Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Rieti-Antrodoco

7-12 Marzo 1821

Gli avversari

Johann Maria Philipp Frimont (Finstingen, 3 febbraio 1759 - Vienna, 26 dicembre 1831)

Generale dell'esercito austriaco, poi nominato conte di Palota e principe di Antrodoco, nacque nella Lorena del Sacro Romano Impero Germanico, presso la città di Finstingen (l'odierna Fénétrange, oggi in Francia), frequentò ancora giovane il collegio di Pont-à-Mousson ed entrò nel 1776 come soldato semplice nel reggimento austriaco di ussari comandato dal conte Wurmser. Durante la Guerra di Successione bavarese venne nominato ufficiale col grado di Rittmeister e partecipò quindi alla guerra contro i turchi. Negli anni dal 1792 al 1800 si distinse, in particolare a Mannheim, nelle prime battaglie contro l'Esercito Rivoluzionario Francese e venne promosso al grado di Comandante di un reggimento di cacciatori sottoposto al comando del Conte Bussy.

Nel 1796, a Frankenthal fu insignito della Croce dell'Ordine Militare di Maria Teresa. Nella campagna del 1800, si distinse come comandante di cavalleria nella Battaglia di Marengo del 14 giugno, e nell'anno seguente fu promosso a Maggior generale. Nel 1805 prestò nuovamente servizio in Italia e ricoprì un ruolo fondamentale nella battaglia di Caldiero, in seguito alla quale l'Arciduca Carlo d'Austria-Teschen lo promosse al grado di Feldmaresciallo Luogotenente. Tornò ancora in Italia nel 1809, prendendo parte alla Battaglia di Sacile e ricevendo la croce di Commendatore dell'Ordine Militare di Maria Teresa, prima di guidare il reggimento cavalleria di Carlo I di Schwarzenberg nella Campagna di Russia.

Nel 1813, nominato Generale di cavalleria e comandante della Quinta Armata, servì nell'alto comando nella Battaglia di La Rothière e nella Battaglia di Arcis-sur-Aube. Dopo il Trattato di Parigi del 1814, divenne Governatore Militare di Magonza e nel 1815 divenne comandante in capo delle armate austriache in Italia, con le quali combatté dapprima Murat ed invase la Francia arrivando dall'Alta Savoia fino a Lione, dove entrò l'11 luglio, mentre altre truppe austro-sarde sotto il suo comando combattevano in Savoia, in Provenza e nel Delfinato, dove ebbe luogo la battaglia di Grenoble. Restò in Francia con il suo esercito per alcuni anni, finché non fu mandato nel 1819 a Venezia. Nel 1821 comandò l'esercito che vinse i costituzionali di Napoli e ristabilì sul trono Ferdinando I; ebbe il titolo di principe di Antrodoco e una dotazione. Successe (1825) al Bubna nelle funzioni di governatore generale del Lombardo-Veneto; fu (1831) presidente del Consiglio supremo di guerra dell'impero austroungarico.


Guglielmo Pepe - Generale e patriota, fratello di Florestano ( Squillace, Calabria, il 13 febbraio 1783 - Torino 8 agosto 1855)

