne un'arma letale sopratutto contro carri armati, navi, fortificazioni e ponti.
Le principali aree in cui operò furono la Polonia, la Norvegia e la Francia, ma ben presto divenne vulnerabile nei confronti del più versatile caccia inglese "Spitfire", finendo così la sua carriera lungo il fronte orientale. Durante la battaglia d'Inghilterra vennero abbattuti circa 2.000 velivoli fra caccia e stuka. Prima del conflitto, il prototipo dello Stuka, montava un motore Rolls-Royce Kestrel da 640CV, mentre successivamente venne sostituito con un Jumo 210CA sempre da 640CV che azionava un'elica tripala. L'armamento di cui disponeva erano tre mitragliatrici da 7,9 mm, di cui una disposta sul retro manovrata dal copilota, mentre sotto le ali e alla fusoliera poteva portare diverse combinazioni di bombe variabili dai 50, 250, 500 e fino a 1.000 Kg.

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Uno stuka si avventa su una stazione ferroviaria.

Lo Stuka fu reso ancora più celebre dal pilota della Luftwaffe Hans Ulrich Rudel, che combatté esclusivamente sul fonte russo. Anche se venne abbattuto ben 30 volte, compì più di 2.530 missioni con la distruzione di 519 carri armati sovietici (l'equivalente di due divisioni corazzate), 150 cannoni contraerei e controcarro, 800 mezzi di trasporto e blindati, 11 vittorie aeree (9 caccia e 2 aerei da attacco al suolo Ilyushin Il-2 Šturmovik), 70 mezzi da sbarco, 1 cacciatorpediniere, 2 incrociatori e una corazzata, la "Marat", affondata con un'unica bomba da 1.000 kg. Stalin mise una taglia di ben 100.000 rubli per chi avesse abbattuto l'asso tedesco.
Hans Ulrich Rudel oltre ad essere stato uno dei militari tedeschi più decorati, è l'unico ad avere ricevuto la più alta onorificenza del Terzo Reich: Cavaliere della Croce di Ferro con Fronde di Quercia in Oro, Spade e Diamanti (vedi successivamente la nota sulle decorazioni del Terzo Reich).


"Nessuno si preoccupava degli esseri umani", osservò un ragazzo rimasto intrappolato con sua madre. "Anche noi eravamo solo carne da cannone".
Mentre i bombardieri martellavano la città, i reparti corazzati della 16a Panzerdivision avevano continuato l'avanzata attraverso la steppa per una quarantina di chilometri senza incontrare praticamente opposizione, solo all'angolo nord occidentale di Stalingrado la resistenza cominciò a divenire più attiva e i pezzi contraerei cominciarono a sparare ad alzo zero contro i carri armati. L'opposizione proveniva dalle batterie servite dalle giovani volontarie appena uscite dal liceo. Gli equipaggi tedeschi riavutisi dalla sorpresa iniziale, si erano disposti in formazioni d'attacco puntando contro alcune batterie. Ben presto erano arrivati gli stuka a occuparsi delle rimanenti. Questa fu la prima pagina della difesa di Stalingrado.
Le donne delle batterie contraeree erano incredibilmente risolute, si rifiutavano di scendere nei bunker. Anche i rapporti della 16a Panzerdivision non lasciano dubbi sul loro coraggio. "Fino al tardo pomeriggio", si afferma in un resoconto, "dovemmo combattere colpo su colpo, contro 37 postazioni nemiche, difese da tenaci donne combattenti, fin quando non riuscimmo a distruggerle".
Le truppe corazzate provarono orrore quando scoprirono di aver sparato contro delle donne.
I russi trovavano stranamente illogica questa "delicatezza d'animo", considerando che i bombardieri tedeschi avevano ucciso diverse migliaia di donne e bambini quello stesso pomeriggio. Gli ufficiali tedeschi non dovettero subire a lungo le loro illusioni cavalleresche. "È del tutto errato descrivere le donne russe come soldati in gonnella", scrisse in seguito uno di loro, "Le donne russe sono state da tempo completamente preparate ai compiti del combattente e a occupare qualsiasi posto una donna sia in grado di tenere. I soldati russi trattano queste donne con grande cautela".

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Altra immagine aerea testimonianza delle estese distruzioni dei bombardamenti tedeschi.

Stalin diventò furioso quando seppe che delle truppe tedesche avevano raggiunto il Volga. La città doveva essere difesa fino alla fine. Gli operai non direttamente coinvolti nella produzione di armi di uso immediato furono mobilitati in brigate speciali della milizia sotto il comandante della 10a divisione dell'NKVD colonnello Sarajev. Nel sobborgo industriale settentrionale di Spartakovka, battaglioni della milizia male armati furono mandati contro la 16a Panzerdivision con prevedibili risultati. Nella fabbrica di trattori convertita alla produzione di T-34, i volontari saltavano a bordo dei carri ancora prima che fossero verniciati e andavano direttamente in battaglia. Questi carri mancavano di congegni di puntamento e potevano mirare quasi solo a distanza ravvicinata, dopo che il servente aveva controllato l'otturatore mentre il cannoniere brandeggiava il pezzo.
"Ieri abbiamo raggiunto la linea ferroviaria", scrisse a casa un caporale il giorno successivo, "e abbiamo catturato un treno con veicoli armati e rifornimenti che non era stato nemmeno scaricato, abbiamo fatto anche numerosi prigionieri. Tra di loro c'erano anche i soldati in gonnella, i cui volti sono talmente ripugnanti che si fa fatica a guardarli. Speriamo che questa operazione non duri molto a lungo". Nel saccheggio del materiale, anche di provenienza americana, ceduto ai russi in base alla legge affitti e prestiti, i tedeschi apprezzarono particolarmente le jeep americane, nuove di zecca con le loro insegne russe, considerate un veicolo di gran lunga migliore del loro equivalente tedesco, la Kubelwagen.
Un altro importante attacco aereo fu eseguito nel pomeriggio del 25 agosto. La centrale elettrica fu gravemente danneggiata, ma venne rimessa presto in funzione.
Alla fine, fu dato il permesso alle donne e bambini di Stalingrado di attraversare il Volga per raggiungere la sponda orientale sui natanti requisiti dall'NKVD. Tuttavia, erano rimaste solo alcune vecchie imbarcazioni, perché le altre erano necessarie per l'evacuazione dei feriti e il trasporto di munizioni e rinforzi. Il viaggio era pericoloso almeno quanto rimanere sulla sponda occidentale, perché la Luftwaffe non smetteva di attaccare tutto ciò che attraversava il Volga. I panzer tedeschi affondarono un vapore a pale che trasportava donne e bambini dalla città, udendo urla e grida d'aiuto, i soldati tedeschi chiesero al loro comandante se potevano usare i battelli gonfiabili del genio per salvare quella gente. Ma il tenente rifiutò. Sopraggiunta la notte, gli equipaggi si misero le coperte sulla testa in modo da non sentire più quelle urla. Alcune donne riuscirono a nuotare fino alla sponda occidentale, ma la maggior parte arrivò solo fino al banco di sabbia dove rimase per tutta la giornata successiva. I tedeschi non spararono quando vennero evacuate la notte successiva, forse solo per provare che erano diversi dai russi.
Le unità tedesche erano molto orgogliose di avere raggiunto il Volga, molti erano convinti che la vittoria non potesse essere troppo lontana. "Non puoi immaginare la rapidità dei nostri carri motorizzati", scriveva un soldato della 389a divisione di fanteria. "E inoltre gli attacchi continui della nostra Luftwaffe. Che sensazione di sicurezza proviamo quando i nostri piloti sono sopra di noi, perché in tal caso non si vede nemmeno un aereo russo. Mi piacerebbe condividere con voi una piccola scintilla di speranza. Le nostre divisioni avranno compiuto il loro dovere non appena Stalingrado cadrà. Allora, a Dio piacendo, potremo rivederci questo stesso anno. Se Stalingrado cade, l'Armata Rossa a sud è annientata". Ma la posizione dei corpi corazzati avanzati era tutt'altro che solida, non solo i russi contrattaccavano ai fianchi nel tentativo di spezzare lo stretto corridoio tedesco, ma la 16a Panzerdivision era quasi priva di carburante, come pure il resto delle unità del XIV Panzerkorps.
Hitler pensava che una rapida vittoria a Stalingrado avrebbe risolto i problemi di un fianco sinistro troppo allungato, portando nel contempo al collasso definitivo dell'Armata Rossa. Ora il pericolo maggiore era un indebolimento; Paulus continuando a fidarsi del giudizio di Hitler, secondo il quale le forze russe dovevano essere completamente distrutte, quando, in seguito, il generale von Wietersheim, comandante del XIV Panzerkorps, raccomandò il parziale arretramento, gli tolse il comando e al suo posto mise il generale Hube3.
Molto dipendeva dalla rapida avanzata della 4a Panzerarmee da sud, ma Hitler aveva costretto Hoth a lasciare un panzerkorps nel Caucaso. Pertanto le sue forze erano ridotte. Inoltre, come aveva osservato all'epoca il generale Strecker4 (comandante dell'XI corpo d'armata) "più gli attacchi tedeschi si avvicinano alla città, minori sono i guadagni giornalieri".
Dietro le linee si stava preparando una difesa ancora più accanita.
Il ritardo dell'avanzata del fianco destro di Hoth era dovuta alla resistenza attuata da truppe sovietiche attorno al lago Sarpa e vicino a Tundutovo sulle colline a sud dell'Ansa del Volga sotto Stalingrado.
L’avanzata andò meglio due giorni più tardi quando Hoth all'improvviso spostò il XLVIII Panzerkorps sul fianco sinistro della steppa calmucca. Il vantaggio principale dell'esercito tedesco consisteva nella stretta cooperazione tra le divisioni corazzate e la Luftwaffe. L'avanzata da sud del XLVIII Panzerkorps fu talmente rapida che la sera del 31 agosto le sue unità di punta avevano raggiunto la ferrovia Stalingrado-Morozovsk. Si verificò la possibilità di circondare due armate sovietiche, la 62a e la 64a, ma Erëmenko, avvertito del pericolo, riuscì a disimpegnarle.
Sul fianco nord di Paulus, il XIV Panzerkorps non aveva avuto un attimo di tregua. I russi continuavano a sferrare attacchi a livello di divisione su entrambi i lati del corridoio, anche se questi attacchi erano mal coordinati.
A fine agosto la 16a Panzerdivision, sulle rive del Volga, al riparo in un frutteto, non godeva più del suo precedente inebriante ottimismo. L'artiglieria sovietica aveva spazzato via tutti gli alberi e continuava a martellarli.
La 24a armata si era unita alla 66a e alla 1a Guardie per preparare il contrattacco. Una volta scese dal treno, si erano mosse in diverse direzioni, ma nel caos nessuno sembrava rendersi conto di dove fossero.
La situazione risultò ancor più disastrosa per la 64a divisione fucilieri che si stava concentrando nelle retrovie. Il morale era crollato sotto gli attacchi aerei tedeschi, che avevano distrutto anche l'ospedale da campo uccidendo medici e infermiere. I feriti trasportati nelle retrovie raccontavano di indicibili orrori che scoraggiavano le truppe inesperte di riserva, in attesa di essere mandate in combattimento. Il comandante di divisione ordinò alle unità più fragili di riprendersi, li arringò e li maledisse per la codardia manifestata al servizio della Madrepatria, poi adottò la punizione, risalente ai romani, della decimazione. Con la pistola spianata, percorse tutta la prima fila contando ad alta voce. Ogni 10 uomini, sparò a bruciapelo in faccia a chi gli stava davanti fin quando non scaricò il caricatore.
Finalmente Stalin si rese conto della gravità della situazione di Stalingrado e questo provocò una vera rivoluzione nel suo modo di condurre la guerra. A quel punto il Supremo capì che la sopravvivenza dipendeva da generali professionisti e non dal suo impaziente dilettantismo. Il 27 agosto promosse Žukov vicecomandante supremo. Il generale rifiutò la promozione: "Il mio carattere ci impedirebbe di lavorare insieme". "Sul nostro paese incombe la catastrofe", rispose Stalin. "Dobbiamo salvare la Madrepatria con ogni mezzo possibile, a prezzo di qualunque sacrificio. Che cosa importano i nostri caratteri? Pieghiamoli alla Madrepatria".
Vennero serviti tè e biscotti per festeggiare l'inizio dell'alleanza più proficua della guerra.
Žukov, appena nominato vice comandante supremo, secondo solo a Stalin, era arrivato a Stalingrado il 29 agosto. Scoprì presto che le tre armate destinate ad operazioni erano mal equipaggiate, piene di vecchi riservisti e a corto di munizioni di artiglieria. Convinse Stalin che l'attacco doveva essere rimandato di una settimana. Stalin accettò, ma l'avanzata tedesca verso i sobborghi occidentali della città, il 3 settembre, lo mise di nuovo in allarme. Ordinò di iniziare l'attacco immediatamente, non importa che le divisioni fossero schierate o no e se avessero ricevuto o no l'artiglieria. Dopo una lunga e laboriosa telefonata, Žukov lo persuase ad attendere altri due giorni.
Quell'estate anche i tedeschi soffrirono alcune delle perdite più pesanti della loro campagna. Non meno di sei comandanti di battaglione furono uccisi in un sol giorno e un gran numero di compagnie furono ridotte a soli 40 o 50 uomini ciascuna. (Le perdite totali sull'Ostfront avevano ora superato il milione e mezzo). L'interrogatorio dei prigionieri sovietici non faceva che confermare la determinazione dei loro avversari. "Di una compagnia", comunicava un rapporto, "solo cinque uomini sono rimasti vivi, hanno ricevuto l'ordine di non cedere a nessun costo Stalingrado".
I soldati dell'Armata Rossa pensavano di aver combattuto bene e duramente nei primi dieci giorni della battaglia, ma non si illudevano sulle difficoltà che li aspettavano. In quel momento Stalingrado contava su meno di 40.000 difensori per resistere alla 6a armata e alla 4a Panzerarmee. Nessun comandante dimenticava che il Volga era l'ultima linea di difesa davanti agli Urali.
I tedeschi erano fiduciosi in quella prima settimana di settembre e nessuno cercò di nascondere una sensazione di trionfo al comando della 6a armata quando, il 3 settembre, un ufficiale di stato maggiore annunciò il collegamento tra il fianco meridionale del LI corpo d'armata e il fianco sinistro della 4a Panzerarmee: "L'anello attorno a Stalingrado si è chiuso sulla sponda occidentale del Volga!" Dall'attraversamento del Don il 23 agosto all'8 settembre, ci si vantava di aver preso 26.500 prigionieri, e distrutto 350 cannoni e 830 carri. Ma nei sobborghi di Stalingrado le notti divennero improvvisamente più fredde, al punto che al mattino il terreno era gelato e uno strato di ghiaccio si depositava sulle greppie di tela per i cavalli. L'inverno russo sarebbe presto piombato di nuovo su di loro.

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Pochissimi, però, presentivano il peggiore ostacolo cui sarebbe andato incontro la 6a armata. I massicci bombardamenti aerei non solo non erano riusciti a distruggere la volontà del nemico, ma proprio la vastità delle loro distruzioni aveva tramutato la città in un perfetto terreno di caccia per i russi.

