Ars Bellica

Battaglie del Piave

Novembre 1917 - Luglio 1918

Nonostante l'onta di Caporetto l'Italia riesce a respingere due offensive austriache e si prepara alla controffensiva vincente.

PIAVE

Gli avversari

Luigi Cadorna (1850 - 1928)

Luigi Cadorna

Figlio del generale Raffaele (che guidò come comandante supremo la spedizione di Roma del 1870 - Breccia di Porta Pia), Luigi nasce a Pallanza il 4 settembre 1850. Dedicatosi alla carriera delle armi, fu nominato (1868) sottotenente d'artiglieria, passò a far parte del corpo di Stato maggiore, raggiunse nel 1892 il grado di colonnello, assumendo il comando del 10° reggimento bersaglieri. Col grado di maggior generale (1898-1905) tenne il comando della brigata Pistoia; con quello di tenente generale ebbe successivamente i comandi delle divisioni di Ancona e di Napoli, e poi quello del IX corpo d'armata. Nel 1911 venne designato per il comando di un'armata in guerra.
Scomparso improvvisamente nel luglio 1914 il generale Alberto Pollio, fu chiamato a succedergli nella carica di capo di Stato maggiore dell'esercito, pochi giorni prima che scoppiasse la guerra europea, ma con l'Italia neutrale per soprattutto perché l'esercito italiano in quel momento non aveva l'efficienza necessaria per affrontare una lunga guerra né a fianco dell'Austria con la quale l'Italia aveva stipulato un patto (Triplice Alleanza), né tantomeno a fianco delle altre potenze europee (Triplice Intesa). Bisognava innanzitutto riordinare l'esercito e a questo pensò appunto nei successivi mesi il generale Luigi Cadorna che fu un fervente interventista.
Entrata l'Italia in guerra nel maggio 1915, Cadorna per trenta mesi rimase alla direzione dell'esercito, cercando di logorare l'esercito avversario, con la strategia della guerra di posizione. Non mancò tuttavia, ogni qual volta gli fu possibile, di mostrarsi manovriero; come nella primavera-estate del 1916, quando seppe parare l'offensiva del Conrad nel Trentino rispondendogli subito dopo con il duro colpo di Gorizia, e nell'agosto dell'anno seguente, durante l'undicesima battaglia dell'Isonzo, che per confessione stessa del nemico ridusse l'esercito austriaco all'estremo della sua resistenza, tanto da indurre i capi di esso a invocare l'aiuto dell'alleato tedesco per liberarsi dalla pressione italiana.
Costretto dalle insistenze degli alleati all'offensiva contro gli austriaci per alleggerire la pressione asburgica sui Balcani, dovette attaccare attraverso uno strettissimo varco pedemontano largo circa 50 km, già fortificato dal nemico durante i mesi precedenti.
A contribuire al suo insuccesso, sarebbero intervenute la precoce resa della Russia e la sconfitta della Serbia. Capro espiatorio degli insuccessi militari italiani, Cadorna venne sostituito da Armando Diaz, il vero cervello dell'esercito secondo il re.


Armando Diaz (1861 - 1928)

Armando Diaz

Diaz nasce a Napoli nel 1861 ed entra giovanissimo nell'esercito. Nel 1911-'12 partecipa con il grado di colonnello alla campagna di Libia. Nel 1915 diviene generale e nel 1916 è nominato comandante di divisione. Quando nel 1917 viene nominato capo di Stato Maggiore in sostituzione di Cadorna, si prodigò per migliorare le condizioni di vita dei soldati al fronte e per ricucire i rapporti con gli alti ufficiali, ma la sua azione di comando non risultò così esemplare come nel dopoguerra si volle far credere: nella battaglia di giugno le riserve, troppo arretrate, non sarebbero potute intervenire prima di 48-72 ore, in caso di eventuale sfondamento da parte del nemico. In seguito, poi, Diaz lasciò incredibilmente agli austriaci la possibilità di effettuare in maniera del tutto indisturbata una ritirata assai critica sull'altra sponda del fiume. Infine, ritardò l'offensiva su Vittorio Veneto per eccessiva "timidezza": in estate, aveva addirittura richiesto agli americani di spostare dalla Francia al fronte italiano ben 25 divisioni.
Ufficiale di artiglieria all'inizio del conflitto mondiale Diaz si trovò a ricoprire la carica di Capo dell'ufficio operazioni dello Stato Maggiore fino al giugno 1916, quando ottenne il comando della 46° divisione di fanteria impegnata sul Carso. Nel 1917 ricevette il comando del XXIII Corpo d'Armata. In seguito al cedimento di Caporetto, ritirò ordinatamente le sue truppe sul Piave. L'8 novembre 1917 sostituì Cadorna nella carica di Capo di Stato Maggiore. Nel dopoguerra sostenne Nitti, poi entrò nel governo Mussolini come ministro della guerra e garante dell'appoggio militare e della monarchia al Duce.