Quattordicenne, fu mandato a Napoli, dove frequentò la scuola militare, e, uscitone nel 1799, s'iscrisse nella milizia della Repubblica Napoletana, combattendo agli ordini del generale Matera contro le orde del cardinale Ruffo, quindi al Ponte della Maddalena (13 giugno 1799), dove, dopo aver dato prove d'indomito coraggio, fu ferito e fatto prigioniero. Fu presente agli orrori della feroce reazione, poi, perché minorenne, liberato e cacciato in esilio. Da Marsiglia, dove sbarcò, si avviò a Digione e si arruolò nella legione italiana, la quale si unì all'esercito del Primo console, che per il San Bernardo si accingeva alla riconquista d'Italia, e, semplice soldato, combatté a Marengo (14 giugno 1800). Andato in Toscana, partecipò alla lotta contro i ribelli a Siena e ad Arezzo, quindi si portò a Milano e di là a Napoli, dove congiurò contro i Borboni, recandosi in Calabria, al fine di sollevarla. Arrestato e rinchiuso nell'orrido carcere di Maretimo, vi rimase tre ami, fino a quando (1806), impadronitisi i Francesi del regno di Napoli, fu liberato, dal re Giuseppe nominato maggiore nel nuovo esercito e inviato in Calabria agli ordini del Masséna per sedarvi l'insurrezione. Succeduto sul trono di Napoli al fratello di Napoleone I il Murat, il Pepe fu mandato a combattere in Spagna al comando d'un reggimento (9 novembre 1811) col grado di colonnello; e tornato a Napoli, fu promosso maresciallo di campo. Fece la campagna d'Italia col Murat contro il viceré d'Italia, segnalandosi al ponte sull'Enza e alla Secchia e in quella contro gli Austriaci, quando il Murat innalzò il vessillo dell'indipendenza italiana, conclusa tragicamente a Tolentino (16 aprile 1815). Tornati i Borboni sul trono di Napoli, il Pepe ottenne il comando della terza divisione militare (6 ottobre 1818). Due anni dopo (2 luglio), a Nola gli ufficiali Morelli e Silvati iniziarono la rivoluzione al grido di "viva la Costituzione", e il Pepe fu mandato a sedarla, ma alla notizia che il re prometteva una libera costituzione, entrò trionfalmente in Napoli alla testa delle schiere costituzionali e fu creato comandante supremo dell'esercito; ma si trovò in contrasto col Carascosa, ministro della Guerra. Sopraggiunta l'invasione austriaca (8 gennaio 1821), il Pepe comandò una parte dell'esercito napoletano che il vicario del regno inviò contro gli Austriaci, ma la rotta di Rieti sbandì ogni velleità da parte dei liberali e il Pepe, costretto all'esilio (21 marzo), prese imbarco su una nave spagnola. Sceso in Inghilterra, iniziò colà il lungo esilio durato fino al 1848. A Londra ebbe onorevoli accoglienze - particolarmente ambita fu dal Pepe l'amicizia del Foscolo - e diede alla luce (Parigi 1822) una narrazione degli avvenimenti napoletani del 1820-21 (tradotta in francese, in spagnolo e in inglese), per cui ebbe a sostenere un duello con il Carascosa. Nel 1830 andò a Parigi sperando salute all'Italia dalla rivoluzione di luglio; e quando ebbe notizia di quella dell'Italia centrale del febbraio 1831, corse a Marsiglia, poi a Lione, dove apprese il fallimento di quel moto. Tornato a Parigi, si dedicò a studî storici, e coltivò estese conoscenze con gli esuli del '31 e con gli uomini politici francesi più in vista. Nel 1833 pubblicò una Memoria sui mezzi che menano all'italiana indipendenza, con prefazione di A. Carrel; nel 1836 l'Italia militare, con prefazione del Thibaudeau; nel 1839 l'Italia politica, e nel 1846, in due volumi, le Memorie intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia. Nel marzo del 1848 le vicende italiane lo decisero a tornare in patria. Il 29 di quel mese entrò in Napoli, dove fu accolto in trionfo e dal re Ferdinando II riconfermato nel grado di generale ed ebbe affidato il comando dell'esercito spedito nel Veneto contro gli Austriaci. Partì il 3 maggio; e sbarcato ad Ancona cinque giorni dopo, vi assunse il comando delle truppe che man mano, con studiata lentezza, erano giunte o giungevano dal regno. Andato a Bologna, ebbe notizia dei tragici fatti del 15 maggio a Napoli e del richiamo delle truppe napoletane. Indotto dalle esortazioni del popolo bolognese, il 22 maggio il Pepe scrisse a Ferdinando II che la sua coscienza di soldato non gli permetteva di ubbidirgli; e mentre la maggior parte dell'esercito prendeva la via del ritorno, egli, alla testa di quanti avevano approvato la sua decisione, varcò il Po a Ferrara (10 giugno), e di là per Rovigo, accettato l'invito del Manin, entrò il 13 giugno in Venezia, dove il governo di quella repubblica lo nominò generale in capo dell'esercito (16 giugno). La sua azione, specialmente negli ultimi giorni della storica difesa, fu argomento di aspre critiche. Caduta la città (23 agosto 1849), il Pepe si avviò di nuovo in esilio. Giunto a Corfù (29 agosto), s'imbarcò per Genova (8 ottobre) e alla fine di novembre raggiunse Parigi. Colà attese a stendere le sue memorie sui Casi d'Italia negli anni 1847, '48, '49, date alla luce a Torino nel 1850, e subito dopo il colpo di stato del 2 dicembre partì per il Piemonte e a Torino trascorse gli ultimi suoi anni.