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1 Hermann Hoth (12 aprile 1885 – 26 gennaio 1971) generale tedesco. Dal 1939 al novembre 1943 guidò ininterrottamente panzerdivision, panzerkorps e panzerarmee su tutti i fronti conseguendo spesso grandi successi e dimostrando sempre capacità, preparazione e spirito combattivo sia nella vittoria che nella sconfitta. Nel 1943, in occasione dell'operazione Zitadelle, Hoth, sempre al comando della 4a Panzerarmee, impegnato nel settore meridionale del saliente, riuscì ad ottenere soltanto successi limitati. Fu rimosso dal comando, il 16 novembre 1943, entrando nella riserva ufficiali. Fatto prigioniero dagli Alleati, venne sottoposto a processo, e il 27 ottobre 1948 venne riconosciuto colpevole di crimini contro l'umanità e condannato a quindici anni di detenzione. Scontò in realtà solo sei anni; amnistiato nel 1954, lasciò il carcere e, ritiratosi a vita privata, si dedicò ad un'intensa attività editoriale.
2 Wolfram Freiherr von Richthofen (Berzdorf, 10 ottobre 1895 – Bad Ischl, 12 luglio 1945) generale, feldmaresciallo dell'aviazione. Cugino del più famoso Manfred detto Il Barone Rosso, porta la totale responsabilità del bombardamento di Guernica, durante la guerra civile spagnola. Nel novembre 1944, gravemente malato, fu posto a riposo. Prigioniero nel 1945 degli americani, morì di tumore al cervello nel luglio dello stesso anno.
3 Hans-Valentin Hube (Naumburg, 29 ottobre 1890 – Salisburgo, 21 aprile 1944) è stato un generale tedesco. Apprezzato dallo stesso Adolf Hitler per la sua energia e per la sua combattività, stimato dai suoi soldati (da cui era soprannominato der mensch, l'uomo) si distinse soprattutto nella condotta di operazioni con le panzerdivision. Morì in un incidente durante il decollo dell'aeroplano su cui viaggiava a Salisburgo nel 1944.
4 Karl Strecker (20 Settembre 1884 – 10 Aprile 1973) generale tedesco. Catturato dai sovietici a Stalingrado fu poi liberato nel 1955.

STALINGRADO

La città fatale

"Per i difensori di Stalingrado non c'è terra sull'altra riva del Volga". (Motto della 62a armata dell'Armata Rossa)


La popolazione tedesca aveva sentito parlare di Stalingrado, per la prima volta, in un comunicato del 20 agosto, poco più di due settimane più tardi, Hitler, in una prima fase contrario al coinvolgimento delle sue truppe in combattimenti strada per strada, prese la decisione di conquistare la città ad ogni costo.

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Gli eventi sul fronte del Caucaso, a quanto sembrava la sua principale priorità, giocavano un ruolo minore in questa sua nuova ossessione per Stalingrado. Il 7 settembre, giorno in cui Halder notò soddisfacenti progressi a Stalingrado, l'esasperazione di Hitler per la mancata avanzata nel Caucaso raggiunse il culmine. Rifiutò di accettare il fatto che il feldmaresciallo von List non avesse truppe sufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati. Il generale Alfred Jodl5, appena tornato da una visita al comando di List, osservò a cena che quest'ultimo si era limitato a eseguire gli ordini del Führer. "È una menzogna!", strillò Hitler e uscì sbattendo la porta.
La sua reazione in quell'occasione sembrava averlo portato a una specie di limite psicologico. Il generale Warlimont6, rimase talmente scioccato dal "lungo sguardo di odio bruciante" di Hitler, da pensare: "Quest’uomo ha perso la faccia; ha capito che il suo gioco con il destino è finito, che la Russia sovietica non sarà sconfitta in questo secondo tentativo". Anche Nicolaus von Below, aiutante del Führer per la Luftwaffe, notò che "l'intero entourage di Hitler dava un'impressione uniformemente deprimente. All'improvviso lui era completamente assente".
Probabilmente il leader del Terzo Reich sapeva la verità, dopo tutto, aveva detto ai suoi generali che, se non avessero preso il Caucaso, sarebbe stato costretto a porre fine alla guerra, ma non riusciva ancora ad accettarla. Il Volga era tagliato in due e le industrie belliche di Stalingrado distrutte, entrambi obiettivi definiti dall'operazione Blu, eppure ora doveva catturare la città che portava il nome di Stalin, come se questo fatto potesse portare alla sconfitta del nemico per altre vie. Il pericoloso sognatore si era rassegnato alla vittoria simbolica come compenso per le sue frustrazioni.
Era chiaro che gli attacchi russi erano solo uno spreco e dimostravano una spaventosa incompetenza, ma non potevano esserci dubbi sulla loro decisione di difendere Stalingrado ad ogni costo. La risoluzione dei sovietici era pari, se non maggiore, alla determinazione dei tedeschi. Fin dalla caduta di Rostov, ogni mezzo per invitare alla resistenza era diventato lecito. L'8 settembre il giornale del fronte di Stalingrado mostrava un disegno di una ragazza terrorizzata con le braccia legate. "Che cosa fareste se la vostra amata fidanzata fosse legata in questo modo dai fascisti7?" Diceva la didascalia. "Prima la violenteranno brutalmente, poi la getteranno sotto un carro. Fatti avanti, guerriero. Spara al nemico. Il tuo dovere è impedire che il violentatore stupri la ragazza". Una propaganda del genere era indubbiamente rozza, eppure il suo simbolismo rifletteva alla perfezione il sentimento dell’epoca. La poesia di Aleksej Surkov "Io odio" era altrettanto fiera. La violazione compiuta dai tedeschi alla Madrepatria poteva essere cancellata solo da una sanguinosa vendetta8.
Per Erëmenko e Chruščëv, la decisione più importante in quel momento di crisi era scegliere un successore al comandante della 62a armata, convinto che Stalingrado non potesse resistere a lungo. La grande unità si era ritirata combattendo proprio nella città.
Čujkov era stato proposto come nuovo comandante della piazza di Stalingrado.
"Compagno Čujkov", disse Chruščëv. "Come interpreterai il tuo compito?".
Čujkov rispose con le seguenti parole, da lui stesso riportate nel suo diario di guerra: "Stalingrado non la possiamo consegnare al nemico, ci è troppo cara, a noi, a tutto il popolo sovietico; la resa di Stalingrado influirebbe negativamente sul morale del nostro popolo. Sarà presa ogni misura per evitare la resa di Stalingrado. Non ho nulla da chiedere. Voglio soltanto pregare il consiglio di guerra di non rifiutarmi aiuto quando li solleciterò da Stalingrado, e giuro che non abbandonerò la città. Difenderemo Stalingrado o moriremo".
Erëmenko e Chruščëv lo fissarono e gli comunicarono che aveva compreso alla perfezione il suo compito.
Čujkov cominciò a istillare il terrore in quei comandanti che avessero anche solo pensato di ritirarsi. Alcuni ufficiali superiori avevano già attraversato il Volga abbandonando i propri uomini, molti dei quali volevano anche loro fare la stessa cosa pur di abbandonare quell'inferno. Si assicurò che le truppe dell'NKVD controllassero ogni molo o traghetto. Per i disertori, di qualunque grado, c'era l'esecuzione sommaria.
La 62a armata era ridotta a circa 20.000 uomini. Aveva meno di 60 carri. Tuttavia Čujkov aveva più di 700 mortai e cannoni e voleva che tutta l'artiglieria fosse ritirata sulla riva orientale. La sua preoccupazione principale era quella di ridurre gli effetti della schiacciante superiorità aerea tedesca. Aveva già notato la riluttanza delle truppe nemiche a ingaggiare combattimenti ravvicinati, specialmente nelle ore notturne. Per fiaccarli, "ogni soldato tedesco deve sentirsi come se vivesse sotto il tiro di un fucile russo". Ma la preoccupazione più immediata riguardava il controllo delle truppe miste che non conosceva, in posizioni che non aveva ispezionato, proprio nel momento in cui i tedeschi si apprestavano a lanciare il loro primo attacco importante. Come presto avrebbe scoperto, il vero ostacolo per gli attaccanti sarebbero state le rovine e le macerie della città.

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Nella riunione al quartier generale di Vinniča, Hitler, cui interessava solo Stalingrado, voleva sapere quando sarebbe caduta. È probabile che Paulus abbia ripetuto la valutazione che aveva riferito Halder il giorno precedente: dieci giorni di combattimenti, poi due settimane per riorganizzarsi.
L'attacco cominciò il 12 settembre alle 6:45, anticipato il giorno precedente da intensi bombardamenti d'artiglieria e aviazione alle posizioni sovietiche.
I cavi dei telefoni da campo vennero continuamente tagliati. I genieri mandati a riparare le linee non avevano molte probabilità di riportare a casa la pelle. Čujkov praticamente non riusciva a comunicare con Erëmenko. Fu costretto a ricorrere alle staffette, la cui speranza di vita durante ogni attraversamento della città bombardata era ancora minore di quella dei genieri.
Il fiume Tzaritza si gettava nel Volga a circa un chilometro e mezzo a sud della stazione centrale, i tedeschi lo avevano scelto come punto di riferimento naturale: a nord la fanteria di Paulus, a sud le forze corazzate di Hoth.

Attaco 12 settembre 1942
Attacco tedesco del 12 settembre 1942.

La 71a divisione di fanteria avanzò fino al centro della città poco a nord del fiume. Stalin informato, si rivolse a Vasilevskij. "Invia immediatamente l'ordine di attraversare il Volga alla 13a divisione Guardie e vedi che altro puoi mandare". Un'ora più tardi Žukov era in volo per Stalingrado.
La 295a divisione di fanteria tedesca si aprì la strada fino alla china più lontana della collina chiamata Mamaev Kurgan, ma la minaccia più grave alla sopravvivenza di Stalingrado venne da sud. Un fin troppo ottimistico rapporto della 6a armata dichiarava che sia l’acquedotto sia la stazione centrale erano state prese e le truppe avevano raggiunto la riva del Volga. In realtà la stazione centrale quel giorno cambiò mano tre volte in due ore quella mattina e nel pomeriggio era stata ripresa da un battaglione di fucilieri dell’NKVD.
Čujkov non lasciò dubbi al comandante della 13a divisione Guardie, il generale Rodimcev9, sul pericolo della posizione in cui si trovavano (avevano cominciato ad attraversare il fiume al tramonto). Convocò anche il colonnello A. A. Sarajev, comandante della 10a divisione fucilieri dell’NKVD e comandante anche della guarnigione della città. Il colonnello che era a Stalingrado fin dal mese di luglio, praticamente, si era creato un esercito personale di 15.000 uomini sulle due rive del Volga. Controllava anche i traghetti e il traffico fluviale. Čujkov che non aveva molto da perdere in un momento del genere, minacciò di telefonare immediatamente al comando del fronte, se Sarajev non avesse obbedito ai suoi ordini. Sebbene Berija avesse minacciato di “rompere la schiena” di un alto ufficiale del Caucaso perché si era permesso di suggerire che le truppe dell’NKVD avrebbero dovuto passare alle dipendenze dell’esercito, Sarajev si rese conto che in quel caso era più sensato ubbidire. Il vento proveniente dal Cremlino cominciava a volgere a favore dell’esercito. Il compito di queste truppe dell’NKVD era di proteggere lo sbarco della 13a divisione Guardie.
Lo sbarco si svolgeva con l’ausilio di cannoniere e numerose imbarcazioni civili requisite, rimorchiatori, scialuppe, chiatte, barche da pesca e persino lance a remi. Per chi era costretto ad attraversare il Volga su barche a remi, l’esperienza fu probabilmente tra le più spaventose. Gli scoppi lontani e il tonfo sordo dell’esplosione dei proiettili riecheggiavano sulla grande distesa del fiume. Poi l’artiglieria tedesca, i mortai e alcune mitragliatrici sufficientemente vicine alla riva aggiustarono la mira. Una cannoniera della flotta del Volga ricevette un colpo diretto e venti membri del distaccamento imbarcato rimasero uccisi. Dalla riva occidentale si levavano colonne di fumo degli edifici in fiamme. Li stavano mandando in una specie d’inferno. La riva del fiume era “una confusione di macchinari bruciati e di barche malconce gettate a riva”. Mentre vi si avvicinavano, colsero l’odore degli edifici carbonizzati e il fetore disgustoso dei corpi in decomposizione sotto le macerie.
Non c’era bisogno di dire ai soldati appena sbarcati di non indugiare per non correre il pericolo di farsi sparare addosso. La 13a divisione Guardie ebbe il 30% di perdite nelle prime ventiquattro ore, ma la sponda del fiume era stata salvata. I pochi sopravvissuti (solo 320 dei 10.000 uomini avrebbero visto la fine della battaglia di Stalingrado) sostennero che la loro determinazione “veniva da Rodimcev”. Seguendo il suo esempio, anche loro fecero la promessa: "Non c’è terra per noi al di là del Volga".
La lotta per il controllo del Mamaev Kurgan divenne sempre più intensa. Se i tedeschi l’avessero occupato, i loro cannoni avrebbero controllato il Volga. Un reggimento di fucilieri dell’NKVD riuscì a tenere una piccola parte della collina fin quando non venne rafforzato dal 42o reggimento (della 13a divisione Guardie) e da una parte di un’altra divisione poco prima dell’alba del 16 settembre. I nuovi arrivi attaccarono la cima e i crinali della collina nelle prime ore di quella stessa mattina. Ora il Mamaev Kurgan era irriconoscibile: non era più il parco in cui gli innamorati avevano passeggiato poche settimane prima. Non rimaneva un filo d’erba sul terreno cosparso di proiettili, bombe e schegge di granate. L’intero pendio era cosparso di crateri che servivano da trincee di fortuna. Il soldato Kentja raggiunse la fama abbattendo la bandiera tedesca piantata sulla cima dai soldati della 295a divisione di fanteria e calpestandola. Ma si sapeva molto poco su episodi di vigliaccheria. Il comandante di una batteria russa sul Mamaev Kurgan pare avesse disertato perché “temeva di essere considerato responsabile della propria codardia durante la battaglia”. I serventi ai pezzi, presi dal panico, erano fuggiti quando un reparto di fanteria tedesca aveva sfondato e attaccato la batteria. Il tenente M. si era mostrato “indeciso” e non era riuscito ad uccidere i nemici, reato capitale in una simile situazione.
Il commissario Kolabanov, mandato ad indagare su presunti casi di diserzione presso un plotone della 112a divisione fucilieri, raggiunto il plotone verso l’una di notte, udì qualcuno parlare in russo dalle posizioni tedesche. “Tutti voi dovreste disertare, vi daranno del cibo e vi tratteranno bene. Se rimanete con i russi, morirete qualsiasi cosa succeda.” Il commissario notò alcune figure attraversare la terra di nessuno verso le linee tedesche. Con sua grande rabbia, gli altri membri del reparto non spararono contro di loro. Scoprì che dieci uomini avevano disertato. Il comandante del plotone fu arrestato e processato da una corte marziale. Non vi sono tracce della sentenza, ma probabilmente fu giustiziato o mandato a una compagnia di punizione.
Combattimenti all’ultimo sangue continuarono sul Mamaev Kurgan e l’artiglieria tedesca non smise di bombardare le posizioni sovietiche nei due mesi successivi. I cadaveri della battaglia furono dissotterrati e poi di nuovo sepolti dal fuoco incessante dei pezzi dell’artiglieria. Anni dopo la guerra, un soldato russo e uno tedesco furono riesumati durante alcuni lavori. Sembrava che i due corpi fossero stati sepolti dall’esplosione di un proiettile subito dopo essersi colpiti a morte con le loro baionette.
La Luftwaffe nel contempo continuava ad effettuare attacchi a ritmo vertiginoso, tra luglio e novembre 1942 furono contate un totale di 133.000 missioni. Il problema era che diventava sempre più difficile, in un caos di macerie e incendi, identificare bersagli. Per il personale di terra preparare un aereo per il decollo tre, quattro, cinque volte al giorno non concedeva un momento di respiro. L’esercito continuava a chiedere l’appoggio aereo, tuttavia i piloti non ritenevano di ottenere molto continuando a martellare una terra desolata di capannoni di fabbriche incendiate e sventrate, dove non era rimasto in piedi neppure un muro.
Secondo quanto sosteneva Žukov, quelli “furono giorni molto difficili per Stalingrado”. I funzionari dell’ambasciata americana a Mosca erano sicuri che la città fosse perduta e l’atmosfera al Cremlino era carica di elettricità.
Il 16 settembre, fu consegnata a Stalin la trascrizione di un messaggio intercettato di Berlino in cui si annunciava la presa di Stalingrado. Al telefono dettò un messaggio a Erëmenko e Chruščëv: “Riferite qualcosa di comprensibile su quello che succede a Stalingrado. È vero che Stalingrado è stata catturata dai tedeschi? Datemi una risposta chiara e veritiera. L’aspetto immediatamente”.
In effetti la crisi era già passata. La divisione di Rodimcev era arrivata appena in tempo.
Dal punto di vista tattico la difesa sovietica era imperniata sui cosiddetti “punti fortificati”, organizzati in una serie di solidi edifici in pietra o mattoni, spesso già in parte incendiati, occupati, a secondo delle dimensioni dello stabile, da squadre, sezioni o compagnie di fucilieri. I punti fortificati erano collegati tra loro da trinceramenti e gli intervalli erano coperti dal fuoco delle armi automatiche o dei cannoni e da ostruzioni, da campi di mine e trappole esplosive; i difensori si organizzavano in difesa circolare e disponevano di risorse per continuare a battersi anche isolati.
Mentre continuava l’aspra lotta per il Mamaev Kurgan, una battaglia altrettanto feroce si era sviluppata attorno all’enorme silo granario di cemento sulla riva del fiume. Il 18 settembre, i circa 50 difensori (35a divisione Guardie) respinsero dieci attacchi, ormai senza nemmeno più acqua da bere, nel silo pieno di fumo e polvere, aveva preso fuoco persino il grano. Il 20 settembre arrivarono altri mezzi corazzati tedeschi per finirli. Quella notte stessa riuscirono a spezzare l’accerchiamento dovendo, però, abbandonare i feriti. I tedeschi stessi non potevano considerarla una grande vittoria.
In quei giorni le difese di questi edifici semi fortificati costarono parecchi uomini ai tedeschi. Queste “guarnigioni” di soldati dell’Armata Rossa provenienti da diverse divisioni resistettero coraggiosamente, ma soffrirono terribilmente la fame e la sete. Altra violenta battaglia si svolse per la conquista del magazzino Univermag sulla piazza Rossa e in un piccolo deposito noto come “la fabbrica di chiodi”. I sovietici bloccarono soverchianti forze per ben cinque giorni, ritirandosi poi sulla riva del Volga, dove vennero recuperati. Erano rimasti soli sei uomini.
Un esempio clamoroso di queste difese accanite, è la cosiddetta “casa di Pavlov”. Era un edificio di quattro piani nel centro di Stalingrado in via Penzenskaja no 61, affacciato sulla piazza “9 Gennaio”. Si trovava in una posizione strategica dominante i quattro punti cardinali. Il 22 settembre venne ordinato ad un plotone del 3o Battaglione, 42o Reggimento Fucilieri, dipendente dalla 13a Divisione Fucilieri della Guardia di conquistarlo e tenerlo. Il suo comandante era rimasto accecato, perciò il plotone era guidato dal sergente Jakov Pavlov. Conquistò il palazzo, anche se su trenta sopravvissero solo in quattro. Nella cantina aveva scoperto molti civili che erano rimasti lì per tutta la durata dei combattimenti. Dopo alcuni giorni ricevettero rinforzi e rifornimenti. Il plotone era composto, sotto organico, di 25 uomini con l’ordine di tenere la posizione fino all’ultimo uomo e proiettile (ordine: “Non un passo indietro”).
I difensori, come i civili, resistettero fino al 25 novembre quando furono liberati da un contrattacco sovietico. La casa di Pavlov divenne un simbolo dell'ostinata resistenza dell'URSS durante la battaglia di Stalingrado e la Grande Guerra Patriottica in generale.
Pavlov, per le sue gesta, venne insignito del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica.