Franz Conrad Von Hotzendorf (1852 - 1925)

Franz Conrad

Conrad nasce l'11 novembre 1852 a Penzing, vicino Vienna. Abbraccia giovanissimo la carriera militare: tenente nel 1871, è capo di stato maggiore nel 1906. Ben consapevole della delicata situazione strategico-militare dell'impero austro-ungarico, aveva tentato di evitare all'Austria una guerra su più fronti: già nel 1911 aveva proposto invano all'imperatore una guerra preventiva contro Serbia e Italia.
In seguito quando ormai si delineava la certezza dell'intervento italiano nel conflitto, propose, senza successo, di cedere alcuni territori all'Italia in cambio della sua neutralità. Stratega dello sfondamento, in occasione della Strafexpedition (la spedizione punitiva) del 1916 conseguì qualche successo grazie al rinforzo delle divisioni tedesche sul fronte italiano, mentre nella battaglia di giugno sul Piave non impensierì affatto le linee italiane. Durante la guerra si trovò spesso in contrasto sia con l'alleato tedesco che con l'Imperatore Carlo I, che finì per esonerarlo dall'incarico, assegnandogli il comando dell'Armata in Trentino. Dal suo memoriale emerge un atavico malanimo nei confronti dell'Italia.


Svetozar Boroevic (1856 - 1920)

Svetozar Boroevic

Boroevic, di origini croate, fu inizialmente impegnato sul fronte Russo, dove colse qualche successo; giunse sul fronte italiano nel maggio del 1915, al comando della 5° Armata. Abile nella guerra di difesa, dopo l'offensiva di Caporetto venne però accusato di scarsa determinazione e addirittura, secondo alcuni, di essersi lasciato sfuggire la 3° Armata Italiana. Inoltre, a giugno, non accettò che l'offensiva venisse lanciata singolarmente da Conrad, finendo per disperdere il proprio potenziale offensivo sull'intero fronte del Piave.

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Gli antecedenti: l'Isonzo

Un palpitante inno di E.A. Mario fissò nella memoria nazionale la drammatica battaglia del Piave, un vero e proprio poema tragico che si apre con Caporetto e si chiude con Vittorio Veneto. Sotto l'aspetto militare l'episodio del Piave è, tuttavia, suddivisio in due battaglie distinte: la "battaglia d'arresto", combattuta dal 9 novembre al 26 dicembre 1917, e la "seconda battaglia del Piave" o "battaglia del solstizio", durata dal 3 giugno al 5 luglio 1918. Ma non possiamo escludere il precedente fondamentale dello scontro sull'Isonzo.
Completata la mobilitazione nel giugno del 1915, l'esercito italiano contava 1.089.000 soldati, mentre gli austro-ungarici schierarono sul fronte italiano 300.000 uomini. Nonostante la superiorità numerica italiana, però, gli iniqui confini, stabiliti nel 1866 ponevano il nostro paese in una condizione di palese svantaggio strategico: l'Austria, infatti, possedeva la montuosa regione trentina incuneata verso il cuore della pianura veneto-lombarda, e la frontiera friulana, anche se povera di appigli orografici nella sua parte meridionale, era stata efficacemente fortificata dagli austriaci nella zona del fiume Isonzo durante i nove mesi precedenti, il periodo della neutralità italiana.
L'offensiva italiana nel primo conflitto mondiale fu, dunque l'unica in Europa a presentarsi subito come un'estenuante battaglia di logoramento per entrambi gli schieramenti. Gli alleati anglo-francesi, chiedendo che l'Italia assumesse un atteggiamento aggressivo, miravano ad alleviare la pressione austro-germanica sui Russi nel fronte carpatico, entrato in crisi proprio nel maggio del 1915. Cadorna diede inizio allora all'attuazione di un piano, concepito sin dall'anno precedente, che prevedeva operazioni limitate sul settore trentino e attaccò a oltranza sull'Isonzo e sul Cadore per dilagare eventualmente, in seguito, attraverso terreni pianeggianti, fino al cuore dell'impero asburgico.
Il 23 giugno 1915 Cadorna scatenò la prima battaglia dell'Isonzo. L'undicesima della serie, sferrata il 19 agosto 1917, in dieci giorni portò alla conquista dell'altopiano della Bainsizza e alla cattura di circa 30.000 prigionieri e di oltre 250 bocche da fuoco. La dodicesima battaglia, ricordata nella storia come la rotta di Caporetto, segnò, invece, l'inizio di un'offensiva austro-germanica che scatterà il 24 ottobre dello stesso anno.