La genesi

La rivoluzione antiborbonica di Palermo nel luglio del 1820 e la sua tenace difesa nel settembre avevano rivelato quali energie insurrezionali e guerriere si celassero nel popolo palermitano; ma sia l'insurrezione della capitale sia le convulsioni del centro dell'isola avevano mostrato l'arretratezza del paese e la difficoltà di utilizzare tante forze latenti per un'azione ricostruttrice, non diciamo italiana, ma anche solo dell'isola. Del resto, Florestano Pepe era sconfessato dal parlamento costituzionale di Napoli, e sostituito in Sicilia dal generale del genio Pietro Colletta, il futuro storico, il quale restava nell'isola nel novembre-dicembre, finché le urgenze della guerra non lo facevano richiamare per assumere l'oneroso carico del ministero della Guerra. Egli insistette sulle misere condizioni dell'isola, povera e impoverita, incapace di sostenere da sola una bardatura burocratica troppo onerosa, e di compiere una vera rivoluzione ricostruttrice; conscio poi delle esigenze della difesa contro gli austriaci, propose che le truppe napoletane fossero limitate a 4500 uomini, di cui più della metà concentrate a Messina. Ma non fu ascoltato. E il suo successore, generale Nunziante, borbonico ardente, scriveva da Palermo il 14 gennaio: «Palermo, e posso dire la Sicilia tutta, è in uno stato di anarchia, e perciò, lungi dal diminuirsi la truppa, dovrebbe anzi aumentarsi la forza». In questo modo il problema siciliano rimaneva del tutto insoluto (nel 1822 furono, per misura precauzionale, soppresse le settantadue «maestranze» di Palermo), e non solo la Sicilia non contribuì alla difesa del regno contro gli austriaci, ma trattenne presso di sé, in così grave circostanza, un quarto delle migliori truppe. E alla guerra bisognava pensare, visto che l'Austria, oltretutto, aveva stretto un trattato segreto col re delle Due Sicilie, che l'autorizzava a intervenire contro movimenti che ne mutassero l'assetto politico. Nel convegno di Troppau, i sovrani ricusarono di trattare col governo costituzionale napoletano e invitarono il re di Napoli a recarsi personalmente a Lubiana, dove avrebbero trasportato il congresso. Il 12 dicembre il parlamento deliberava di lasciar partire il re. Questi da cinque mesi si considerava poco meno che prigioniero di una accozzaglia di piccoli borghesi disoccupati, cui si erano uniti molti ufficiali inferiori e alcuni pezzi grossi del decennio francese; non si riteneva in cuor suo vincolato dal giuramento alla costituzione, perché estortogli di fatto con la violenza. Per lo stesso motivo si ritenne libero di dichiarare che a Lubiana avrebbe difeso apertamente la costituzione. Il 16 gennaio il Mettermeli, sicuro del nulla osta di tutte le grandi potenze, poteva annunziare al congresso di Lubiana che l'Austria sarebbe intervenuta con la forza contro Napoli; la Russia preparava dal canto suo un esercito di riserva, nel caso che quello apprestato dall'Austria si fosse rivelato insufficiente. Il 13 febbraio 1821 il parlamento, convocato in seduta straordinaria, fu chiamato a decidere circa il cedere all'Austria od opporre resistenza. Il 14 e il 15 la discussione continuò animata: si disse e si ripetè che il re era prigioniero dei sovrani della Santa Alleanza, che dinastia e nazione avevano un unico spirito e un'unica brama. Lo stesso principe ereditario, ora principe reggente, aveva infatti giurato fedeltà alla costituzione. Molti deputati chiesero di lasciare i loro scranni per correre alla frontiera a combattere, e alla fine si deliberò la guerra fra il più grande entusiasmo. Ormai il dramma volgeva alla tragedia, il nemico si avvicinava. In quali condizioni era l'esercito napoletano?