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Casa di Pavlov nel 1943 ed oggi con il monumento commemorativo.

Delle conquiste tedesche nel centro della città, per i sovietici la più pericolosa fu l’avanzata verso il molo d’approdo principale. Ciò permetteva di colpire notte e giorno gli attraversamenti più importanti. I tedeschi erano decisi a interrompere l’afflusso di rifornimenti e viveri ai difensori.
I resti della stazione ferroviaria, dopo avere cambiato mano quindici volte in cinque giorni, finirono per essere occupati dai tedeschi.
Rodimcev d’accordo con Čujkov, ordinò che la linea del fronte fosse stabilita a non più di 50 metri dal nemico, in modo da rendere difficili le operazioni dell’artiglieria e dell’aviazione. Gli uomini della sua divisione andavano particolarmente orgogliosi della loro mira. “Ogni soldato della Guardia sparava come un cecchino” e perciò “costringevamo i tedeschi a strisciare, non a camminare”.
I soldati tedeschi con gli occhi arrossati dalla fatica, dai duri combattimenti e dal dover piangere molti più camerati di quanto si fossero aspettati, non avevano più lo stato d’animo trionfale di solo una settimana prima. Avevano scoperto che il fuoco d’artiglieria era più impressionante in città. Ogni volta che un edificio veniva colpito, dall’alto piovevano schegge e pezzi di muratura. In una zona a così alta densità di truppe, un soldato doveva diventare più consapevole della guerra a tre dimensioni, con il pericolo dei cecchini sugli edifici più alti. Doveva anche guardare il cielo, quando arrivava la Luftwaffe, doveva accucciarsi a terra esattamente come il nemico. E il rumore assaliva i nervi senza sosta: l’ululato degli stuka, il tuono della contraerea e dell’artiglieria, il ruggito dei motori, il sibilo dei lanciarazzi, gli spari. Ma erano le urla dei feriti a impressionare più gli uomini.
Il 23 settembre, la 284a divisione fucilieri, formata per lo più da siberiani, venne lanciata in un tentativo di riprendere il molo e collegarsi con le truppe sovietiche a sud della Tzaritza. Le divisioni tedesche pur subendo gravi perdite respinsero l’assalto.
Con prevedibile costanza i tedeschi continuarono i tentativi di spezzare la resistenza nel settore meridionale di Stalingrado. Due giorni più tardi, forti di mezzi corazzati riuscirono a sfondare, provocando il panico in due brigate della milizia che erano in pratica già senza viveri e munizioni. Tuttavia il crollo era cominciato dai vertici. Il comandante della 42a brigata speciale, con la scusa di doversi consultare con lo Stato Maggiore dell’esercito abbandonò le sue truppe. Con la medesima scusa, lo stesso fecero il comandante e il commissario della 92a brigata speciale, ma in realtà si rifugiarono al sicuro sulla vasta isola di Golodnj in mezzo al Volga. Il comando fu assunto da un maggiore che, però, non poteva comunicare con il comando perché gli specialisti radio erano fuggiti col comandante. Questi, nel tentativo di nascondere la verità, aveva continuato a spedire al comando falsi rapporti, ma scoperto, fu mandato sotto processo. Non è difficile immaginare la sua sorte.
Il 26 settembre, le brigate che non potevano ormai più resistere vennero evacuate al di là del fiume. Tutto il settore meridionale di Stalingrado adesso era in mano ai tedeschi.


5 Alfred Jodl (Würzburg, 10 maggio 1890 – Norimberga, 16 ottobre 1946) è stato un generale tedesco. Capo di Stato Maggiore dell'OKW durante la Seconda guerra mondiale. Imputato al processo di Norimberga, Jodl fu ritenuto responsabile, insieme a Keitel, della condotta tenuta dalla Wehrmacht nei confronti delle popolazioni dei paesi occupati e dei prigionieri di guerra. Giudicato colpevole di tutti i capi d'accusa e condannato a morte, fu il penultimo a salire sul patibolo nella camera delle esecuzioni del carcere di Norimberga. Al momento dell'esecuzione gridò: "Ti saluto, Germania mia". Il 28 febbraio 1953 fu riabilitato postumo da una corte tedesca, che lo riconobbe non colpevole di crimini contro le leggi internazionali imputatigli al processo di Norimberga.
6 Walter Warlimont (Osnabrück, 3 ottobre 1894 – Kreuth, 9 ottobre 1976) è stato un generale tedesco. Fu uno dei principali ufficiali del Comando Supremo delle Forze Armate tedesche (OKW) nel corso della Seconda guerra mondiale. Nonostante fosse stato uno degli ufficiali più vicini a Hitler sin dall'inizio della guerra, Warlimont fu comunque sospettato di aver avuto contatti con gli attentatori del Führer. Ciò gli valse una progressiva sfiducia da parte dei suoi superiori e dello stesso Hitler, che lo portarono a richiedere di essere esonerato dal suo incarico nell’OKW il 5 agosto del 1944. Collocato a riposo nella riserva ufficiali, attese la fine della guerra nel maggio del 1945. Fatto prigioniero dagli Alleati, fu processato e condannato per crimini di guerra. Nel 1957 beneficiò di un'amnistia e fu rilasciato, dedicandosi così alla pubblicazione delle sue memorie.
7 I russi non usavano mai la parola nazisti, usando invece esclusivamente il termine fascisti.
8 Non ci sono dubbi che la propaganda sulla "violazione" nella tarda estate del 1942 contribuì in modo significativo agli stupri di massa commessi dall'Armata Rossa durante la sua avanzata nel territorio tedesco alla fine del 1944 e nel 1945. È stato calcolato che sono state stuprate (e molte volte dopo uccise) circa 2.000.000 di donne tedesche.
9 Aleksandr Rodimcev (Šarlyk, 8 marzo 1905 – Mosca, 13 aprile 1977) generale dell’Armata Rossa, famoso per l’estremo sprezzo del pericolo in battaglia, due volte decorato come Eroe dell’Unione Sovietica nel 1937 e nel 1945 per atti d’eroismo durante la guerra civile spagnola e nella battaglia di Stalingrado.

STALINGRADO

La guerra di topi

“I cani aspettavano la notte, poi si lanciavano nelle acque del Volga e nuotavano, disperatamente, verso l’altra sponda. In quell’inferno, anche gli animali impazzivano: solo gli uomini resistevano”. (Dal diario di un tenente della 24a Panzerdivision)


La frustrazione di Hitler per i mancati successi nel Caucaso, produsse il 24 settembre l’esonero del generale Halder, capo di Stato Maggiore dell’esercito. Da tempo i due non si sopportavano più. Halder era esasperato dalle continue intromissioni ossessive e stravaganti di quello che considerava un dilettante, mentre il Führer considerava ogni critica implicita alla sua leadership come il risentimento reazionario di generali che non condividevano la sua stessa volontà di vittoria.
La preoccupazione di tenere sotto controllo lo Stato Maggiore divenne una lotta a sé stante. Non era difficile immaginarne le conseguenze. Una situazione pericolosa poteva facilmente trasformarsi in un disastro. Hitler meditò vasti cambiamenti in seno all’Oberkommando della Wehrmacht (OKW), ma poi si tenne le persone che conosceva bene.
Jodl riottenne l’incarico e il servile generale von Keitel10 rimase al suo posto per assicurare Hitler del suo genio militare e aiutarlo nella nazificazione dell’esercito. Gli ufficiali dell’esercito si riferivano a lui con il nomignolo di Lakeitel “lacchè”, ma disprezzavano anche altri generali per la loro codardia morale.
Paulus, nel frattempo, era sottoposto a critiche e pressioni giornaliere per non aver preso Stalingrado. La tensione aggravava i suoi attacchi di dissenteria, il tic di cui soffriva sul lato sinistro del volto si era accentuato. Al comando della 6a armata, nel villaggio di Golumbinskij sulla riva occidentale del Don, le mappe dicevano che gran parte della città era conquistata e le perdite sovietiche erano almeno il doppio di quelle tedesche. Poteva solo sperare che Hitler avesse ragione quando diceva che il nemico avrebbe esaurito le scorte da un momento all’altro. Ma anche le sue risorse stavano diminuendo rapidamente e l’incredibile tenacia del nemico sbigottiva tutti quanti.
La maggior parte delle critiche si basava sul fatto che la 6a armata (270.000 uomini), con due corpi della 4a Panzerarmee, era la formazione più grande di tutto l’esercito tedesco.
Osservatori esterni senza alcuna esperienza di combattimenti non potevano capire il problema. Si può anche sostenere che Paulus avrebbe potuto usare meglio le sue truppe, ma c’era da considerare che mentre otto divisioni erano impegnate nei combattimenti in città, altre undici coprivano un fronte di oltre 200 chilometri attraverso le anse più o meno grandi del Don, e poi nella steppa fino al Volga a nord di Rjnok, oltre a una striscia a sud di Stalingrado di fronte a Betetovka. Di riserva rimaneva solo una divisione. I fianchi di questo grande fronte erano sottoposti a continui attacchi sovietici che tentavano di alleggerire la pressione su Stalingrado.
In città, poi, il combattimento si svolgeva in maniera completamente diversa, era una nuova forma di guerra. I resti della guerra convenzionale, carri bruciati, proiettili, contenitori di bombe a mano, erano mischiati con le rovine delle case, letti, lampadari, utensili da cucina. Non era inusuale che un osservatore d’artiglieria ai piani alti di uno stabile in rovina scrutasse con un periscopio attraverso un buco di proiettile di una parete, seduto su una sedia da cucina.
I fanti tedeschi detestavano questo tipo di combattimenti casa per casa. Consideravano gli scontri troppo ravvicinati, che andavano oltre i limiti e le dimensioni convenzionali della battaglia, psicologicamente sconcertanti. In un edificio di quattro piani, durante l’ultima fase della battaglia di settembre, si era verificata una situazione simile a quella “di una torta a più strati”, con i tedeschi all’ultimo piano, i russi al piano inferiore e altri tedeschi sotto di loro. I tedeschi, a Stalingrado, persero tutti i vantaggi della Blitzkrieg (guerra lampo) e sotto molti aspetti dovevano ricorrere a tattiche risalenti alla prima guerra mondiale.
A suo modo, la battaglia di Stalingrado era ancora più terrificante dei grandi scontri della guerra precedente. Il combattimento a distanza ravvicinata negli edifici in rovina, nei bunker, nelle cantine e nelle fogne, venne presto chiamato dai soldati tedeschi Rattenkrieg, Guerra di ratti. Possedeva una selvaggia intimità che sgomentava i generali, i quali oltretutto pensavano che ormai stavano perdendo il controllo sugli eventi. Erano combattimenti formati da imboscate dalle cantine, da resti di muri, da bunker nascosti e rovine di fabbriche, con gravi perdite tra le truppe.
La tattica di Čujkov consisteva nell’organizzare degli edifici rinforzati, occupati da fanteria con fucili controcarro e mitragliatrici, con lo scopo di spezzettare gli attacchi di massa dei tedeschi e incanalarli verso siti dove li aspettavano T-34 e cannoni mimetizzati e semisepolti tra le rovine. Čujkov comunque capì che in quella situazione, le armi principali sarebbero state i mitra, le bombe a mano e i fucili di precisione dei cecchini.
Gli attacchi notturni con squadre d’assalto di sei o sette uomini, quando la Luftwaffe non poteva agire, erano, da parte russa, favoriti. Sempre durante la notte venivano posate dai genieri fino a trenta mine. Attraverso un passaggio sotterraneo era stato fatto saltare un caposaldo tedesco posando sotto di loro 150 kg di esplosivo.