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L'anno terribile

Con la Russia fuori gioco e l'esercito francese in grave crisi, i tedeschi poterono inviare sul fronte italiano rinforzi a sostegno degli austriaci. Dei tre sbocchi offensivi contro la pianura veneta - l'Altopiano di Asiago, la testa di ponte di Gorizia e la stretta di Tolmino - il primo aveva già visto il fallimento della Strafexpedition nel 1916 ed il secondo era caduto in mano agli italiani nello stesso anno: fu dunque nel settore di Tolmino, sfruttando la conca di Plezzo, che venne accuratamente preparata l'offensiva austriaca.
Sul ristretto fronte d'attacco furono ammassate ben 15 divisioni (7 tedesche, delle migliori, ed 8 austriache) della 14° armata. Alle 2 del mattino del 24 ottobre 1917 l'artiglieria austriaca iniziò un fuoco di spaventosa intensità e, alle 7, iniziarono gli attacchi delle fanterie preceduti dal lancio del nuovo gas fosgene, che da solo annientò un'intera divisione italiana, mietendo 6.000 vittime. Il 9 novembre i resti dell'esercito italiano si trovavano già oltre il Piave.

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Il giorno prima il Re aveva bruscamente sollevato dall'incarico di comadante supremo Cadorna, il quale aveva esplicitamente accusato i soldati di "non reggere", sostituendolo con il generale Armando Diaz. Il nuovo vicecapo di Stato Maggiore, Badoglio, a Caporetto non era riuscito nemmeno ad impensierire le colonne austro-germaniche, malgrado avesse 700 cannoni a disposizione. In due settimane l'Italia aveva perduto la cifra colossale di 300.000 soldati e 3.000 pezzi d'artiglieria. Altri 350.000 sbandati vennero raccolti per ricostituire unità disgregate durante la ritirata. Nonostante la sconfitta, però, l'esercito italiano era ancora vitale, grazie all'azione di comando di Cadorna, rivelatasi assai efficace nel critico momento della ritirata.

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Tredici misteriose pagine

Sulle cause concrete della rotta di Caporetto la Commissione d'inchiesta all'uopo nominata non fece mai luce in modo netto ed univoco. Il principale responsabile, ovviamente, venne indicato in Cadorna, ma anche di Pietro Badoglio venne data una valutazione negativa, quanto meno perché si trovava al comando di uno dei corpi d'Armata che cedettero nel primo giorno dell'offensiva austro-germanica. Le tredici pagine del rapporto conclusivo della Commissione sulle responsabilità di Badoglio, tuttavia, andarono smarrite prima che la relazione venisse data alle stampe. Questo "incidente", secondo testimonianze successive, avvenne per ordine del primo ministro Orlando, il quale voleva evitare complicazioni all'uomo che era, ora, il vicecapo di Stato Maggiore.

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Vittorio Veneto nel ricordo di Ferruccio Parri

Ognuno di noi ricorda le parole del bollettino della vittoria redatto da Diaz, che fece seguito alla battaglia di Vittorio Veneto: «[...] i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza». Qualche testimone, tuttavia, ricorda quella battaglia in modo del tutto diverso e assai poco altisonante, come il senatore a vita Parri, ad esempio, a quei tempi capitano presso lo Stato Maggiore italiano, il quale racconta nelle sue memorie che Diaz, una mattina, seguito dai suoi generali, fra i quali c'era anche Badoglio, «si avvicinò ad una grande carta [...] e, inforcati gli occhiali, si mise a cercarvi una località senza riuscire a trovarla. Un pò spazientito, voltosi a un certo punto verso Badoglio gli chiese in napoletano: "neh Badò, addò sta 'sto cazz'e Vittorio Veneto?". Fu in questa maniera - continua Parri - che venni a sapere quale sarebbe stato l'obiettivo principale della nostra offensiva».

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Il Piave come battaglia d'arresto

L'improvvisato schieramento italiano a difesa del Piave era già stato prefigurato da Cadorna, e Diaz non poteva che attuarlo, ponendo a sud la 3° Armata, con il fianco destro sul mare; più a Nord l'8° Armata a presidio del colle del Montello; poi la 4° Armata, discosta dal Piave, a cavallo del fiume Musone e sul Monte Grappa; infine, ancora di seguito, la 6°, attestata tra i fiumi Brenta e Astico, mentre la 1° e la 7° abbracciavano il resto del fronte fino al Garda e oltre.
In seconda linea, nella zona di Castelfranco Veneto, stazionava in riserva la 9° Armata. Il 9 novembre 35 divisioni italiane fronteggiavano le 55 austro-germaniche. Gli austriaci erano organizzati in due gruppi d'Armate: il Gruppo Boroevic, costituito dalla 6° e dall'Armata dell'Isonzo e dislocato tra il mare e i margini orientali del massiccio del Grappa, e il Gruppo Conrad, che copriva il fronte dal Grappa al Garda. Gli austro-germanici, non essendo riusciti ad agganciare tutto l'esercito italiano prima che questo riparasse oltre il Piave, speravano almeno di impedirgli di attestarsi saldamente sulle nuove posizioni, mediante un'offensiva lanciata in due fasi: la prima dal 10 al 26 novembre e la seconda dal 4 al 26 dicembre.
L'attacco più massiccio proveniva daNord, per sfondare la 6° e la 4° Armata italiana, e puntare poi verso Vicenza e Verona. Il Gruppo Conrad scese dall'Altipiano dei sette Comuni verso Asiago, tra l'Astico e il Brenta, mentre l'11° Armata di von Krauss lanciò nove divisioni verso il Grappa, scarsamente fortificato e difeso da quattro gracili divisioni italiane, sostenute da pochi cannoni. Il fronte italiano resistette in maniera ferrea, nonostante la perdita di Asiago: alcune località furono addirittura riguadagnate dopo cinque giorni. Il Gruppo Boroevic esercitava intanto una forte pressione sul Piave e l'11 novembre alcuni reparti austriaci della Isonzo Armee avevano creato una testa di ponte nell'ansa di Zenson, oltrepassando il Piave! Gli austro-germanici furono respinti nella Grave di Papadopoli e a Grisolena, presso la foce del fiume.

