Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Sibota

433 a.C.

Il comandante ateniese

Andocide

Figlio di Leogora, del demo di Cidatene, oratore e uomo di stato ateniese. Nato prima del 440 a. C. di famiglia nobilissima (il nonno, di cui secondo l'uso greco aveva preso il nome - del resto non attico - era stato stratego e membro della commissione che stipulò la pace dei 30 anni con Sparta nel 446; buona parte dei giovani signori ateniesi che figurano in dialoghi platonici giovanili e lo stesso Platone erano suoi parenti), fu dalla sua stessa nascita attirato ben presto verso il partito oligarchico, e fece parte dell'eteria di Eufileto. Nel 415, coinvolto nel processo degli Ermocopidi, e arrestato insieme col padre e con parecchi congiunti, si decise, per consiglio di suo cugino Carmide, a confessare egli stesso e a denunciare quattro complici per salvare i suoi dalla morte e ottenere impunita. Ma, in forza di un successivo decreto che escludeva i confessi d'empietà dalla comunità sacrale della cittadinanza, dovette abbandonare la patria.

D'allora in poi visse all'estero, esercitando il commercio, finché nel 411 colse l'occasione di rifornire la flotta ateniese a Samo, per potersi così aprire il ritorno in patria. Ma, ritornato, fu dai Quattrocento accusato dinanzi al "consiglio", gettato di nuovo in prigione, e non ebbe salva la vita se non per la caduta di costoro. Allora tornò alla sua vita di commerciante, e si stabilì in Cipro, donde fornì di frumento Atene, sempre nella speranza di potere essere riammesso in patria. Ma un altro tentativo di ottenere la revoca della scomunica, verso il 407, del quale ci è documento l'orazione "Sul proprio ritorno" che si chiamerebbe forse meglio "Sull'impunità", tenuta dinanzi all'assemblea popolare, fallì anch'esso. E solo verso il 402, dopo anni passati di nuovo commerciando in Elide e a Cipro, poté, profittando dell'amnistia generale, concessa dopo la caduta dei Trenta, ritornare in Atene. Dove, ricco com'era per la fortuna fatta commerciando, conseguì, nonostante il suo burrascoso passato, onori e cariche. Ma, accusato di aver preso parte ai misteri eleusini, benché esclusone per il suo misfatto giovanile, dovette difendere esistenza civile e vita dinanzi a un tribunale composto di soli iniziati, il che fece con buon successo nell'orazione "Intorno ai misteri" (a. 398-97). Anzi la sua posizione politica ne uscì rinforzata, sicché egli, durante la guerra corinzia, nel 391, fu scelto con altri quale ambasciatore a Sparta per trattar della pace. Ma i suoi sforzi per ottenere l'assenso ad essa dell'assemblea ateniese, che ci sono documentati dall'orazione "Intorno alla pace con i Lacedemoni" fallirono, e anzi egli e i suoi compagni, come ha di recente mostrato senza lasciar più ombra di dubbio una fonte venuta inaspettatamente alla luce, accusati da Callistrato, preferirono esiliarsi che presentarsi al giudizio. Di qui in poi scompare ogni traccia di lui.

Abbiamo già avuto occasione di nominare le tre orazioni autentiche di Andocide nel loro ordine cronologico e nel loro contesto biografico. La quarta attribuitagli, contro Alcibiade, si riferisce agli avvenimenti del 417, e cioè alla controversia su chi dovesse essere ostracizzato, se Alcibiade, Nicia o l'oratore, il quale, poiché l'ostracismo non colpì mai se non uomini politici insigni, non può essere identico con Andocide. Né si sa immaginare dinanzi a quale assemblea quell'orazione potesse essere pronunziata: probabilmente è l'esercizio di un retore, capitato casualmente nella raccolta delle orazioni di Andocide.

La genesi

Sulla costa d'Illiria, presso il luogo dove sorge la moderna Durazzo, i Corciresi avevano fondato la città, d'Epidamno. Corcira (ora Corfù) era essa stessa una colonia di Corinto, e i suoi abitatori, nonostante l'inimicizia lungamente avuta con la madrepatria, erano stati costretti, conformemente all'antica e venerata consuetudine dei Greci in simili faccende, di scegliere fra i Corintii, L'Ecista, ossia istitutore della nuova colonia; per modo che Corinto era divenuta pure metropoli d'Epidamno. Nel tempo in cui parliamo, questa città, essendo stretta dalla popolazione illirica dei Taulantiani, guidata ai suoi danni da certi fuorusciti di parte oligarchica cacciati per causa d'una sollevazione popolare, si volse ai Corciresi affinchè in si grave pericolo venisse in suo aiuto; i quali, per essere principalmente collegati con l'aristocrazia d'Epidamno, ributtarono la fatta richiesta. Gli abitanti, consultato l'oracolo di Delfo, domandarono quindi soccorso ai Corintii, che accondiscesero all'invito e a tal fine apparecchiarono una spedizione composta parte di soldati, parte di nuovi coloni. I Corciresi fortemente irritati da questo intervento, si mossero per ristaurare l'oligarchia d'Epidamno, e con una flotta di quaranta navi bloccarono a città, serrandovi dentro il presidio inviato da Corinto; questa apparecchiò allora una spedizione anche più poderosa, raccogliendo a tal uopo navi e danaro dai propri alleati; ne volle consentire, nonostante gli sforzi della parte contraria, a rimetter la quistione nel giudizio d'un arbitro. I Corciresi preparatisi quindi a combattere, con la loro armata, che era la migliore della Grecia dopo quella d'Atene, sconfissero pienamente il nemico davanti al capo Azio; e nel giorno stesso Epidamno si rese alla squadra che la bloccava (435 av. C.).