Ljudmyla Pavličenko
Ljudmyla Pavličenko abilissima tiratrice scelta sovietica.

Gli attacchi di notte mettevano una grande pressione psicologica sui fanti tedeschi. Essi temevano particolarmente i fucilieri siberiani, considerati dei cacciatori naturali. “Se solo potessi spiegarti che cos’è il terrore”, scriveva un soldato tedesco in una lettera trovata dai russi. “Al minimo fruscio tiro il grilletto e sparo raffiche a tutto spiano con la mitragliatrice.” La smania di far fuoco su tutto quello che si muoveva di notte, che spesso dava il via a scambi di colpi tra sentinelle nervose in un intero settore, contribuì sicuramente ai 25 milioni di proiettili sparati dai tedeschi nel solo mese di settembre. Anche l’aviazione dell’Armata Rossa attaccava di notte, in parte per evitare la caccia tedesca, ma anche come parte del processo di indebolimento mirante a logorare i nervi dei tedeschi. Dagli studi su casi di stress da combattimento si può evincere solo che il tasso deve aver cominciato a innalzarsi rapidamente in settembre, quando la guerra di movimento si è trasformata in guerra di posizione. Le perdite dovute a cause psicologiche dovrebbero essere aumentate, se si crede agli studi inglesi riferiti ad Anzio e in Normandia, non appena le truppe vennero inchiodate nelle loro posizioni o circondate.
Le “guarnigioni” che occupavano gli edifici fortificati, così importanti per la strategia di Čujkov, e che comprendevano giovani donne addestrate a fare le infermiere e le radiotelegrafiste, soffrivano di grandi privazioni quando venivano tagliate fuori per giorni interi. Dovevano sopportare la polvere, il fumo, la fame e, peggio di tutto, la sete. La città era rimasta completamente senza acqua fresca da quando la stazione di pompaggio era stata bombardata in agosto. Conoscendo le conseguenze micidiali di bere acqua inquinata, soldati disperati sparavano alle tubature nella speranza di ricavare qualche goccia. Il rifornimento di viveri alle posizioni avanzate era un problema continuo. Un distaccamento controcarro aveva come cuoco un tartaro che si legava alla schiena un grosso contenitore pieno di tè o di zuppa e strisciava fino alle prime linee sotto il fuoco del nemico. Se l’involucro veniva colpito da una pallottola, il povero cuoco ne rimaneva inzuppato. In seguito quando il freddo divenne insopportabile, il tè o la zuppa congelavano e il tartaro era “coperto di ghiaccioli, quando ritornava alla base”.
Con le linee del fronte mal definite e una difesa in profondità di poche centinaia di metri in alcune zone, le postazioni arretrate erano quasi sempre vulnerabili come quelle avanzate. Il colonnello Višnevkij della 62a armata scriveva: “Non era insolito che sopra il posto di comando esplodessero proiettili. A volte sembrava che i tedeschi fossero dappertutto intorno a noi.” Un carro arrivò fino all’entrata del bunker e “il suo scafo bloccava l’unica via d’uscita”. Višnevkij e i suoi ufficiali dovettero scavare per mettersi in salvo dalla parte opposta. Il colonnello fu ferito gravemente.
I bunker dei comandi tedeschi non correvano gli stessi rischi di essere sopraffatti durante settembre e ottobre: Il pericolo principale era un colpo diretto dell’artiglieria pesante dall’altra parte del Volga. Sentendosi più coraggiosi alla luce del giorno, i tedeschi urlavano insulti e minacce dalle loro linee.
Durante le tregue della battaglia, tutti i soldati cercavano il calore del sole, al riparo dal tiro dei cecchini. Per i russi la razione di tabacco grezzo era una preoccupazione costante, soprattutto se non arrivava. I soldati russi fumavano continuamente durante gli scontri. Ancora più importante della razione di tabacco era quella di vodka, in teoria 100 grammi al giorno. La tensione era tale che la razione non era mai sufficiente e i soldati erano disposti a coprire lunghe distanze per ottenerne le quantità che volevano. Si beveva alcol metilico e persino il liquido anticongelante dopo averlo filtrato attraverso il carbone attivo delle maschere antigas. Il risultato poteva essere molto peggio di un banale mal di testa, chi esagerava diventava cieco.
Capitava di rado che i comandanti dell’Armata Rossa considerassero essenziali i reparti di sanità. Un soldato ferito gravemente non poteva tornare in battaglia e gli ufficiali superiori erano preoccupati solo di sostituirlo. Eppure questo atteggiamento non scoraggiava il personale medico e paramedico del campo di battaglia di Stalingrado, un gruppo di persone di grande coraggio, costituito per lo più da studentesse o da neo diplomati con scarsissimo addestramento di pronto soccorso. Il sacrificio degli assistenti di sanità spesso andava sprecato durante le vicende che seguivano i loro arditi salvataggi. I feriti trasportati o trascinati sulle rive del Volga venivano lasciati senza cure fino a quando, molto dopo il calar della notte, erano caricati come sacchi di patate sulle imbarcazioni dei rifornimenti rimaste vuote nella traversata di ritorno. Scaricati i feriti sulla riva orientale, le condizioni potevano essere ancor peggiori, come aveva scoperto una donna pilota.
I superstiti di un reggimento di aviazione disperso che aveva passato la notte in un bosco a est del Volga, si erano svegliati all’alba in seguito a strani suoni. Spintisi fino alla riva per indagare. Qui avevano visto “migliaia di feriti, fin dove arrivava lo sguardo”, lasciati sulla riva sabbiosa, dopo essere stati trasportati attraverso il Volga durante la notte. I feriti chiedevano acqua o “urlavano e piangevano, avendo perso braccia o gambe”. La sopravvivenza non era garantita anche se il ferito raggiungeva uno dei venti ospedali da campo. Nonostante la presenza di validi medici russi, le condizioni erano più simili a quelle di una fabbrica di carne in scatola. Il vitto cattivo non contribuiva al loro recupero né a innalzarne il morale. La logica sovietica prevedeva spietatamente che le razioni migliori andassero alle truppe combattenti. Quando erano fortunati i feriti ricevevano tre porzioni al giorno di una specie di polenta. Il personale sanitario spesso dava letteralmente il sangue nell’esercizio della sua funzione, a volte anche due trasfusioni la sera, e spesso collassava. “Se non danno il sangue”, spiegava un rapporto, “i soldati moriranno”.
Nella grande battaglia d’attrito, l’invio di feriti sulla sponda orientale doveva essere compensata da “carne da cannone” fresca col percorso inverso. Lo STAVKA alimentava col contagocce la 62a armata mandando divisioni di rinforzo solo quando le precedenti erano ridotte a pezzi. I nuovi battaglioni s’imbarcavano di notte sotto gli occhi vigili delle truppe dell’NKVD. C’erano uomini dell’NKVD anche sulle imbarcazioni, se qualcuno si faceva prendere dal panico, un sergente od un ufficiale sparava al trasgressore sul posto e ne gettava il corpo fuori bordo.
Il comando della 6a armata sapeva che non c’era da perdere tempo con l’inverno alle porte e, ancora prima della presa del silo granario e della Piazza Rossa, si preparava a sferrare il colpo risolutivo con la conquista anche della zona industriale situata a nord della città.
Alle 6:00 (ora tedesca11) del 27 settembre, l’offensiva iniziò con un bombardamento di stuka. Intanto a terra, un totale di due divisioni di fanteria avanzavano per spezzare il principale saliente a forma di triangolo il cui vertice era rivolto a ovest rispetto alla sponda del Volga.
La 62a armata anticipò la spinta principale dell’operazione tedesca a nord del Mamaev Kurgan con diversi attacchi di disturbo sul fianco meridionale. Il principale sforzo sovietico era concentrato sulla preparazione di ostacoli anticarro e di estesi campi minati di fronte alle principali fabbriche che si estendevano a nord del Mamaev Kurgan per nove chilometri (l’impianto chimico Lazur, l’acciaieria Ottobre Rosso, la fabbrica d’armi Barricata e la fabbrica di trattori).
I landser (il fante tedesco) cominciarono ad avanzare, sulla sinistra la 389a divisione di fanteria si preparava ad avanzare verso le unità abitative degli operai della fabbrica Barricata. La 24a Panzerdivision avanzava da un piccolo aeroporto. La 100a divisione austriaca Jäger (cacciatori) attaccò gli edifici in cui vivevano gli operai della Ottobre Rosso. Nel frattempo, alla base di questo fianco, la cima del Mamaev Kurgan fu ripresa dalla 95a divisione fucilieri di Gorišnji, falcidiata dai bombardamenti aerei e d’artiglieria.
L’Armata Rossa si dimostrò ancora una volta spietata verso la popolazione civile. Durante i combattimenti per gli edifici degli operai, fu notato che le donne russe che uscivano dagli edifici con i loro involti e cercavano di trovare riparo dal fuoco correndo verso i tedeschi venivano falciate da dietro dalle mitragliatrici russe.
L’attacco era stato così violento che Čujkov rifletté: “Ancora una battaglia come questa e finiremo nel Volga”.

Avanzamento tedesco 1942
Avanzamento tedesco da settembre a novembre 1942.

La mattina dopo, il 28 settembre, la Luftwaffe concentrò i suoi attacchi sul fiume e sulla riva occidentale per distruggere le linee di rifornimento. Intanto i sovietici riuscirono a far sloggiare il nemico dal Mamaev Kurgan, ma la sommità divenne terra di nessuno. Il compito principale di Čujkov era impedire ai tedeschi di stabilirvi una postazione d’artiglieria.
Il 29 settembre, i tedeschi cominciarono ad attaccare il vertice del restante triangolo in mano ai sovietici. Il villaggio di Orlovka fu assalito da ovest e da nord-est. La resistenza delle truppe sovietiche inferiori di numero fu disperata.
Il 30 settembre, armate sovietiche a nord attaccarono sul fronte del Don per alleggerire la pressione su Stalingrado, senza però riuscirvi, ma costarono ai tedeschi dieci giorni di sforzi per respingerle.
La 24a Panzerdivision, gran parte della 389a e della 100a avanzarono verso l’acciaieria Ottobre Rosso e la fabbrica d’armi Barricata, un enorme complesso industriale. Il fuoco diventava sempre più intenso, non solo davanti, ma anche ai lati. Le urla di richieste di infermieri aumentavano.
I rinforzi sovietici riuscivano a malapena a compensare le perdite. Čujkov si domandava se sarebbe riuscito a tenere quella striscia di terra che diventava sempre più sottile. Sapeva che i suoi reggimenti avevano inflitto pesanti perdite al nemico pur pesantemente martellati, ma l’esito della battaglia dipendeva sia dai nervi sia dalle risorse. Ancora una volta, non avevano altra scelta che appropriarsi del motto della 62a armata: “Per i difensori di Stalingrado non c’è terra sull’altra riva del Volga”. E questo diventò un vero e proprio giuramento d’onore per molti soldati.
Anche i comandanti tedeschi erano allarmati. I loro uomini erano spossati e il morale ne soffriva. I cimiteri tedeschi dietro le linee continuavano a diventare sempre più grandi.

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10 Wilhelm Keitel (Helmscherode, 22 settembre 1882 – Norimberga, 16 ottobre 1946) è stato un generale (feldmaresciallo) tedesco. Fu il capo dell'Oberkommando della Wehrmacht (OKW) durante la seconda guerra mondiale e uno dei principali imputati al processo di Norimberga, dove venne giudicato colpevole per crimini di guerra e contro l'umanità e condannato a morte. Fu il secondo ad essere impiccato, subito dopo Joachim von Ribbentrop, nelle prime ore del mattino del 16 ottobre 1946.
11 Hitler pretendeva che l’orario dei rapporti fosse quello basato sul fuso in Germania.