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La testa di ponte austriaca fu poi annientata il 17 dicembre, con il concorso delle batterie della Marina, montate su vecchi pontoni o su cannoniere, che erano state dislocate presso il corso inferiore della foce del Piave. Il sostegno di numerosi cannoni navali, di medio e grosso calibro, e di alcune migliaia di "marinai in grigioverde", contribuirono notevolmente alla tenuta del settore della 3° Armata, motivo per cui gli austriaci dovettero concedersi una tregua su tutto il fronte. La sosta, per quanto breve, consentì di rafforzare il fronte difensivo con alcune truppe alleate e con le prime classi di leva del 1899. Gli inglesi sul Montello e i Francesi nel settore Tomba-Monfenera non avrebbero però mai combattuto e quella del Piave sarebbe rimasta una prova difensiva esclusivamente italiana.
La seconda fase dell'offensiva si scatenò il 4 dicembre, ancora una volta dall'Altopiano di Asiago. 44 battaglioni austriaci, contro 36 italiani del XX corpo d'Armata, riuscirono soltanto a prendere il monte Valbella e Col del Rosso e due giorni dopo un nuovo attacco sul Grappa fallì. Non andò meglio a Boroevic con la sua Armata dell'Isonzo, che il 23 dicembre tentò di forzare il Piave con l'unico risultato di prendere la testa di ponte Zenson. A Natale l'offensiva fu sospesa. La Germania, pressata dagli americani in Francia, richiamò i reparti tedeschi impegnati sul fronte italiano, provocando il termine della "battaglia d'arresto". L'illusione austriaca di arrivare a Venezia era tramontata.
Durante l'inverno, i superstiti e gli sbandati italiani furono raccolti e ridistribuiti in nuovi reparti; l'industria reintegrò la perdita dell'enorme numero di cannoni, dovuti alla ritirata; entrarono in linea 200 aeroplani e migliaia di mitragliatrici, fino ad allora presenti in scarso numero tra le nostre truppe. La nazione italiana sembrava aver acquistato una nuova smagliante compattezza, mai mostrata negli anni precedenti. Diaz, avendo intuito che il nemico non aveva ancora abbandonato la partita, ignorò l'invito ripetuto da parte dell'alleato Foch di attaccare sull'Altopiano. A febbraio, infatti, gli Stati Maggiori austriaco e tedesco, riuniti a Bolzano, avrebbero concordato un attacco contemporaneo sul suolo francese e italiano, previsto per i mesi di maggio-giugno. Nella primavera seguente, Diaz si limitò ad attuare soltanto azioni limitate per correggere il fronte.
L'offensiva austriaca, inizialmente programmata per maggio, ma poi rinviata a giugno, fu preceduta dall'aflusso di altre 21 divisioni provenienti dal fronte orientale. L'esercito asburgico mise in linea 60 divisioni, ripartite, come in precedenza, nei due Gruppi di Boroevic sul Piave e di Conrad a nord. Le bocche da fuoco erano circa 7.000 e gli aeroplani 540. Nonostante il fatto che a questa ciclopica concentrazione di forze si contrapponesse uno schieramento italiano formato da ben 53 divisioni nazionali e 6 alleate, 7.500 cannoni e 656 aeroplani, 100 dei quali anglo-francesi, all'attaccante rimaneva, tuttavia, il vantaggio della sorpresa riguardo al momento e al luogo dell'offensiva, il cosiddetto Schwerpunkt ("punto chiave").
I luoghi più a rischio di un attacco austro-ungarico potevano essere lo Stelvio ed il Garda, Asiago ed il Grappa, per un tratto complessivo di 200 chilometri di fronte. Diaz, ritenne, in parte giustamente, che la minaccia più grave pendesse sul settore che andava da Arsiero al Grappa, là dove già si era scatenata l'offensiva iniziale della "battaglia d'arresto".