Esso non contava, allo scoppio della rivoluzione, che 20.000 uomini circa, più le milizie provinciali, di valore molto inuguale e comunque a priori inferiori alle agguerrite e disciplinate truppe dell'Austria. La rivoluzione siciliana aveva finito con l'assorbire più di metà delle vecchie forze regolari. Pure, il governo costituzionale si era subito preoccupato di rafforzare l'esercito, valutato ora a 22.000 uomini, portandolo a 50 000 con una leva di 28.000. L'esercito salì presto a 52.000 uomini, senza contare le milizie provinciali: esse furono accresciute e completate e divise in battaglioni di «legionari», più giovani e destinati a rafforzare al bisogno l'esercito regolare; di «militi», vera e propria milizia territoriale, a difesa delle singole province; e di «urbani», a difesa delle città. Le milizie provinciali, sulla carta, sommavano a ben 200.000 uomini; e il Pepe, che già tanto aveva contribuito al loro riordinamento per non dire alla loro nuova creazione, e nell'ottobre ne aveva assunto la direzione generale, sperava molto da esse, specialmente dai legionari!. In questo modo, nel novembre, l'esercito regolare contava 40.000 uomini presenti in terra ferma, senza quelli della Sicilia; e il loro armamento era pressoché al completo; si era invece ancora molto indietro nell'armamento delle milizie provinciali e delle fortezze, nonché nei rafforzamenti difensivi al confine. Erano insufficienti i servizi sanitari e logistici, e questo mentre la stagione invernale minacciava di richiedere maggiori sacrifici dalle truppe. Si erano fatti invece numerosi studi sul valore difensivo e controffensivo della frontiera napoletana, sulle successive linee di difesa, sui lavori di rafforzamento necessari. Ma c'erano assai più progetti e studi teorici che lavori. Si cominciava già ora a far recriminazioni contro il Carrascosa, nominato nel luglio ministro della Guerra, e il Parisi, suo successore; e ora si sperava che il generale Colletta, reduce dalla Sicilia, compisse il miracolo. Decisa la guerra, si doveva creare un capo dell'esercito d'operazioni. Il più calmo, equilibrato e autorevole appariva il Carrascosa, ma era mal visto dai carbonari; il Pepe, assai più giovane, era però sempre l'uomo della rivoluzione e il capo riconosciuto della Carboneria nell'esercito. Ci si attenne allora alla peggiore delle soluzioni: si lasciò il comando supremo nominale al principe ereditario reggente, il quale restava a Napoli o si sarebbe al più trasferito a Capua, e si diede al Carrascosa il comando del I Corpo, che si presumeva dovesse sostenere la parte principale e più difficile nella lotta, mentre al Pepe si dava quello del II Corpo, che, dislocato in Abruzzo, si pensava dovesse avere una parte secondaria. Esso infatti aveva una percentuale molto maggiore di legionari. Come già si è visto, il vecchio confine del regno di Napoli era tutt'altro che cattivo militarmente. Esso correva traversando l'Italia centrale diagonalmente, sì da creare un rientrante e un saliente. Il saliente formato dall'acrocoro abruzzese ben si prestava ad azioni controffensive: un esercito invasore, che avesse voluto seguire la solita via di penetrazione nel regno, per Frosinone, Cassino, Capua, si sarebbe trovato con la grave minaccia d'un corpo nemico sboccante alle spalle dall'Abruzzo. Se invece avesse voluto eliminare prima il pericoloso saliente, avrebbe dovuto urtare contro una serie di posizioni montane naturalmente molto forti. Scopo della difesa, dunque, era sfruttare al massimo grado il saliente abruzzese; compito dell'assalitore, invece, eliminare il saliente col minor dispendio possibile di forze. L'invasore che fosse poi riuscito a penetrare entro l'acrocoro, avrebbe anche minacciato di fianco e alle spalle la difesa principale del regno, posta sulla via Latina; che da L'Aquila andando poi per Avezzano permette di scendere alla valle del Liri ed inoltre al tempo stesso può aprire la strada per Sulmona, Castel di Sangro, Isernia, Venafro, e quindi discendere lungo la valle del Volturno. A Napoli si discusse dunque la difesa da adottare. Parve logico supporre che gli austriaci col grosso dovessero puntare verso Capua, lungo la via Latina, e cercare al tempo stesso, con dei distaccamenti, di eliminare il saliente abruzzese. Perciò il I Corpo, che sbarrava il rientrante del confine, ossia la via Latina e l'altra sussidiaria di Terracina, con un fronte di una quarantina di chilometri, riuniva 3 delle 4 divisioni regolari, oltre a un certo numero di legionari; e il corpo del Pepe in Abruzzo non constava che di una divisione regolare, per quanto relativamente grossa, e di un discreto numero di legionari e militi. Il tratto di gran lunga maggiore della frontiera era perciò non ben guarnito. Questa dislocazione delle forze mostra che a Napoli non si aveva in mente di fare un'energica difesa manovrata, sboccando con grandi forze dagli Abruzzi, ma che si pensava a una semplice difesa passiva tanto della via Latina che dell'acrocoro abruzzese. Quivi le milizie provinciali, poco agguerrite e malissimo armate, avrebbero ugualmente potuto far buona difesa, appoggiandosi a posizioni per natura molto forti; e il Pepe, loro capo da vario tempo ormai, avrebbe avuto la possibilità d'impiegarle nel modo più conveniente. Le principali strette montane erano state rafforzate con opere campali, sebbene in realtà, anche quanto a lavori di rafforzamento, si fosse curata soprattutto la via Latina e in generale la zona del I Corpo, naturalmente più debole, e che, nelle previsioni, aveva maggior probabilità di dover sostenere lo sforzo principale. Inoltre le milizie provinciali in Abruzzo mancavano di cappotti, di coperte, di zaini, indispensabili in una montuosa nel cuore dell'inverno. In complesso il Carrascosa disponeva di 18.000 uomini, 1.400 cavalli, 36 cannoni, più circa 7.000 militi o legionari; il Pepe di 7.000 soldati, 230 cavalli, 12 cannoni e 7.000 militi. Ma se in linea si trovavano 25.000 uomini di truppa regolare, invece di 28.000, di truppe provinciali se ne potevano contare 14.000 anziché 42.000! Già la Carboneria aveva dato un esempio scandaloso, esentando una quantità di gente con il sistema del cambio; e ciò aveva demoralizzato non poco i rimasti; poi i battaglioni erano giunti alla frontiera in condizioni spesso misere, armati talvolta di fucili da caccia, con gli effettivi ridottissimi; e le diserzioni non si erano fatte attendere. Nel contempo era uno spettacolo poco edificante, quello offerto della borghesia che nel momento del pericolo si affrettò a imboscare i propri figli, mandando a far la guerra i poveri contadini ignoranti; una guerra in difesa di una rivoluzione non loro, dalla quale non vedevano possibilità di trarre il minimo vantaggio materiale e morale! Il Colletta, negli ultimi tempi, d'accordo, pare, con il reggente e con molti altri generali, aveva stabilito di autorizzare ogni comune del regno « a fortificarsi per opporre al nemico la più valida resistenza ». Ufficiali del genio avrebbero diretto i lavori, mentre a difesa dei comuni si sarebbero portati pezzi d'artiglieria. Comunque, la difesa del regno avrebbe dovuto essere puramente passiva. Le direttive del Vicario al Pepe ammettevano ch'egli potesse sconfinare anche prima di essere materialmente attaccato dal nemico, ma solo per migliorare lo schieramento difensivo, mai a scopo controffensivo.