Profondamente umiliatii Corintii, nei due anni seguenti operosamente si apparecchiarono a rifarsi del danno patito; misero in pronto essi stessi novanta legni bene armati, e mercé dei soccorsi con solerti cure ottenuti dai soci, tre anni dopo la rotta narrata, furono in istato da tenere il mare con una flotta di 150 vele. I Corciresi, che non si erano aggregati né alla lega di Sparta né a quella d'Atene, ma se ne stavano da sé soli, presero grande spavento di questi apparecchi, e decisero di cercare qualche difesa; or poiché Corinto era già alleata di Lacedemone, essi non potevano che volgersi ad Atene. Quindi spedirono ambasciatori in questa città, i quali, allorché furono introdotti nell'assemblea, si sforzarono di porre in luce con splendidi ragionamenti quanto sarebbesi accresciuta per l'unione con Corcira la potenza navale degli Ateniesi. I Corintii, che avevano pure mandato una ambasceria a Atene, risposero alle ragioni dei loro avversari, appellandosi ai patti della tregua di trent'anni; e ricordando agli Ateniesi come le proprie rimostranze avessero impedito gli alleati peloponnesiaci di aiutar Samo nell'ultima ribellione. Ancorchè su questo argomento fossero molto divise le opinioni degli Ateniesi, la vinsero finalmente Pericle e gli altri oratori i quali dimostravano che qualunque decisione si prendesse, una rottura non si poteva scansare; e però sostenevano esser miglior consiglio profittare dell'accrescimento di forze offerto dall'alleanza còrcirese, anziché dover poi sostenere la guerra con relativo svantaggio. Peraltro affine di non violare apertamente la tregua, si adottò il ripiego di conchiuder soltanto un'alleanza difensiva coi Corciresi, obbligandosi così a difenderli in caso che il loro stato fosse veramente invaso dai Corintii, ma non a prestar loro altrimenti aiuto per assalire. Stringendo questo patto, gli Ateniesi speravano di assistere senza pericolo ad una lotta in cui le armate di Corinto e di Corcira si distruggerebbero a vicenda; e probabilmente per conformarsi a tal politica, in soccorso dei nuovi alleati mandarono soltanto una piccola squadra dei dieci triremi, sotto il comando di Lacedemonio figlio di Cimone.

La battaglia

La flotta corintia forte di 150 vele, fermatasi presso il capo Cimmerio, sulla costa d'Epiro, pose quivi una stazione navale e chiamò in proprio aiuto le tribù amiche dell'Epiro. Frattanto 110 navi di Corcira, insieme con le dieci triremi ateniesi, avendo preso stazione dinanzi ad un'isola vicina detta Sibota, presto s'impegnò una battaglia la quale, pel numero di legni che v'ebbero parte, fu una fra le più importanti fino allora combattute tra due flotte interamente greche. Peraltro nè gli uni né gli altri avevano ancora adottato la tattica ateniese, ne conoscevano quel sistema d'assalto nel quale la nave stessa pel modo con cui era regolata, diventava uno strumento di guerra più importante della ciurma che vi stava sopra; essi non avevano altra idea di uno scontro navale che l'antica consuetudine di porre i bastimenti gli uni accanto agli altri e lasciare che gli opliti, azzuffandosi sul ponte come se fossero in terra, decidessero esito della battaglia. Sul principio Lacedemonio, a seconda delle istruzioni avute, non prese parte alla mischia, ancorché desse ai Corciresi quell'aiuto che per lui si poteva maggiore operando in guisa da mostrarsi pronto a combattere. Dopo lunga e accanita pugna parve finalmente che la fortuna stesse dal lato dei Corintii, ed allora gli Ateniesi, usciti dalla loro neutralità, a tutta possa si adoperarono a salvare i fuggiaschi dalle mani dei vincitori. Lo scontro avvenne di buon mattino; ed i Corintii, ritornati nel luogo del combattimento a raccogliere i morti e i feriti della loro nazione, si disposero a rinnuovare l'assalto nelle ore pomeridiane, e ad operare uno sbarco nella stessa Corcira. Gli abitanti, dal canto loro, si prepararono a ben riceverli, e gli Ateniesi i quali stavano questa volta allo stretto senso letterale delle istruzioni avute, decisero di aiutare come meglio sapessero i loro alleati. Intuonato il peana di guerra, gia erasi fatta al quanto innanzi la linea delle navi corintie, quando a un tratto si fermarono e volsero il timone verso la costa d'Epiro; la qual subitanea ritirata fu prodotta dal lontano apparire di venti vele ateniesi, che furono credute vanguardia di una flotta ancor più poderosa. Ma ancorche ciò non fosse, il soccorso era bastante per dissuadere i Corintii dal continuare la guerra; e infatti, tratte le loro navi presso la riva dell'Epiro, spedirono pochi uomini dentro una barca a lamentarsi con gli Ateniesi della tregua violata. Ed essendosi accorti nell'abboccamento che questi non intendevano assalirli con alcuna operazione di guerra, se ne tornarono con tutta la flotta alle case loro, dopo avere inalzato un trofeo a Sibota.

Le conseguenze

Giunti che furono a Corinto, vendettero come schiavi 800 dei loro prigionieri; e trattarono con speciale cortesia, ancorché gli tenessero sotto custodia, gli altri 250 appartenenti alle primarie famiglie di Corcira, sperando che potessero forse formare nell'isola una fazione favorevole a Corinto(432 a.C.).



Tratto da:
"Storia di Grecia - dai tempi primitivi alla conquista romana", Guglielmo Smith, Barbera, Firenze 1873