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Cooperazione

Dopo Caporetto affluirono in Italia tre divisioni francesi e due inglesi, con 20 e 80 aerei rispettivamente. Molto più consistente l'aiuto fornito sotto forma di armamenti: ben 800 preziossissimi cannoni, molti dei quali "pesanti", ovvero di grosso calibro. Tra le truppe alleate presenti in Italia vi erano, infine, una divisione di formazione cecoslovacca e un reggimento americano, che però non andarono mai in combattimento. Tra i tanti militari stranieri attivi in Italia ricordiamo anche lo scrittore Ernest Hemingway, che da quell'esperienza avrebbe tratto ispirazione per il suo romanzo Addio alle armi.

L'Italia aveva contribuito a sostenere lo sforzo bellico sul fronte alleato inviando due divisioni di fanteria in Francia e mettendo la sua flotta a disposizione per il salvataggio dei superstiti dello sconfitto esercito serbo. Con questa operazione, iniziata nel dicembre del 1915, le navi alleate, in stragrande maggioranza italiane, riuscirono a portare in salvo circa 260.000 uomini, 10.000 cavalli ed un centinaio di pezzi d'artiglieria. A febbraio del 1916, contando la perdita di soli sei piroscafi e due cacciatorpediniere, la flotta italiana aveva tratto in salvo l'esercito serbo nell'entroterra brindisino ed a Corfù.

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Le forze in campo

Schieramento Italiano

- dallo Stelvio al Garda, la 7° Armata delle Giudicarie, con 4 divisioni;

- dal Garda all'Altopiano dei Sette Comuni su 50 chilometri di fronte, la 1° Armata del Trentino con 8 divisioni;

- dall'Altopiano dei Sette Comuni al Brenta, sino a sfiorare il Grappa, la 6° Armata degli Altopiani con 9 divisioni, forte e ben trincerata per un fronte di 24 chilometri;

- dal Grappa a Ponterobba, su 20 chilometri di fronte, la 4° Armata del Grappa con 7 divisioni;

- da Ponterobba a Palazzon, per 24 chilometri lungo le rive del Piave e sul Montello, l'8° Armata con soltanto 3 divisioni;

- da Palazzon al mare, su 45 chilometri di fronte, la 3° Armata del Piave con 6 divisioni, appoggiata dalle pesantissime artiglierie della Marina, disposte lungo la foce del Piave;

- la riserva generale era costituita dalla 9° Armata, con 10 divisioni a disposizione del Comando Supremo e 9 distaccate presso le altre Armate. Completavano la riserva 3 divisioni di cavalleria;

24 delle 37 divisioni in linea erano dunque spiegate sul fronte nord-occidentale, da dove si temeva l'attacco. Il Piave invece era presidiato soltanto da nove divisioni su un fronte di circa 70 chilometri.

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Schieramento austro-germanico

- dallo Stelvio all'Astico, la 10° Armata con 10 divisioni in linea;

- alla sua sinistra, sino al Piave, l'11° Armata forte di 23 divisioni in linea e 4 nella riserva del Gruppo di Armate;

- lungo il Piave fin oltre il Montello, la 6° Armata con 6 divisioni in linea e una di riserva;

- dal Montello al mare, la 5° Armata con 15 divisioni in linea e una nella riserva.

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Gli Arditi di Hemingway

Speciali reparti di assaltatori vennero organizzati dall'esercito italiano a partire dal gennaio 1917. Si chiamarono prima Arditi, poi Fiamme Nere, infine Reparti d'assalto, ed erano costituiti da volontari, tra ufficiali e truppa, provenineti soprattutto dai corpi dei Bersaglieri, degli Alpini e della Cavalleria. Particolarmente addestrati a combattere corpo a corpo, agli Arditi era risparmiata la vita di trincea e venivano inviati in prima linea solo per il tempo necessario allo svolgimento delle sanguinose azioni a cui erano destinati: dall'impossibile assalto frontale, ai colpi di mano, alla cattura di prigionieri da usare come fonte di notizie.

Oltre al pugnale, loro fedele strumento, gli Arditi adoperavano per lo più armi come il lanciafiamme, il lanciagranate e le bombe a mano. Alla fine del 1918 di questi reparti se ne contavano 39, organizzati su tre compagnie. Nel frattempo, tuttavia, si era comunque diffusa l'abitudine di costituire un plotone d'assalto per ogni reggimento o battaglione di Alpini. Degli Arditi e delle loro qualità di carattere resta, tra le altre, una ricostituzione letteraria, circostanziata e informata, stesa in 4.000 parole dallo scrittore americano Ernest Hemingway e miracolosamente riapparsa nel 1976.

Tra i numerosi fatti d'arme ricordati dallo scrittore americano spicca l'epico attacco dell'Asolone, così come tanti altri, raccontati dalla voce dei diretti protagonisti delle battaglie svoltesi tra il 20 e il 27 ottobre 1918. In quel momento Hemingway si era unito agli Arditi del IX Reparto d'assalto, condotti, a Bassano del Grappa, dal maggiore Giovanni Messe, che nel 1941 avrebbe comandato il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) e nel 1943 l'esercito italiano in Tunisia.