Contro questi 40.000 uomini, così poco affiatati e omogenei, tanto diversamente armati ed equipaggiati, così poco ben disposti moralmente (una delle 3 divisioni del Carrascosa già lasciava intendere di non volersi battere contro il proprio re), marciava l'esercito austriaco, forte di 5 divisioni. Lo comandava il barone di Frimont, quello stesso che nel 1815 guidò le forze austro-sarde nella spedizione della Francia meridionale. Molti ufficiali e soldati avevano già partecipato alla guerra dello stesso anno contro Gioacchino Murat. La sproporzione non era grande, dato che gli austriaci dovevano assalire e superare posizioni fortificate, spesso già naturalmente robuste. Ma altre forze restavano a presidiare il Lombardo-Veneto, sia per tenere a freno le popolazioni, sia per fronteggiare una possibile minaccia dalla parte del Piemonte. Non per nulla lo zar aveva messo a disposizione del collega austriaco ben 100.000 uomini di riserva! Ma il Metternich, dopo gli esempi del 1798, del 1806 e dello sfacelo finale del 1815, mostrava la più grande fiducia nella non-resistenza dei napoletani, e pronosticava che in un mese o anche meno i suoi soldati si sarebbero « assisi sulle sedie curiali dei legislatori partenopei ». In verità, il piano di guerra del Frimont rivelava un notevole disprezzo per l'avversario. Egli si proponeva di concentrare senz'altro lo sforzo contro gli Abruzzi, ossia contro la parte del regno naturalmente più forte. Così avevano fatto gli austriaci anche nel 1815, ma dopo che le forze napoletane, battute a Tolentino, già si trovavano in dissoluzione. Ora invece lo stesso procedimento era adottato contro un esercito nemico intatto. La conseguenza era che il corpo del Pepe, tanto più debole, veniva ad assumere la parte principale nelle imminenti operazioni. Delle 5 divisioni austriache, una era passata per le Marche, mentre le altre 4 scendevano per la Toscana, tre per Arezzo e la val di Chiana, una per Empoli e Siena. La divisione che scendeva per le Marche, condotta dal generale Wallmoden, anziché proseguire lungo l'Adriatico, da Ancona volgeva a destra per Tolentino e scendeva a Foligno, Terni e Rieti, girando attorno alla parte settentrionale dell'acrocoro abruzzese. Le tre divisioni che venivano da Arezzo, ripiegando verso Perugia, si erano portate rispettivamente a Foligno, a Spoleto e a Terni, mentre la divisione che moveva da Siena, già si trovava a oriente di Roma, a Tivoli. Il quartier generale era a Terni. In conclusione, si avevano ben 4 divisioni austriache scaglionate in profondità, che sembravano mirare al forzamento della grande via Terni-Rieti-Aquila, la via sbarrata dalla stretta d'Antrodoco. Più a sud, una quinta divisione si trovava a Tivoli, sulla strada verso Avezzano, ma in condizione di volgere all'occorrenza verso la via Latina. Il 2 marzo, dunque, tutte le forze austriache apparivano volte contro il corpo del Pepe, all'infuori d'una divisione, che, potenzialmente, era in condizione d'agire sollecitamente anche contro il corpo del Carrascosa. Stando cosi le cose, sarebbe stato necessario che, servendosi soprattutto dell'ottima via d'arroccamento che passa per la valle del Liri, Sora, Avezzano, Aquila, il corpo del Carrascosa avesse inviato molte delle sue forze in sostegno del corpo del Pepe. Si aveva il vantaggio di poter agire per linee interne. Ma in realtà, stava subentrando negli animi la paura e il desiderio di venire a trattative prima che il dissolvimento dell'esercito rendesse impossibile di stabilire patti decorosi e ponesse tutti alla mercé del vincitore. Tutti cominciavano a temere per il proprio impiego, le proprie sostanze, la propria sorte.