STALINGRADO

Combattere e vivere a Stalingrado

“Noi russi eravamo ideologicamente preparati alla battaglia di Stalingrado”, dichiarò un ufficiale veterano. “Soprattutto non ci illudevamo sul prezzo da pagare ed eravamo disposti a pagarlo”. Per amor di verità, bisognerebbe aggiungere che lo stato sovietico e forse gran parte dei soldati non si facevano illusioni.
Le autorità sovietiche erano spietate. Čujkov scrisse: “Nella città in fiamme non tolleravamo i codardi, non c’era posto per loro”. Tutti erano al corrente della citazione di Lenin alla quale si era rifatto Stalin: “Chi non aiuta l’Armata Rossa in tutti i modi e non collabora al suo ordine ed alla sua disciplina, è un traditore e deve essere ucciso senza pietà”. Qualsiasi “sentimentalismo” era bandito. In una guerra totale, c’era la possibilità che la giustizia militare sbagliasse, proprio come le truppe di prima linea rischiavano di essere colpite dal fuoco amico.
Creare una disciplina ferrea all’inizio fu difficile. Solo dai primi di Ottobre, il dipartimento politico fu in grado di riferire a Mosca che “l’atteggiamento disfattista” era quasi del tutto eliminato e il numero degli atti di viltà e tradimento continuava a diminuire.
Che il regime sovietico fosse inesorabile verso i propri soldati, come verso il nemico, è dimostrato dalla cifra globale di 13.500 esecuzioni, sommarie e dopo un processo, durante la battaglia di Stalingrado. Vi erano comprese tutti i crimini classificati dai commissari come “eventi straordinari”: dalla ritirata senza ordini precisi, alle ferite auto inflitte, alla diserzione, al passaggio al nemico, alla corruzione e alle attività antisovietiche. I soldati dell’Armata Rossa erano considerati colpevoli anche se non sparavano ai compagni colti nell’atto di disertare o di arrendersi al nemico. In un’occasione, nel tardo settembre, quando un gruppo di soldati sovietici si arrese, i carri tedeschi avanzarono rapidamente per proteggerli dal fuoco proveniente dalle loro stesse linee.
Le unità più deboli erano le brigate speciali della milizia, formate da operai delle fabbriche della zona settentrionale. Dietro di loro c’erano reparti di volontari ben armati del Komsomol o distaccamenti dell’NKVD a impedire qualsiasi ritirata. Nel caso della 124a brigata speciale opposta alla 16a Panzerdivision a Rjnok (zona del settore nord), i gruppi di blocco dietro le linee, in pratica, costrinsero tutti quelli che cedevano allo stress dei combattimenti a passare al nemico.
Il tenente Smolensk, catturato durante la battaglia del Don in agosto, era poco dopo riuscito a fuggire. Tornato all’Armata Rossa per riprendere il suo posto, “era stato arrestato in base all’ordine di Stalin, accusato di diserzione” e inviato a una compagnia di punizione.
Gli archivi sovietici hanno notevole importanza per capire la mentalità dell’epoca. Quando tre soldati del 178o reggimento fucilieri della riserva disertarono, a un tenente fu ordinato di andare a prendere altri tre uomini, civili o militari che fossero, per rimpiazzare le perdite.
Molti disertori, se non la maggioranza, provenivano da gruppi di rincalzi civili arruolati per mantenere il numero di uomini prestabilito per ogni unità.
Di solito il condannato veniva portato davanti ad un distaccamento Guardie del dipartimento speciale dell’NKVD in un luogo apposito dietro le linee. Qui gli veniva ordinato di spogliarsi, in modo che l’uniforme e gli stivali potessero essere riutilizzati.
In molti casi veniva perseguita anche la famiglia del condannato in base all’ordine 270, i commissari del popolo ritenevano le rappresaglie essenziali, come mezzo di dissuasione per chi avesse voluto scappare.
Quando investigavano su casi di diserzione, i membri dell’NKVD esercitavano sicuramente pesanti pressioni sui sospettati perché denunciassero altri. Alcune volte l’accusato era costretto a inventarsi delle false accuse contro dei commilitoni.
I commissari addossavano la responsabilità delle diserzioni nelle unità “all’incuria e alla bontà d’animo degli ufficiali”. Ma c’erano innumerevoli casi di ufficiali che usavano il loro diritto acquisito di uccidere come provvedimento estremo da utilizzare in servizio se un soldato si rifiutava di eseguire un ordine o si ritirava dal campo di battaglia. Tuttavia, in una rara occasione, le autorità stabilirono che gli ufficiali erano stati troppo duri. “Durante la notte dal 17 al 18 ottobre, due soldati si allontanavano dalla 204a divisione fucilieri della 64a armata. Il comandante di reggimento e il commissario ordinarono al comandante di compagnia di giustiziare il comandante di plotone cui appartenevano i due uomini che avevano disertato”. Il giovane sottotenente diciannovenne aveva raggiunto il reggimento solo cinque giorni prima e conosceva a malapena i due disertori del suo plotone. “Il comandante di compagnia ubbidì all’ordine. Andò nella sua trincea e, in presenza del commissario, gli sparò colpendolo a morte”.
Un altro problema per i commissari, delicato da un punto di vista politico-propagandistico, era che la metà dei soldati non era di nazionalità russa. “E’ difficile lavorare con loro e fargli capire le cose”, riferiva un tenente russo. La mancanza di familiarità con le moderne tecnologie aumentava le probabilità di farsi prendere dal panico durante un attacco aereo per esempio. Difficoltà nelle comunicazioni verbali e le conseguenti incomprensioni non facevano che peggiorare la situazione. Unità formate da kazaki, uzbeki e tartari subivano perdite pesantissime.
I commissari capivano il problema, ma la loro unica soluzione era l’indottrinamento politico “ai più alti e nobili fini dei popoli dell’Unione Sovietica, spiegando il valore del giuramento militare e la legge che punisce il tradimento verso la Madrepatria”. L’indottrinamento non può avere avuto molto successo, perché era chiaro che molti non avevano la minima idea di quale fosse l’essenza della guerra.
Un altro problema dei commissari era di natura burocratica. Spesso era difficile, se non impossibile, classificare gli eventi straordinari, poiché in molti casi non si sapeva se un soldato aveva semplicemente disertato o era passato al nemico. Soldati mandati a fare un servizio, che non tornavano potevano essere morti o avere disertato. Gli ufficiali spesso non riuscivano o non volevano contare con precisione i loro uomini per ottenere razioni extra di vettovagliamenti. Quindi potevano verificarsi casi di soldati assenti perché trovati feriti e portati in ospedale, che tornati guariti alla loro unità, potevano ritrovarsi nell’elenco dei traditori ed essere condannati come tali.
Pur nelle difficoltà di tenere delle statistiche, è stato calcolato una media di 446 diserzioni nel mese di settembre. Gli ufficiali spesso dovevano fare dei turni di guardia in trincea per sorvegliare i loro uomini.
Le ferite auto inflitte erano considerate come diserzione per disonestà. Se accertato tale reato veniva punito con la fucilazione sommaria. Un tenente diciannovenne, accusato di essersi sparato al palmo sinistro con un mitra, venne giustiziato davanti a un gruppo di ufficiali del suo reparto. Il rapporto sottintende, con logica per nulla convincente, che la sua colpa era evidente perché aveva “cercato di nascondere il crimine mettendo una benda attorno alla mano”.
La ferita auto inflitta definitiva era il suicidio. Come la Wehrmacht, anche le autorità sovietiche lo definivano “un segno di codardia”. Anche la definizione di codardia poteva assumere diverse forme. Un pilota, lanciatosi dal suo aereo in fiamme, strappò subito la sua tessera del partito comunista, perché pensava di essere finito dietro le linee tedesche. Tornato alla base, il commissario lo accusò di codardia in base all’Ordine 270 di Stalin, anche se la propaganda sovietica sottolineava il fatto che i tedeschi giustiziavano i comunisti sul posto.
L’NKVD e il dipartimento politico del fronte di Stalingrado lavoravano di concerto su ogni accenno di attività “antisovietica”. Per esempio, era pericoloso raccogliere volantini tedeschi anche solo per arrotolarsi una sigaretta. Anche chi criticava il regime veniva consegnato all’NKVD, come due soldati della 51a armata. Uno aveva “diffuso l’opinione fascista che i lavoratori delle fattorie collettive fossero schiavi”, e l’altro aveva detto che “la propaganda sovietica mente per sollevare il morale dell’esercito”. I casi di attività antisovietica al fronte erano rari, gli ufficiali seguivano il consiglio informale dell’esercito russo del 1812: “Quando i soldati borbottano, gli ufficiali non dovrebbero ascoltare”. Molti riconoscevano che in guerra, quando gli uomini affrontano la morte, c’è bisogno di dire ciò che si pensa. I soldati in prima linea affrontando continuamente il rischio di venire uccisi erano incuranti dei commissari e degli informatori del dipartimento speciale. Con le trincee vicino a quelle dei tedeschi, non sembrava esserci grande differenza tra una pallottola nemica e la razione finale dello Stato sovietico, i “nove grammi di piombo” dell’NKVD.
La maggior parte dei casi riferiti di attività antisovietiche si verificò dietro le linee. Era molto probabile che le reclute appena arrivate fossero denunciate dai loro stessi compagni non appena si lamentavano di qualcosa, in più c’era la paranoia dell’NKVD, che era senza limiti.
Gli articoli dei giornali esaltavano l’eroica leadership del compagno Stalin affermando che i soldati andavano all’attacco inneggiando al suo nome, ma si trattava di pura propaganda. Juri Bela, poeta e soldato, aveva scritto in versi: “Per essere onesti/nelle trincee l’ultima cosa cui pensavamo/era Stalin”.
Per quanto la stampa sovietica giocasse sulle storie di eroismo personale, la totale mancanza di rispetto delle autorità per l’individuo a Stalingrado era ampiamente confermata dalla propaganda. I giornali avevano ripreso lo slogan all’apparenza coniato da Čujkov durante una riunione, “Ogni uomo deve diventare una delle pietre della città”.
Anche la politica amministrativa quotidiana confermava l’impressione che i soldati fossero considerati come articoli di poco conto. Stivali nuovi ed equipaggiamento erano riservati alle nuove armate in via di formazione nelle retrovie. Per i soldati di prima linea di Stalingrado, gli equipaggiamenti venivano dai corpi dei compagni morti. Nulla si sprecava di chi moriva. Gli uomini venivano mandati di notte nella terra di nessuno a spogliare i cadaveri dei loro indumenti. La vista dei cadaveri dei compagni caduti lasciati seminudi all’aperto ripugnava a molti. Con l’arrivo dell’inverno, le tute mimetiche da neve divennero particolarmente preziose. Un sodato ferito cercava sempre di togliersi la tuta immacolata prima che si sporcasse di sangue. Era un fatto ben noto tra i soldati che quelli feriti troppo gravemente per togliersi la mimetica bianca, chiedessero scusa per le macchie, a quelli che erano venuti a prenderle.
Molti rifiutavano l’idea che a Stalingrado fossero tutti diventati dei bruti indifferenti a tutto, ma la verità era che in una battaglia di tale orrore si poteva pensare solo a sopravvivere per il resto della giornata e persino di un’altra ora. Sperare in qualcosa di più o nel futuro era un pericoloso sogno a occhi aperti.
I soldati avevano almeno una specie di scopo e razioni più o meno regolari per tirare avanti, ma i civili intrappolati a Stalingrado non avevano praticamente niente. Come, più di 10.000 persone, tra cui 1.000 bambini, fossero ancora vivi tra le rovine della città dopo più di cinque mesi di battaglie, continua a essere l’aspetto più incredibile di Stalingrado. Più di 500.000 civili erano rimasti intrappolati dopo i primi bombardamenti di agosto, in parte a causa del fatto che l’NKVD controllava il traffico fluviale.
L’ultima evacuazione fu tragica, oltre che caotica. Il traghetto pericolosamente stracarico non ammise più nessuno a bordo, quelli rimasti sulla riva, ormai non speravano più, guardarono il traghetto allontanarsi, ma poi a circa cinquanta metri dal molo, fu colpito da una bomba ed affondò in fiamme.
Molti civili non avevano nemmeno fatto in tempo ad avvicinarsi al fiume, poiché erano rimasti tagliati fuori dalla rapida avanzata tedesca. Hitler aveva ordinato lo sgombero della città dai civili, ma il primo esodo fu più spontaneo che organizzato, lunghe colonne di abitanti di Stalingrado si avviarono a piedi con i loro miseri averi stipati in valigie o carretti. Molti furono investiti dal fuoco dell’artiglieria. Ma chi era riuscito a fuggire nei territori occupati dai tedeschi non aveva molte speranze di trovare cibo. I distaccamenti della 6a armata avevano già requisito tutti i raccolti ed il bestiame della regione per nutrire i soldati.
Le molte migliaia di donne e bambini in città cercarono rifugio nelle cantine, nelle fogne e nelle grotte scavate dentro le rive scoscese. Ovviamente molti non sopravvissero.

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Benché assicurarsi un riparo fosse la priorità per eccellenza, i civili dovevano affrontare la possibilità molto concreta di non trovare né acqua né cibo. Ogni volta che c’era una tregua nei bombardamenti, donne e bambini sbucavano fuori e correvano a tagliare pezzi di carne dai cavalli morti prima che i cani randagi e i topi si dividessero le carcasse. I principali fornitori di cibo erano i bambini. Giovani, agili e piccoli, offrivano un bersaglio meno visibile. Di notte scivolavano fino al silo granario conquistato dai tedeschi. Una volta raggiunto, riuscivano spesso a riempire sacchetti o borse di grano bruciacchiato, poi correvano via, ma le sentinelle tedesche non esitavano a sparare. Anche chi cercava di rubare le scatolette di razioni tedesche veniva ucciso sul posto, sia a Stalingrado che nelle retrovie.
I soldati tedeschi usavano gli orfani della città. I compiti quotidiani, come riempire le borracce, erano pericolosi quando i cecchini russi erano appostati in attesa di qualsiasi cosa si muovesse. Perciò, con la promessa di una crosta di pane, convincevano bambini e bambine a riempire le borracce sulla riva del Volga. Quando le autorità sovietiche capirono quello che facevano questi bambini, i soldati dell’Armata Rossa ricevettero l’ordine di sparare su di loro.
Un precedente di questo comportamento già si era avuto durante l’assedio di Leningrado, quando i tedeschi usarono i civili come scudi umani. Stalin aveva immediatamente emanato l’ordine, in base al quale le truppe dell’Armata Rossa dovevano uccidere ogni civile che obbedisse agli ordini dei tedeschi, anche se sotto costrizione.
Il comando della 6a armata aveva stabilito un Kommandantur per il centro e nord della città e un altro per il sud. Ognuno aveva una compagnia di Feldgendarmerie responsabile tra l’altro della protezione dai sabotaggi e della registrazione di ogni civile evacuato. Agli ebrei fu imposto di portare una stella gialla sulla manica. Tra gli altri compiti c’era anche quello di scegliere i cittadini più “adatti” ai lavori forzati in Germania. Fonti sovietiche affermano che i tedeschi giustiziarono più di 3.000 civili durante i combattimenti e che più di 60.000 civili di Stalingrado furono deportati nel Reich per lavorare come schiavi.
Il numero degli ebrei e comunisti arrestati e consegnati alle SS non è noto. Il Sonderkommando 4a, seguendo l’avanzata della 6a armata, aveva raggiunto Nižne-Čirskaja e aveva subito massacrato due camion pieni di bambini per lo più tra i sei e i dodici anni. Era stato giustiziato anche un grande numero di funzionari comunisti e informatori dell’NKVD, denunciati dai cosacchi, le cui famiglie avevano sofferto enormemente per mano del regime.
L’ultima evacuazione di civili fu fatta agli inizi di novembre. Le sofferenze dei profughi erano fin troppo evidenti, i più avveduti presero più coperte possibile per scambiarle con cibo.
Le retate successive furono più brutali. Alla fine un’enorme folla nera fu costretta a stare sotto la prima neve. Le condizioni di vita erano spaventose. Persino la definizione di campo di concentramento era un eufemismo, dal momento che si trattava solo di vaste distese circondate da filo spinato in mezzo alla steppa. I prigionieri scavavano buche a mani nude per accovacciarcisi dentro. Appena, ai primi di novembre, la temperatura cominciò a scendere molti incominciarono a morire per il freddo.
Delle migliaia che riuscirono a sfuggire alle retate conducendo una vita da trogloditi in mezzo alle macerie “non si sa come”, quasi tutti si ammalarono a causa del cibo guasto e dell’acqua contaminata. Le donne erano costrette spesso a offrire i loro corpi emaciati per sopravvivere o per nutrire un figlio nato da poco. Ci sono anche rapporti che parlano di improvvisati bordelli tra le rovine. In diversi casi nasceva una specie d’amore tra le donne russe ed i soldati tedeschi in quelle circostanze così poco promettenti. Quasi sempre si trattava di una relazione fatale. Nel caso di una donna di Stalingrado accusata “di avere fatto segnali a un nemico con un fazzoletto bianco”, si scoprì che aveva “nascosto tre fascisti” nella sua cantina. Fu consegnata all’NKVD. I tre soldati furono fucilati sul posto.
Da quando i servizi d’informazione sovietici avevano raffinato le loro tecniche, i prigionieri tedeschi uccisi all’atto della cattura erano molto pochi. La necessità di ottenere notizie precise aumentò rapidamente in ottobre, mentre Žukov e il suo Stato Maggiore pianificavano il grande contrattacco.
Per puro spirito di sopravvivenza, i prigionieri spesso dicevano quel che pensavano i russi volessero sapere. In certi casi succedeva che si trattasse proprio della verità. “I soldati più anziani”, sostenne un caporale, “non credono nella propaganda ficcata nelle nostre teste da Göbbels. Ricordiamo sempre l’indimenticabile lezione del 1918.” A metà settembre, i soldati tedeschi catturati ammettevano apertamente che l’esercito tedesco “temeva l’avvicinarsi dell’inverno”.
Interrogatori furono eseguiti dal tenente colonnello N. D. Kaplan, vicecapo dei servizi d’informazione della 62a armata con l’aiuto del suo interprete Derkačev. Kaplan non era certo un tipo da perdere molto tempo. Dopo che un caporale gravemente ferito aveva rivelato che la 24a Panzerdivision era ridotta a 16 carri armati, annotò in fondo alla pagina: “L’interrogatorio non è stato completato perché l’uomo è morto a causa delle sue ferite”.