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Le speranze e i piani austriaci

L'obiettivo dichiarato dello Stato Maggiore austriaco consisteva nella distruzione dell'esercito italiano: erano già state coniate le medaglie commemorative per la presa di Venezia e Milano, e gli ufficiali erano stati forniti delle carte militari del Mincio e della pianura lombarda. La propaganda fra le truppe austro-tedesche era massiccia (venne data agli uomini persino una moneta d'occupazione emessa dalla "Cassa veneta dei prestiti"), come pure martellante fu quella volta ad alimentare il disfattismo fra gli Italiani.
D'altro canto, però, l'esercito austriaco era consapevole di giocarsi il tutto per tutto. L'impero, nello sforzo bellico, aveva esaurito scorte e capacità industriali: per citare soltanto alcuni esempi della disastrosa situazione del momento, le baionette distribuite nel 1918 Erstazbaionette ("baionette di ricambio"), erano barre d'acciaio senza manico, sommariamente forgiate e affilate. Le truppe avevano ricevuto l'ordine di non sventrare i sacchi di farina o le botti italiane dopo essersi rifornite del necessario, ma di caricarle sulle migliaia di carri nelle retrovie del fronte, le "colonne del bottino", destinate ad alimentare la patria.

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Il piano dell'offensiva, un compromesso tra le diverse intenzioni di Conrad, di Boroevic e del capo di Stato Maggiore Arz, prevedeva tre operazioni: l'"Operazione Radetzky", ovvero l'attacco all'Altopiano dell'Asiago verso Padova e Vicenza; un'offensiva secondaria chiamata "Lawine" ("Valanga"), sul Passo del Tonale per minacciare la Lombardia; infine il "piano Albrecht", che si riprometteva di forzare il Piave in direzione di Treviso. Il 21 aprile si stabilì che "Lawine" avrebbe preceduto di qualche giorno gli altri due attacchi per distrarre le riserve nemiche. "Radeztky" e "Albrecht" avrebbero dovuto formare le ganasce di una doppia tenaglia da chiudere prima a Catelfranco, poi a Padova. Il difetto di questa offensiva consisteva nel fatto che le forze austriache, pur globalmente pari a quelle italiane, erano divise in tre operazioni diverse, in nessuna delle quali, quindi, potevano beneficiare della superiorità di uomini e di cannoni che sarebbe stata necessaria.

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Uno spirito maligno

Con l'arrivo del bel tempo, malgrado la piena del fiume, il Comando Supremo italiano si attendeva l'attacco nemico da un momento all'altro, e spostava i reggimenti e le batterie d'artiglieria per vanificare il prevedibile fuoco preparatorio dei cannoni avversari: l'attesa era veramente snervante. Il 13 giugno, di notte, scattò finalmente l'operazione "Lawine" e la'rtiglieria austriaca aprì il fuoco sulla Sella del Tonale, immediatamente seguita dal vivacissimo tiro di controbatteria dei cannoni italici: l'offensiva austriaca era cominciata con una sorpresa.

Nella mattinata del 14, tuttavia le fanterie d'assalto avevano preso la prima linea delle trincee italiane, ma già alle due del pomeriggio l'avanzata era stata fermata, e, alla sera l'11° Armata austriaca fu costretta a porsi sulla difensiva. Già dalle prime ore della battaglia, secondo il commento di una relazione militare austriaca, aleggiava tra le truppe asburgiche un "maligno spirito" e gli episodi di diserzione, sotto l'impressione di un disastro imminente, raggiunsero proporzioni preoccupanti.

Sul Piave, alle 3 del mattino del 15 giugno, le artiglierie austriache inondarono di lacrimogeni e fumogeni le linee italiane, mentre i genieri provvedevano immediatamente a gettare ponti attraverso il fiume. Durante la giornata le difese dell'8° Armata italiana furono superate, il Montello conquistato e, più a sud, vennero create due teste di ponte in direzione della strada Ponte di Piave-Treviso e della linea ferrata San Donà-Mestre, mentre i contrattacchi italiani del 17 e 18 fallivano l'uno dopo l'altro, anche a causa della scarsità di truppe dell'8° e 3° Armata. Il "maligno spirito" si abbattè, però, sugli attaccanti nella giornata del 18: il Piave, quasi a voler scongiurare il terribile pericolo che correvano gli Italiani, aumentò la piena, travolgendo le passerelle di barche e lasciando, così senza alimentazione le teste di ponte austriache.

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Il Comando Italiano, che aveva salvato pressochè tutte le proprie artiglierie grazie ai continui spostamenti, potè ora concentrarle sulle fasce occupate dal nemico lungo la riva destra del fiume e, infine, mosse le riserve: la 52° Divisione Alpina a Bassano del Grappa, la 33°, l'11° e la 7° a rinforzo della 3° Armata; la 47°, la 37° e la 22° a Treviso. Pennella, il comandante dell'8° Armata accusato da Diaz di non aver difeso strenuamente il Montello, venne sostituito con il generale Caviglia. Il 19 guigno tre nuove divisioni, la 57°, la 60° e la 47°, si unirono alla 50° che aveva difeso la martoriata collina e assalirono il paese di Nervesa (oggi Nervesa della Battaglia) ai piedi del Montello. Fu una mischia tremenda, dove da una parte e dall'altra si immolarono compagnie, battaglioni e reggimenti interi. Sul cielo di Nervesa, quel giorno, cadde anche Francesco Baracca, l'asso italiano dell'aviazione da caccia.