STALINGRADO

Gli alleati

In quel periodo un gran numero di comandanti tedeschi erano, allo stesso tempo, sbalorditi e terrorizzati dalla qualità dei rimpiazzi che ricevevano. Un comandante della 14a Panzerdivision scriveva che erano necessari provvedimenti “molto energici” per modificare “la mancanza di forza di volontà e di coraggio” dei nuovi arrivati. Ma la debolezza maggiore era costituita dalle truppe alleate, raffigurate come armate a ranghi completi nella sala riunioni del quartier generale di Hitler. Il morale degli italiani, ungheresi e rumeni era stato scosso da isolati raid partigiani contro i treni che li portavano al fronte. Cominciarono a patire gli attacchi aerei russi, anche se le perdite non erano gravi. E quando dovettero affrontare attacchi con tanto di razzi Katjuša, le truppe cominciarono a chiedersi cosa stessero facendo in quel posto.
L’aviazione sovietica lanciava volantini in ungherese, italiano e rumeno in cui si diceva di non morire inutilmente per la Germania. Questa propaganda era particolarmente efficace tra le minoranze etniche nazionali, serbi e ruteni coglievano l’occasione al volo per disertare o per arrendersi al primo attacco russo.
Uno dei problemi maggiori delle forze armate alleate era la confusione. Le unità al fronte erano continuamente soggette al fuoco d’artiglieria o ai bombardamenti da parte dei loro stessi alleati.
“Dio ci aiuti e faccia in modo che questa battaglia duri poco” scriveva il caporale Balogh. “Tutti ci stanno bombardando o sparando”. Il morale scese così in basso che le autorità ungheresi proibirono ai soldati di scrivere a casa per evitare che le loro lettere potessero creare gravi sommosse a Budapest. Persino la corruzione non funzionava. Prima di ogni attacco i soldati venivano incoraggiati con i migliori pasti possibili, ma poi molti di loro soffrivano di mal di stomaco perché non abituati.
“I russi hanno bravissimi tiratori”, scriveva Balogh il 15 settembre. “Abbiamo freddo, ma non è ancora inverno. Che cosa succederà in inverno se dovremo ancora stare qui? Aiutaci Beata Vergine, a tornare a casa.” L’argomento del giorno successivo, fu un’altra supplica a “Dio e alla Beata Vergine”, fu l’ultimo. Il diario di Balogh, recuperato dal suo cadavere vicino alla riva del Don, fu tradotto in russo pochi giorni più tardi e in seguito mandato a Mosca.
L’8a armata italiana che teneva il fianco del Don tra gli ungheresi e la 3a armata rumena, aveva creato preoccupazioni ai tedeschi fin dalla fine di agosto. Il quartier generale del Führer era stato costretto ad accettare che il XXIX corpo d’armata venisse utilizzato per rafforzare le difese italiane. Il suo Stato Maggiore aveva emanato questi consigli agli ufficiali di collegamento: “Dovete trattarli gentilmente ed è necessaria una comprensione psicologica e politica. Il clima e l’ambiente in Italia rendono il soldato italiano diverso da quello tedesco. Da una parte l’italiano si stanca più facilmente, ma dall’altra è più esuberante. Non dovete sentirvi superiori agli alleati italiani che sono coraggiosamente giunti fin qui in condizioni difficili e insolite per aiutarci. Non insultateli e non siate duri con loro”.
La comprensione non servì molto a cambiare l’evidente mancanza di entusiasmo degli italiani per la guerra. Un sergente, quando un interprete sovietico gli chiese perché il suo battaglione si fosse arreso senza sparare un colpo, rispose con ferrea logica da civile: “Non abbiamo risposto al fuoco perché abbiamo pensato che sarebbe stato un errore”.
Dal punto di vista strategico, le formazioni alleate più importanti erano le due armate rumene su entrambi i fianchi della 6a armata di Paulus. Non solo erano male equipaggiate, ma non erano nemmeno a ranghi completi. Il regime rumeno, invitato perentoriamente da Hitler a fornire altre truppe, aveva arruolato più di 2.000 detenuti civili colpevoli di stupri, rapine e omicidi. Metà di loro venne mandata al 991o Spezial Strafbattalion, ma al primo scontro con il nemico avevano disertato in numero tale che l’unità era stata sciolta e i resti trasferiti ad altra unità.
I tedeschi di ogni grado, in contatto con i loro alleati, rimanevano spesso costernati davanti al modo con cui gli ufficiali rumeni trattavano i loro soldati. Un caporale del genio notò che le cucine da campo rumene preparavano tre tipi di pasti, “uno per gli ufficiali, uno per i sottufficiali e uno per i soldati, per i quali rimaneva ben poco da mangiare”.
Durante i primi giorni del 1942, gli ufficiali dei servizi d’informazione dell’Armata Rossa avevano solo una vaga sensazione della dipendenza della Wehrmacht dagli “Hiwis”, come già detto, abbreviazione di Hilfswillige, aiutanti volontari. Alcuni erano veri e propri volontari, la maggior parte era costituita da prigionieri di guerra sovietici arruolati dai campi per supplire alle carenze di manodopera, in primo luogo come braccianti, ma sempre di più anche in combattimento.
La 6a armata aveva più di 50.000 ausiliari russi aggregati alle sue divisioni in prima linea, ovvero un quarto della sua forza. La 71a e la 76a divisione di fanteria contavano più di 8.000 Hiwis, più o meno lo stesso numero, in novembre, dei soldati di nazionalità tedesca.
Alcune categorie di Hiwis, quelli di etnia cosacca, i prigionieri che si offrono volontari o i disertori dall’Armata Rossa, indossavano uniformi tedesche complete, con gradi e distintivi. Mangiavano come i soldati tedeschi ed erano aggregati ai reggimenti tedeschi.
Molte unità cosacche, utilizzate in funzione antipartigiani, erano in realtà formate in buona parte da russi ed ucraini. Hitler detestava l’idea di Untermenschen (sub-umani) in uniformi tedesche, perciò avevano dovuto essere chiamati cosacchi, in quanto più accettabile da un punto di vista razziale. Questo rifletteva il fondamentale dissenso tra la gerarchia nazista, ossessionata dalla totale sottomissione degli slavi, e gli ufficiali di professione dell’esercito, che pensavano che la loro unica speranza fosse di comportarsi come i liberatori della Russia dal comunismo. Già nell’autunno del 1941, il servizio d’informazioni dell’esercito tedesco era giunto alla conclusione che la Wehrmacht non avrebbe potuto vincere in Russia, a meno di trasformare l’invasione in un’altra guerra civile.
Gli Hiwis indotti a lasciare i campi di prigionia tramite promesse, ben presto venivano disillusi. La disciplina era implacabile, potevano essere fucilati per la minima infrazione. Ben presto sarebbero stati mandati al fronte. “Vuol dire che ucciderete la vostra gente?” Chiese un ruteno ad un gruppo di Hiwis. “Che altro possiamo fare?” Avevano risposto. “Se torniamo dai russi, saremo trattati come traditori. E se rifiutiamo di combattere, i tedeschi ci spareranno”.
Sembra che la maggior parte dei soldati tedeschi di prima linea abbia trattato bene i propri Hiwis, anche se con un certo disprezzo. Gli uomini di un distaccamento della 22a Panzerdivision a ovest del Don erano soliti dare al loro Hiwi un cappotto ed un fucile perché facesse la guardia mentre loro andavano al villaggio a bere qualcosa, ma in un’occasione dovettero tornare di corsa a salvarlo, perché un gruppo di soldati rumeni, avendo scoperto la sua identità, avevano deciso di fucilarlo sul posto.
Per le autorità sovietiche, l’idea di ex soldati dell’Armata Rossa al servizio della Wehrmacht era intollerabile. Giunsero alla conclusione che le epurazioni e l’opera dei reparti speciali non fosse servita a molto. Il dipartimento politico del fronte di Stalingrado e l’NKVD erano ossessionati dall’uso degli Hiwis per infiltrazioni ed attacchi contro le linee russe. Nel settore della 38a divisione fucilieri (64a armata), la notte del 22 settembre, una pattuglia russa in perlustrazione si era imbattuta in una pattuglia tedesca. I soldati dell’Armata Rossa riferirono al loro ritorno che con i tedeschi c’era almeno un “ex russo”.
L’espressione “ex russo” sarebbe servita come sentenza di morte per migliaia di uomini nel corso dei tre anni successivi, mentre lo SMERŠ si dedicava al problema del tradimento, così caro al cuore di Stalin. Togliendo sommariamente agli oppositori e ai disertori l’identità nazionale, l’Unione Sovietica cercava di reprimere qualsiasi accenno alla disaffezione per la Grande Guerra Patriottica.

STALINGRADO

La grande offensiva di ottobre

Il 4 ottobre, inizio della nuova offensiva tedesca, dopo il discorso di Hitler allo Sportpalast di Berlino di quattro giorni prima, in cui sosteneva che nessuno si sarebbe spostato dalla sua posizione sul Volga, molti intuirono che alla 6a armata non sarebbe stato mai permesso di interrompere quella battaglia, indipendentemente dalle conseguenze.
Era diventata una questione di prestigio tra Hitler e Stalin.
Il grande attacco del 27 settembre alla zona industriale a nord di Stalingrado era cominciato bene, ma le divisioni tedesche capirono che i combattimenti più duri dovevano ancora arrivare. Il complesso industriale Ottobre Rosso e la fabbrica d’armi Barricata erano state trasformate in fortezze micidiali.
Due reggimenti della 308a divisione fucilieri siberiana erano stati messi a difendere la fabbrica, un terzo reggimento a presidiarne il fianco tra gli alloggi, ormai in fiamme, degli operai ed il Volga.
I siberiani senza perdere tempo si misero a scavare trincee, aprirono brecce sui muri delle officine, crearono ricoveri e bunker. Per loro fortuna i ricoveri erano pronti quando arrivarono gli Stuka e gli Heinkel 111 a bombardare, le trincee li riparavano dalle schegge, ma non dalle onde d’urto delle esplosioni che facevano tremare il terreno come un terremoto e provocavano un intenso dolore allo stomaco. Tutti i soldati inoltre rimanevano momentaneamente sordi. Questi attacchi duravano quasi tutto il giorno, sommati anche al fuoco dei mortai e dell’artiglieria.
Quando improvvisamente il fuoco tedesco cessò, i siberiani si prepararono all’attacco via terra, preannunciato dallo stridio metallico dei cingoli dei carri armati.
La fanteria tedesca avrebbe scoperto che i siberiani non avevano alcuna intenzione di aspettare standosene nelle trincee. “I russi attaccano ogni giorno all’alba ed al tramonto”, riferì un sottufficiale della 100a divisione cacciatori austriaci. La tattica era eccezionalmente dispendiosa, i generali tedeschi erano stupiti, ma dovevano riconoscere che logorava le loro truppe. Ma le misure difensive più efficaci erano il bombardamento d’artiglieria dalla sponda orientale del Volga.
In ottobre, gli attacchi tedeschi si fecero più intensi, in particolare quando giunsero i rinforzi della 94a divisione di fanteria e della 14a Panzerdivision, oltre a cinque battaglioni di genieri di prima linea. Dalla parte dei sovietici, i reparti erano completamente isolati e frammentati, ma anche senza ordini continuavano a combattere accanitamente. In questo periodo, durante un solo attacco, un battaglione di esploratori tedeschi subì il 40 per cento di perdite. Il comandante tornò dalla visita ai suoi uomini in silenzio e con il volto terreo.
Le divisioni di Čujkov erano martellate, esauste ed a corto di munizioni. Eppure il 5 ottobre ricevette l’ordine di Stalin di attaccare e riprendere le zone occupate dai tedeschi. Čujkov sapeva di non potersi attenere a istruzioni tanto assurde. Sapeva che la sua unica possibilità di resistenza dipendeva dai bombardamenti di artiglieria dall’altra parte del fiume. Comunque i tedeschi resero irrilevanti tali ordini perché, il 6 ottobre, lanciarono un massiccio attacco contro la fabbrica di trattori Stalingrado con la 14a Panzerdivision e la 60a divisione di fanteria motorizzata. Un battaglione della 60a fu praticamente distrutto da salve di Katjuša sparate alla massima gittata. L’alzo più elevato fu ottenuto facendo indietreggiare i camion con i lanciarazzi, in modo che le ruote posteriori rimanessero nel vuoto sulla ripida sponda del Volga.
Čujkov, la cui armata era ormai ridotta drasticamente in una zona ristretta della riva occidentale, pensava che ormai sarebbe stato sospinto nel fiume.
In quella seconda settimana di ottobre, vi fu una tregua. Čujkov sospettava a ragione che i tedeschi preparassero un attacco ancor più massiccio, probabilmente con rinforzi.
Hitler aveva messo sotto pressione Paulus, come Stalin con Čujkov. L’8 ottobre, aveva dato ordine alla 6a armata di preparare un’altra offensiva contro i settori settentrionali della città. L’azione doveva cominciare al massimo il 14 ottobre. Paulus e i suoi ufficiali di Stato Maggiore erano costernati dalle perdite.
Con insulti urlati e volantini, i tedeschi certo non mantenevano il segreto sui loro preparativi. L’unico problema era l’obbiettivo preciso. Le compagnie di esploratori delle divisioni sovietiche uscivano ogni notte per catturare quante più “lingue” possibile. Sentinelle sfortunate o uomini di corvée venivano trascinati nelle trincee e sottoposti a pesanti interrogatori, e il prigioniero, di solito terrorizzato dopo tutta la propaganda nazista sui metodi dei bolscevichi, non vedeva l’ora di parlare. In base a una serie di fonti, il comando della 62a armata, giunse alla conclusione che la spinta principale sarebbe stata ancora una volta diretta contro la fabbrica di trattori. Gli operai che vi erano rimasti e quelli delle officine Barricata, che avevano continuato a riparare mezzi corazzati e armi anticarro durante i combattimenti, furono arruolati nei battaglioni di prima linea o, nel caso di specialisti, evacuati dall’altra parte del Volga.

Fanti dell’Armata Rossa
Fanti dell’Armata Rossa.