Il 20 giugno alle 19, il comando supremo austriaco ordinò ai difensori delle teste di ponte sul Piave di ritirarsi sulla riva sinistra e trincerarvisi a difesa. Nei due giorni successivi il medio e basso Piave era nuovamente italiano. Il tumulto della battaglia durò ancora qualche giorno a nord, sul Grappa, sull'Altopiano dell'Asiago e sul Tonale, ma non si trattava più di azioni offensive austriache, bensì di energici contrattacchi italiani che impegnavano le pur consistenti riserve nemiche. Poi a partire dal 5 luglio, tornò una relativa calma sul fronte. La seconda battaglia sul Piave era conclusa.

Come se non fossero bastati i combattimenti, nel febbraio del 1918 un flash dell'agenzia iberica "Fabra" segnalò alcuni casi di una nuova forma di malattia epidemica. Nessuno la prese sul serio poichè tosse e febbre alta non potevano, in quel momento, interessare più di tanto. Tra l'aprile e il maggio di quell'anno, però, "la spagnola" era già diffusa in tutta l'Europa e nelle sue trincee, e, a settembre, in tutti i continenti. Si calcola che ne morirono 22 milioni di persone; in Italia 375.000 vittime in soli tre mesi.

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Cavalieri del cielo

In Italia la guerra aerea si sviluppò con una certa intensità solamente a partire dal 1916, quando già sugli altri fronti operavano gli assi di chiara fama. Erano definiti "assi" (Kanonen per i Tedeschi), i piloti che avrebbero abbattuto almeno 4/5 aerei avversari. Le modalità di fregiarsi di una vittoria aerea variavano di molto a seconda del Paese; i più rigorosi erano i francesi, gli americani e gli Italiani. Francesco Baracca, tra i migliori aviatori italiani della Prima Guerra mondiale, è sicuramente il più celebre, l'asso degli assi.

Conseguì 34 vittorie aeree omologate, mostrandosi audace, spericolato ma anche cavalleresco e generoso. Divenne un "asso" già dal 1915, quando costrinse un Albatros, da lui danneggiato, ad atterrare entro le linee italiane. Quel giorno fece dipingere sul suo aereo Nieuport Bebè il celebre emblema del cavallino rampante, passato poi alla Ferrari di Modena, per gentile concessione della madre. Francesco Baracca morì in combattimento nel 1918, sul Montello.

L'Italia contò circa 42 assi, oltre ai 200 piloti con meno di 5 vittorie; l'Austria 45 sul fronte italiano tra i quali primeggiò Godwin Brumovsky con 35 vittorie, la Germania due Kanonen, con 5 vittorie ciscuno; la Francia uno con 6 vittorie. L'Inghilterra partecipò alle operazioni per 10 mesi con quattro squadrons ("squadriglie") di caccia, rivendicò ben 550 vittorie e 43 piloti inglesi poterono fregiarsi del titolo di "asso". Il migliore degli inglesi fu il maggiore William Barker, con 43 vittorie sui cieli italiani per un totale di 50 complessive. Il pilota tedesco Manfred von Richtofen, meglio conosciuto come il "Barone rosso" dal colore dell'aereoplano che pilotava, entrò nella leggenda degli "assi" compiendo imprese epiche nei cieli francesi.

Prima di morire in combattimento, nel 1918, si era aggiudicato un'ottantina di vittorie aeree. Infine Eddie Rickenbacker, dapprima autista personale del generale Pershing, comandante delle forze statunitensi in Europa, poi pilota da caccia, in pochi mesi abbattè 21 aerei nemici. Una volta gli era capitato di scontrarsi anche contro il mitico "Barone Rosso", ed era riuscito a sfuggirgli solamente grazie ad una straordinaria e spericolata manovra in picchiata; sopravvissuto alla guerra, Rickenbacker giunse alla presidenza della Eastern Airlines.

PIAVE

Memento Audere Semper (MAS)

All'inizio della guerra l'Italia auspicava una battaglia navale in grande stile, per assicurarsi la piena libertà in Adriatico e cancellare l'onta di Lissa (la sconfitta navale italiana del 1866, durante la terza Guerra d'Indipendenza). L'Austria godeva del grande vantaggio tattico di possedere navi e porti vicini alle coste italiane, mentre la flotta nemica era ormeggiata a Taranto.

La flotta asburgica limitò quindi il proprio impegno ai bombardamenti costieri, che mai la flotta italiana avrebbe potuto prevenire, ai sabotaggi delle navi italiane ancorate alla guerra sottomarina, ottenendo numerosi successi iniziali, dagli affondamenti degli incrociatori Amalfi e Garibaldi al sabotaggio e distruzione della corazzata Benedetto Brin. L'Italia reagì allora realizzando lo sbarramento antisommergibile nel canale di Otranto, che ben presto avrebbe completamente impedito i movimenti dei sottomarini tedeschi e austriaci, con treni costieri armati di potenti cannoni antinave e, infine, con l'azione insidiosa di mezzi navali leggeri e veloci: i MAS.

Così, mentre la guerra navale si riduceva anch'essa a guerra di posizione, con le flotte da battaglia dei continenti ancorate ai porti, i MAS (motoscafi antisommergibile) sostituivano alle torpedini i siluri, ma sempre più audacemente violavano i porti austriaci per raccogliervi successi fino ad allora impensabili. L'idea di utilizzare i MAS per incursioni nei porti nemici era venuta inizialmente a due giovani tenenti di vascello, Alfredo Berardinelli e Gennaro Pagano, i quali sperimentarono con successo questo metodo in sei missioni successive, al termine delle quali si era conseguito l'affondamento di cinque mercantili ormeggiati nei porti austriaci.

Da allora i MAS e i primi incursori inanellarono una serie continua di successi: dall'affondamento delle corazzate Wien e Santo Stefano, a opera di Luigi Rizzo, a quello della corazzata Viribus Unitis. Il motto di questi progenitori dei "maiali" e dei "barchini" della seconda guerra mondiale, Memento Audere Semper, era stato coniato da Gabriele D'Annunzio, che, tra l'altro, prese parte all'azione navale, guidata da Costanzo Ciano, con cui, nella notte tra il 10 e l'11 febbraio 1918 tre MAS riuscirono a penetrare nel porto di Buccari, in Dalmazia. Lo stesso D'Annunzio, che era imbarcato su uno dei MAS, battezzò l'impresa con il nome con cui passò alla storia: "beffa di Buccari".

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Il Bilancio

Gli austriaci persero, tra morti, feriti, dispersi e prigionieri, 118.000 uomini, mentre gli Italiani circa 85.000. In Austria, ormai, più nessuno poteva illudersi sull'esito della guerra, e lo stesso alleato tedesco ritirò alcune divisioni per destinarle al settore francese, visto che lo Stato Maggiore austriaco non poteva più tentare alcuna offensiva per proprio conto. In ottobre, quando scattò l'offensiva di Vittorio Veneto, l'esercito austriaco contava in Italia solo 228.000 soldati al fronte e 147.000 nelle retrovie, sebbene nei mesi precedenti non ci fossero stati grossi scontri, poiché in tre mesi 180.000 uomini si erano sbandati, avevano disertato o si erano arresi senza combattere.

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Le conseguenze

La vittoria difensiva fu salutata con autentica gioia non solo in Italia ma anche fra gli alleati, che non avevano nascosto la loro preoccupazione sulla capacità di tenuta della Penisola. Quando, poi, all'errata sensazione di miracolo si sostituì la certezza dell'irreversibile "sfascio" dello sconfitto esercito austriaco, tutti, in Italia e fuori, si adoperarono a perseguitare Diaz con continue richieste per proseguire l'offensiva. Diaz, però, non cedette alle pressioni e l'offensiva finale in direzione di Vittorio Veneto sarebbe stata lanciata solamente il 24 ottobre, quando oramai la vittoria già si annunciava sul fronte francese.

La richiesta di armistizio austriaca risultò quindi non determinante e, soprattutto, fu avanzata quando l'esercito italiano era ancora a poche centinaia di metri oltre il Piave: troppo lontano da Vienna, troppo lontano dai confini di anteguerra. Al tavolo della pace gli Alleati avrebbero "concesso" all'Italia solo alcune gioie tra le molte amarezze.

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Se avesse vinto l'Austria?

Un'eventuale sconfitta italiana sul Piave avrebbe imposto un arretramento prima sull'Adige, poi sul Mincio ed il Po. In realtà, la sconfitta avrebbe probabilmente causato lo sbandamento totale dell'esercito italiano che, pur se riorganizzato, non aveva ancora raggiunto la compattezza necessaria per affrontare una ritirata generale. Alcuni dati chiariscono la situazione: nel maggio 1918 vi fu il più alto numero di diserzioni di tutta la guerra e, le fucilazioni al fronte aumentarono con regolarità dal dicembre 1917 al giugno 1918, malgrado la fama di umanità della gestione Diaz. Una sconfitta sul Piave, insomma, avrebbe comportato l'uscita dell'Italia dalla guerra e, di conseguenza, il trasferimento di 30 divisioni e 10.000 cannoni austriaci ed ex-italiani sul fronte francese: la guerra sarebbe durata ancora almeno un anno, o, comunque, fino a quando gli Stati Uniti non avessero deciso di trasferire in Europa le loro enormi riserve militari.


Pubblicato il 22/07/2009