L’analisi dei servizi d’informazione si dimostrò esatta. Gli obbiettivi dei tedeschi erano la conquista della fabbrica di trattori e degli edifici sul suo lato meridionale e quindi procedere fino al Volga. L’azzardata decisione di spostare reggimenti dal Mamaev Kurgan ai settori settentrionali si era rivelata appropriata. Tuttavia Čujkov era rimasto di stucco nell’apprendere che lo STAVKA aveva ridotto il quantitativo di munizioni d’artiglieria al fronte di Stalingrado. Era il primo segnale che si stava preparando un’importante controffensiva. Stalingrado, lo capì all’improvviso, rappresentava ora l’esca di un’immensa trappola.
Lunedì 14 ottobre, alle 6:00, l’offensiva della 6a armata iniziò su uno stretto fronte, usando ogni stuka disponibile. “L’intero cielo era pieno di aerei”, scrisse un sodato della 389a divisione in attesa di andare all’attacco. L’artiglieria e i mortai tedeschi battevano i ripari e le bombe al fosforo davano fuoco a qualsiasi materiale combustibile rimasto.
“La battaglia assunse proporzioni mostruose al di là di ogni possibile valutazione”, scrisse un ufficiale di Čujkov. Iniziò con l’attacco principale contro fabbrica di trattori da sud-ovest. A mezzogiorno parte del XIV Panzerkorps riprese la sua spinta da nord. Čujkov non esitò. Impegnò la sua principale forza corazzata, l’84a brigata carri, contro l’attacco di tre divisioni di fanteria precedute dalla 14a Panzerdivision.
“Fu una battaglia terribile e spossante”, scrisse un ufficiale carrista, “sopra e sotto il suolo tra le rovine, nelle cantine e negli scarichi delle fabbriche. I carri salivano su mucchi di macerie e detriti avanzavano stridendo in mezzo a officine distrutte, sparando a bruciapelo in piccoli cortili. Molti carri saltarono in aria o esplosero a causa di mine nemiche”.
La resistenza dei soldati sovietici era sicuramente incredibile, ma non potevano certo sostenere l’urto del punto centrale dell’attacco. Durante la mattinata, i carri tedeschi irruppero tagliando fuori la 37a divisione Guardie del generale Žoludev e la 112a divisione fucilieri. Il generale rimase sepolto vivo nel suo bunker in seguito ad un’esplosione. Fu salvato dai suoi soldati. I carri tedeschi penetrarono nei capannoni della fabbrica di trattori, simili a mostri preistorici, sparando con le mitragliatrici tutt’intorno. Durante il combattimento ravvicinato non si distinguevano più le linee del fronte. Gruppi di soldati di Žoludev attaccavano all’improvviso sbucando dal nulla. In simili condizioni, un avveduto ufficiale medico tedesco installò la sua infermeria avanzata in un forno di fusione.
Il 15 ottobre, secondo giorno dell’offensiva, il comando della 6a armata fu in grado di registrare: “La maggior parte della fabbrica di trattori è in mano nostra. Ci sono solo alcune sacche di resistenza dietro il nostro fronte”.
Ci furono innumerevoli esempi di coraggio da parte di soldati il cui nome non è noto, un vero “eroismo di massa”, per dirla con i commissari.
Nessuno ha saputo quanti soldati dell’Armata Rossa morirono quel giorno, ma 3.500 feriti furono trasportati sull’altra riva del Volga solo in quella notte. Gli assistenti di sanità subirono tali perdite che molti feriti dovettero raggiungere la riva a nuoto.
I comandanti tedeschi delle truppe impegnate nella steppa chiedevano di continuo notizie dei progressi in città. “Muri di fabbriche, catene di montaggio, l’intera sovrastruttura crolla sotto la tempesta di bombe”, scrisse il generale Strecker a un amico, “ma il nemico si limita semplicemente a riapparire e a utilizzare queste macerie appena create per rafforzare le sue disposizioni difensive”.
Durante i sei giorni di combattimento, la Luftwaffe tenne in volo grosse formazioni per attaccare gli attraversamenti del fiume e le truppe. Difficilmente i piloti riuscivano ad avere un momento di pausa. Eppure persino i piloti della Luftwaffe condividevano il sospetto sempre maggiore delle truppe di terra che i difensori di Stalingrado potessero risultare invincibili. I piloti sapevano anche che la loro efficacia sarebbe diminuita rapidamente con l’accorciarsi delle giornate e il peggioramento delle condizioni atmosferiche.
La riuscita spinta tedesca verso il Volga appena sotto la fabbrica di trattori aveva completamente tagliato fuori i resti della 112a divisione fucilieri e le brigate della milizia. Mentre superstiti accerchiati della 37a divisione fucilieri di Žoludev continuavano a combattere nella fabbrica di trattori, quelli delle altre formazioni erano incalzati verso sud. La grande minaccia alla sopravvivenza della 62a armata era un attacco tedesco lungo la riva del fiume.
Čujkov, il cui comando era in continuo pericolo (il suo gruppo di difesa ravvicinata era spesso impegnato in combattimenti), dal momento che la 62a armata continuava ad avere problemi di comunicazione, chiese che un gruppo di retrovia del comando attraversasse fino alla riva occidentale, mentre un gruppo avanzato, comprendente l’intero consiglio militare, rimanesse sulla sponda orientale. Ben consapevoli della reazione di Stalin, Erëmenko e Chruščëv rifiutarono decisamente.
Sempre il 16 ottobre, i tedeschi si spinsero dalla fabbrica di trattori in direzione del complesso industriale Barricata, ma la combinazione dei carri russi sepolti tra le macerie e delle salve urlanti di razzi Katjuša dalla riva del fiume ne spezzarono l’impeto. Quella notte, il resto della 138a divisione fucilieri venne trasportato attraverso il Volga. Mentre si avvicinavano al punto di sbarco, dovettero passare sopra a “centinaia di feriti che strisciavano verso l’imbarcadero”. Le truppe fresche vennero poste a difesa poco a nord del complesso Barricata.
Anche il generale Erëmenko attraversò il fiume quella notte per valutare di persona la situazione. Il generale Žoludev scoppiò in lacrime mentre raccontava l’annientamento della sua divisione alla fabbrica di trattori. Eppure il giorno successivo, il comando del fronte avvertì Čujkov che il rifornimento di munizioni sarebbe ulteriormente diminuito.
Dopo l’occupazione della fabbrica di trattori del 15 ottobre, Čujkov ricevette molte richieste della 112a divisione fucilieri e della 115a brigata speciale che chiedevano di potersi ritirare al di là del Volga. Entrambi i comandi sembravano avere fornito “false informazioni” sostenendo che i loro reggimenti erano stati in pratica spazzati via. La richiesta venne respinta. Durante una tregua dei combattimenti, Čujkov scoprì che la 112a aveva ancora 598 uomini e la 115a, 890. Il commissario capo, secondo il rapporto, “invece di organizzare una difesa attiva […] non era uscito dal bunker e aveva cercato, in preda al panico, di convincere il suo comandante a ritirarsi al di là del Volga”. Gli ufficiali superiori e i commissari furono in seguito giudicati da una corte marziale. Il loro destino non è stato registrato, ma Čujkov non deve essere stato tenero con loro.
Il 19 ottobre, attacchi sovietici sul fronte del Don alleggerirono, anche se per poco, la pressione a Stalingrado, permettendo tuttavia la ricostituzione al di là del Volga dei reggimenti decimati.
Si era sparsa la voce che il compagno Stalin in persona fosse stato visto in città. Un vecchio bolscevico che aveva combattuto con lui a Tzarityn sostenne persino che il Grande Leader era apparso nel suo vecchio comando. Questa “visitazione”, che ricordava quella di San Giacomo all’esercito spagnolo durante la guerra contro i Mori, non aveva nessun fondamento di verità.
A Berlino, l’umore di Göbbels oscillava tra la convinzione che Stalingrado sarebbe caduta presto, il 19 ottobre aveva ordinato che tutti coloro insigniti della Croce di Cavaliere fossero riportati in patria per essere intervistati dalla stampa, e momenti di cauto dubbio.
Lo studio comparato delle lettere di quest’epoca mandate a casa da ufficiali e soldati di entrambe le parti è molto istruttivo. In molte lettere dei tedeschi a Stalingrado c’è spesso un tono di risentimento, di disillusione, persino d’incredulità per quello che stava succedendo, come se quella non fosse più la stessa guerra che avevano intrapreso. “Mi chiedo spesso”, scriveva alla moglie un tenente della Wehrmacht, “a che cosa servano tutte queste sofferenze. Forse il genere umano è impazzito? Questo periodo terribile segnerà molti di noi per sempre.” E nonostante l’ottimistica propaganda in patria sull’imminente vittoria, molte mogli intuivano la verità: “Non riesco a non preoccuparmi. So che combatti in continuazione. Sarò sempre la tua moglie fedele. La mia vita appartiene a te e al nostro mondo”.

Truppe d’assalto tedesche
Truppe d’assalto tedesche.

C’era anche un numero sorprendente di soldati russi insoddisfatti che si erano dimenticati della censura o erano talmente giù di morale che non gliene importava più niente. Molti si lamentavano delle razioni. “Zia Ljuba”, scriveva un soldato, “per piacere, mandami da mangiare. Mi vergogno a chiedertelo, ma vi sono costretto dalla fame.” Un soldato che soffriva di dissenteria scriveva. “Se va avanti così, non sarà possibile evitare un’epidemia. Abbiamo anche i pidocchi, che sono la causa prima di malattie.” La predizione del soldato si rivelò ben presto azzeccata. Nell’ospedale 4.169 soldati con il tifo12 furono rapidamente isolati.
Oltre ai lamenti sul cibo e le condizioni sanitarie, affioravano vividi segni di disfattismo. I commissari sempre pronti a saltare addosso a qualsiasi fantasma della notte stalinista, erano decisamente preoccupati dei risultati della censura postale dell’NKVD. “Nella sola 62a armata, durante la prima metà d’ottobre, sono stati divulgati segreti militari in 12.747 lettere”, riferiva il dipartimento politico a Mosca. “Alcune lettere contengono evidenti affermazioni antisovietiche, in cui si loda l’esercito fascista e non si crede nella vittoria dell’Armata rossa.” Erano citati poi alcuni esempi. “Centinaia, migliaia di persone muoiono ogni giorno”, scriveva un soldato alla moglie. “ora è tutto così difficile che non vedo come ne usciremo. Possiamo ormai pensare che Stalingrado sia pronta da arrendersi”.
Ogni espressione di onestà era quasi sempre fatale. Un tenente che aveva scritto che “gli aerei tedeschi sono molto efficienti […] I nostri artiglieri della contraerea ne abbattono pochi”, fu accusato di tradimento.
Il pericolo non si annidava solo nella censura. Un diciottenne ucraino di estrema ingenuità, arruolato come rincalzo nella divisione di Rodimcev, disse ai suoi compagni di non credere a tutto quello che si diceva del nemico: “Nei territori occupati, ho un padre e una sorella e i tedeschi non uccidono e non rubano a nessuno. Trattano bene la gente. Mia sorella ha lavorato per i tedeschi”. I suoi compagni lo arrestarono immediatamente. “L’indagine è in corso”, concludeva il rapporto a Mosca.
Ma all’interno dell’Armata Rossa, almeno una forma di repressione politica stava allentandosi. Allo scopo evidente di migliorare il morale, Stalin aveva già annunciato l’introduzione di onorificenze di sapore decisamente reazionario, come l’Ordine di Kutuzov e quello di Suvorov. Ma la sua riforma più clamorosa, annunciata il 9 ottobre, era il Decreto 307, che ristabiliva il comando di una persona sola. I commissari dovevano accontentarsi di un ruolo “educativo” e di consiglieri.
E questi ultimi rimasero sbigottiti scoprendo quanto gli ufficiali dell’Armata Rossa li disprezzassero e li odiassero. Il dipartimento politico del fronte di Stalingrado deplorava “l’atteggiamento assolutamente scorretto” che cominciava ad emergere. Un comandante di reggimento aveva detto al suo commissario: “Senza il mio permesso, non hai il diritto di venirmi a parlare”. Altri commissari riscontrarono che il loro “livello di vita diminuiva”, dal momento che erano “costretti a mangiare con i soldati”. Persino i sottotenenti osavano far notare che non capivano perché mai i commissari continuassero a ricevere la paga di un ufficiale, “dal momento che ora non sono più responsabili di niente, non faranno altro che leggere i giornali e andare a dormire”.
Un commissario lamentava: “Hanno inventato l’Ordine di Kutuzov e quello di Suvorov. Ora basta che inventino l’Ordine di San Nicola e quello di San Giorgio, e sarà la fine dell’Unione Sovietica”.
Le principali onorificenze sovietiche, Eroe dell’Unione Sovietica, Ordine della Bandiera Rossa e Ordine della Stella Rossa, erano ovviamente ancora considerate con molta serietà, anche se la Stella Rossa era diventata una specie di premio stakanovista dato a chiunque avesse distrutto almeno un carro armato tedesco.
Quando la notte del 26 ottobre, il capo dipartimento potenziale umano della 62a armata perse una valigia contenente 40 Ordini della Bandiera Rossa mentre aspettava il traghetto per attraversare il Volga, ne era seguito un terribile scompiglio. Si sarebbe detto che avesse perduto i piani di difesa di tutto il fronte di Stalingrado. La valigia fu poi ritrovata il giorno dopo a tre chilometri di distanza. Mancava solo una medaglia. Forse l’aveva presa un soldato che aveva deciso, affezionandosi all’idea dopo una bella bevuta, che le sue imprese al fronte non erano state doverosamente riconosciute. Il capo dipartimento fu mandato sotto processo, accusato di “incuria criminale”.
In realtà le vere stelle stakanoviste della 62a armata non erano i distruttori di carri, ma i cecchini. Era stato lanciato il nuovo culto del “cecchinismo” e la propaganda divenne frenetica, inventando una sorta di competizione socialista per il maggiore numero di Fritz uccisi.
Il tiratore scelto più famoso, benché non il migliore quanto a numero di vittorie, era Zajtcev13 della divisione di Batjuk, il quale durante le celebrazioni della Rivoluzione d’Ottobre, era riuscito a portare il suo record a 149 tedeschi uccisi (alla fine della guerra in totale uccise 400 nemici). Quello con il punteggio più alto, identificato solo col nome di “Zikan” ne aveva uccisi 224 al 20 novembre. Per la 62a armata, il taciturno Zajtcev, un pastore delle colline degli Urali, era molto più di un qualsiasi eroe dello sport. Le notizie dei suoi centri correvano di bocca in bocca lungo tutto il fronte.

Vasily_Zaitsev
Vasilij Grigor'evič Zajtcev.

Tutti i migliori tiratori scelti avevano le loro tecniche e i posti preferiti dove nascondersi. Il “cecchino eccellente” Ilin, a cui erano attribuiti “185 Fritz”, usava a volte una vecchia tubatura come nascondiglio. Commissario di un reggimento di fucilieri Guardie, Ilin operava nel settore della fonderia Ottobre Rosso. “I fascisti dovranno conoscere la potenza di un’arma nelle mani dei superuomini sovietici”, proclamava.
Mentre le divisioni tedesche attaccavano a sud della fabbrica di trattori verso la linea di difesa del complesso Barricata, Čujkov cambiò per l’ennesima volta il luogo del suo comando, spostandosi sulla sponda del fiume all’altezza del Mamaev Kurgan. Imponenti forze tedesche arrivarono al Volga il giorno successivo, ma vennero respinte da un contrattacco.
Le uniche novità rassicuranti erano che le truppe a nord delle fabbriche di trattori Rjnok e Spartakovka resistevano bene. Tuttavia c’erano ancora problemi con le truppe della milizia. La notte del 25 ottobre, un’intera sezione della 124a brigata speciale, “un tempo operai della fabbrica di trattori”, decise di passare ai tedeschi. Solo una sentinella si dichiarò contraria, ma poi accettò quando venne minacciata. Nella terra di nessuno approfittò della distrazione degli altri e tornò indietro. I disertori gli spararono senza, però, colpirlo. La sentinella, soldato D., raggiunse il reggimento, ma venne arrestato e inviato alla corte marziale “per non aver preso il provvedimento d’informare il proprio comandante dell’imminente reato e per non avere impedito ai traditori di disertare”.
La battaglia di logoramento continuò intorno alle fabbriche Barricata e Ottobre Rosso con attacchi e contrattacchi. I soldati tedeschi dovettero ammettere che “i cani combattono come leoni”. Le loro perdite aumentarono rapidamente. Eppure le posizioni della 62a armata erano ridotte a diverse teste di ponte sulla riva occidentale non più profonde di qualche centinaio di metri. Le vie erano in mano ai tedeschi, le linee sovietiche erano sospinte sempre più a ridosso del Volga, la fabbrica Barricata stava quasi per cadere. Le divisioni erano ridotte a poche centinaia di uomini, ma continuavano a combattere anche di notte.
Un soldato tedesco scrisse a casa in preda all’amarezza: “Non preoccupatevi, non agitatevi, perché prima vado sotto terra, meno soffrirò. Spesso pensiamo che la Russia dovrebbe arrendersi, ma queste persone incolte sono troppo stupide per capirlo”.
La grande offensiva tedesca si esaurì alla fine di ottobre per stanchezza e mancanza di munizioni.
L’ultimo assalto della 79a divisione di fanteria contro l’acciaieria Ottobre Rosso era finito il primo novembre sotto un pesante fuoco di cannoni proveniente dall’altra sponda del Volga. Anche l’attacco della 94a divisione di fanteria contro la sacca settentrionale di Spartakovka era fallito.


12 Quando si parla di tifo associato ai pidocchi, si intende il tifo esantematico altrimenti detto petecchiale o tifo europeo. Il germe responsabile è la Rickettsia prowazekii, trasmesso dal pidocchio Pediculus humanus corporis (veicolo). Il pidocchio che ha succhiato il sangue di un uomo infetto lo inocula attraverso le sue feci ad un altro essere umano. Praticamente tutti i campi di concentramento nazisti ed i lager sovietici ne furono colpiti a causa delle terribili condizioni di scarsa igiene. Anna Frank morì di questa malattia nel campo di Bergen Belsen.
13 Le imprese di Zajtcev, per quanto in parte romanzate, sono state rievocate nel film: Il nemico alle porte. Morto a Kiev nel 1991 all’età di 76 anni, quindici anni dopo, il 31 gennaio 2006, Vasilij Zajcev fu seppellito al Mamaev Kurgan con i più alti onori militari: il suo ultimo desiderio era stato di essere seppellito vicino al monumento dei difensori di Stalingrado.

STALINGRADO

L’ultimo assalto di Paulus

Con l’imminente arrivo dell’inverno, iniziarono anche le operazioni di routine per affrontarlo.
Le divisioni tedesche nella steppa, dove, anche se c’erano linee di difesa da tenere e attacchi da respingere, l’esistenza era più normale rispetto a Stalingrado, specialmente nelle retrovie, si preoccupavano di preparare per bene i quartieri d’inverno. “Non è un quadro molto allettante”, scriveva un soldato a casa. “In lungo e in largo non ci sono villaggi, né boschi né alberi o cespugli e nemmeno una goccia d’acqua.
I prigionieri russi e gli Hiwis erano stati messi a scavare bunker e trincee. Persino il soldato più inesperto capiva l’importanza di quegli scavi: ci sarebbero stati dentro per tutto il periodo invernale.
Hitler emanò le sue istruzioni per l’inverno. Si aspettava “una difesa molto attiva” e “un orgoglioso senso di vittoria”.
“ll Führer ci ha ordinato di difendere le nostre posizioni fino all’ultimo uomo”, scriveva a casa il tenente colonnello Helmut Groscurth, “cosa su cui siamo tutti d’accordo, dal momento che la perdita di una posizione non migliorerebbe di certo la nostra situazione. Sappiamo cosa voglia dire rimanere senza riparo nella steppa”.
Il quartier generale del Führer decise che la maggior parte degli animali da tiro della 6a armata fossero mandati a più di 160 chilometri nelle retrovie. Questo avrebbe risparmiato i treni merci necessari per il trasporto di enormi quantità di foraggio. Tra il Don e il Volga c’erano 150.000 cavalli, oltre a una gran quantità di buoi e persino cammelli. Il motivo di una simile mossa pur comprensibile da un punto di vista logistico, sarebbe risultato un grave errore in caso di crisi. La 6a armata, in particolare l’artiglieria e la sanità, dipendevano quasi interamente dai cavalli per i loro spostamenti.
I pensieri erano già rivolti al Natale. I soldati avevano già cominciato a discutere dei doni per le loro mogli. Si preparavano i turni di licenza, argomento che suscitava più speranze che delusioni di qualsiasi altro. Paulus insistette che la priorità andava data ai soldati che erano rimasti in servizio senza interruzione dal giugno 1941. A casa, in seno alle loro famiglie, quegli uomini trovavano impossibile parlare delle loro esperienze. Molti rimanevano delusi nello scoprire che solo pochi civili erano al corrente di quello che succedeva al fronte. Era umano lasciarsi tentare dalla diserzione, ma pochi la prendevano sul serio. Il ricordo più vivido della licenza era il momento dei saluti. Per molti sarebbe stata l’ultima volta. Sapevano che si apprestavano a rientrare nell’inferno nel momento stesso in cui superavano il cartello che indicava la strada principale di Stalingrado: “L’ingresso in città è vietato. I trasgressori mettono in pericolo la propria vita e quella dei loro camerati”. Molti trovavano difficile stabilire se si trattasse di una pessima battuta o no.
La distribuzione delle divise invernali non modificava la situazione dell’infestazione da pidocchi. Le battute “sui piccoli partigiani” si sprecavano. In quel periodo le preoccupazioni dei medici reggimentali sulla salute generale delle truppe stavano molto aumentando. La mortalità per dissenteria, tifo e paratifo stava enormemente aumentando. Benché il numero totale dei malati fosse più o meno uguale al passato, il tasso di mortalità era almeno cinque volte superiore.
Gli stessi russi avevano notato la cosa e parlavano di “male tedesco”. I medici di Berlino studiando il fenomeno potevano solo fare l’ipotesi che le aumentate condizioni di stress e la scarsità delle razioni ne fossero responsabili. I più vulnerabili sembravano i soldati più giovani tra i diciassette e i ventidue anni. Da soli rappresentavano il 55 per cento dei decessi. Quale ne fossero le cause precise non ci sono dubbi che la salute della 6a armata fosse motivo di seria preoccupazione.
L’8 novembre, Hitler tenne un lungo discorso ai “vecchi combattenti” nazisti alla Burgerbraukeller di Monaco. Il discorso radiotrasmesso venne seguito da molti componenti della 6a armata. Dichiarò con greve ironia: “Volevo raggiungere il Volga, per la precisione in un luogo particolare, in una città particolare. Per caso portava il nome dello stesso Stalin. Ma non pensate che sia andato fin là solo per questo motivo, il fatto è che occupa un’importante posizione […]. Volevo catturarla e, perché siamo modesti, vi dico che l’abbiamo presa, dovreste saperlo, siamo del tutto soddisfatti, l’abbiamo ottenuta così com’era! Sono rimaste solo un paio di posizioni da prendere. Alcuni dicono: “perché non combattiamo più in fretta?” Perché non vogliamo una seconda Verdun e preferiamo portare a termine l’opera con piccoli gruppi d’assalto. Il tempo non ha importanza. Non ci sono più imbarcazioni che risalgono il Volga. E questo è il punto fondamentale!”
Il suo discorso può essere considerato come uno dei massimi esempi di tracotanza della storia. L’Afrika Korps già stava ritirandosi da El Alamein e le forze americane erano sbarcate sulla costa nordafricana. Von Ribbentrop propose un approccio con Stalin tramite l’ambasciata sovietica a Stoccolma, ma Hitler rifiutò con decisione.
Le vuote vanterie su Stalingrado, seguite a quel rifiuto, non erano solo casuali sciocchezze, ma dovevano intrappolarlo in una sequenza di disastri. Il demagogo politico aveva ostacolato il signore della guerra.
Il 9 novembre la temperatura si abbassò di colpo a meno diciotto gradi. Il Volga cominciava a non essere più navigabile a causa dei lastroni di ghiaccio. Čujkov temeva questo momento, definiva adesso la guerra su due fronti: dietro il Volga ostile e davanti il nemico che attaccava la sottile striscia di terra ancora in loro possesso. La difficoltà nel passaggio del fiume da parte dei russi, indusse i tedeschi ad aumentare il fuoco sul Volga. Attraversare il fiume era un po’ come intraprendere una spedizione al Polo.
Intanto la pressione sui sovietici veniva tenuta alta da attacchi continui su piccola scala. Anche se il numero dei combattenti era ridotto, la violenza degli scontri era la stessa. Con strisce di terra così strette, la diserzione continuava a rappresentare una soluzione limitata, ma ora c’erano casi di tedeschi che cercavano di attraversare le linee per consegnarsi ai russi. Venne anche notato che soldati tedeschi alzavano le mani oltre il bordo delle trincee per essere colpiti: il dipartimento politico ricevette immediate istruzioni di aumentare l’attività di propaganda con trasmissioni radio e volantini.
L’11 novembre, poco prima dell’alba, cominciò l’attacco finale dei tedeschi. Speciali gruppi di battaglia con reparti appena riorganizzati delle divisioni di fanteria 71a, 79a, 100a, 295a, 305a e 389a rafforzati da quattro battaglioni freschi del genio pionieri, attaccarono le sacche di resistenza rimaste. Anche se le divisioni erano gravemente provate dai recenti combattimenti, si trattava in ogni caso di una concentrazione massiccia.

Soldati tedeschi in marcia
Soldati tedeschi in marcia tra le rovine di Stalingrado.

Ancora una volta l’attacco terrestre fu preceduto da quello aereo degli stuka, ma von Richthofen si lamentava che le forze di terra non approfittassero in alcun modo di questi attacchi. L’11 novembre, il risultato più spettacolare fu l’abbattimento delle ciminiere delle fabbriche, ma non riuscì in alcun modo a spazzare la 62a armata dalle trincee, dai bunker e dalle cantine.
I siberiani di batterono disperatamente per mantenere la posizione sul Mamaev Kurgan, ma il punto principale dell’attacco era a ottocento metri più a nord, verso l’industria chimica Lazur e la cosiddetta “racchetta da tennis”, un viluppo di rotaie e binari secondari di quella forma. La forza principale di questo attacco era la 305a divisione di fanteria e gran parte dei battaglioni di pionieri. Gli edifici più importanti vennero catturati, ma poi i russi li ripresero dopo aspri combattimenti. Il giorno successivo, l’attacco si arrestò.
Più a nord gli uomini della 138a divisione fucilieri di Ljudnikov, con le spalle rivolte al Volga resistettero fieramente. Erano ridotti a una media di trenta colpi per ogni fucile o mitra e una razione giornaliera di meno di 50 grammi di pane secco.
La notte dell’11 novembre, la 62a armata lanciò contrattacchi con varie unità, tra cui la 95a divisione fucilieri, a sud-est della Barricata, ma furono fermati quasi subito da uno sbarramento d’artiglieria tedesca. Il 12 novembre preceduta da un pesantissimo bombardamento una grossa formazione di fanteria tedesca riuscì a incunearsi tra due reggimenti di fucilieri russi. Alle 9:50 furono gettati nella mischia ulteriori rinforzi, parte dei quali avanzarono verso i serbatoi di carburante sulla riva del Volga. Un reggimento di fucilieri sovietico riuscì a sostenere l’attacco principale, mentre altri gruppi d’assalto tagliavano fuori i mitraglieri tedeschi che erano riusciti a irrompere. Il primo battaglione del reggimento rimase con soli quindici uomini, ma riuscirono a tenere una linea di difesa a settanta metri dal Volga, fino a che non ricevettero rinforzi.
I rifornimenti resi estremamente difficoltosi dal ghiaccio sul fiume resero la situazione della 62a armata sempre più difficile. Il 14 novembre il battello Spartakovets portò 400 soldati e 40 tonnellate di rifornimenti sulla riva destra, dietro l’acciaieria Ottobre Rosso e, nel viaggio di ritorno, riportò 350 feriti sotto il fuoco. “Se non riescono a finire il lavoro”, notò caustico von Richthofen, “quando il Volga sta gelando e i russi di Stalingrado sono a corto di tutto, allora non lo finiranno mai. Inoltre le giornate si fanno sempre più brevi e il tempo peggiora”.
I resti della 62a armata erano ridotti a tre teste di ponte separate tra loro. A nord della fabbrica di trattori, quella al comando del colonnello Gorokhov, al centro la piccola sacca di Ljudnikov e a sud il grosso delle truppe di Čujkov a est della Mamaev Kurgan con i resti delle divisioni di Rodmicev, Batjuk, Gurtev e Gorisnij; la profondità massima di terreno occupato dai sovietici era di un chilometro e mezzo e in alcuni punti si riduceva a poche centinaia di metri. Tuttavia gli sforzi tedeschi si esaurivano a causa di perdite gravissime e una resistenza accanita. Questa era la situazione al 19 novembre.
Paulus era sotto pesanti pressioni. Il suo medico lo avvertì che sarebbe crollato se non si prendeva un po’ di riposo. “Hitler era ossessionato dal simbolo di Stalingrado”, spiegò un ufficiale di Stato Maggiore della 6a armata. Per sgomberare gli ultimi punti di resistenza rimasti a novembre, ordinò che persino i piloti di mezzi corazzati venissero usati come fanteria per gli ultimi a attacchi. I comandanti carristi erano sbalorditi davanti a uno spreco così folle, ma non riuscivano a convincere Paulus ad annullare l’ordine. Alla fine, riuscirono a mettere insieme piloti di riserva, cuochi, personale sanitario e delle trasmissioni, in sostanza chiunque non facesse parte dei loro esperti equipaggi. In capo a pochi giorni, le perdite pesantissime dei reggimenti corazzati sarebbero risultati molto gravi, se non disastrose.
Il generale Seydlitz era molto preoccupato. A metà novembre il comando della 6a armata riteneva che il 42 per cento dei suoi battaglioni dovesse considerarsi “fuori combattimento”. Diverse compagnie dovettero essere accorpate. La 14a Panzerdivision e la 24a avevano bisogno di riorganizzarsi. Le perdite peggiori erano state quelle di esperti ufficiali e sottufficiali. Solo una piccola minoranza di chi aveva combattuto ad agosto era ancora vivo.
Gli ufficiali di Stato Maggiore tedesco erano preoccupati anche della primavera. Semplici calcoli dimostravano che la Germania non avrebbe potuto sostenere perdite così elevate per molto tempo.


Pubblicato il 26/09/2013