L'unico a voler sul serio la guerra restava Guglielmo Pepe, il quale, nonché ricevere soccorsi dal Carrascosa, si trovava con 2.000 legionari mancanti di fucili, anche da caccia. Tutto il peso dell'esercito austriaco stava per rovesciarsi sopra di lui; le diserzioni si facevano preoccupanti. Egli decise d'attaccare. La situazione era già disperata; qualunque risultato difficilmente l'avrebbe peggiorata ancora. Egli nutriva tuttavia, nonostante tutto, una certa fiducia nelle sue legioni provinciali: se gli fosse riuscito, col grosso delle sue forze, di battere separatamente la divisione Wallmoden, avanguardia del grosso del nemico, e ricacciarla in disordine su Terni, avrebbe ottenuto un notevole successo iniziale, risollevato lo spirito dei suoi, obbligato il Carrascosa a non lasciarlo senza rinforzi e mostrato agli austriaci la difficoltà di un forzamento delle strette abruzzesi. La mossa, se letta come rettifica dello schieramento, non aveva ragione d'essere: si abbandonavano posizioni ottime, per cercarne altre meno buone al di là del « confine militare » del regno. Ma era giustificata non come azione controffensiva, perché il grosso degli austriaci non era affatto oltre Roma, ma per uno scopo morale: un successo iniziale, che galvanizzasse i napoletani e impensierisse il re e gli austriaci. In questo modo si sarebbero anche in seguito potute ottenere condizioni di pace migliori. Il Pepe aveva alla destra, sul Tronto, 1.300 regolari e 1.000 civici; ad Antrodoco, al centro, 5.000 regolari con 200 cavalli e 2 compagnie del genio, e 4.000 provinciali; a Tagliacozzo, presso Avezzano, meno di 1.000 civici; inoltre, dì collegamento fra il centro e la destra, 600 regolari e 1.200 militi. In conclusione, a portata di mano il Pepe aveva 6.000 regolari e 5.500 militi. Di fronte a luì la divisione Wallmoden era forte di 9 battaglioni, 4 squadroni, 2 batterie: 9.000 uomini o poco più. A questi si dovevano però aggiungere i 3 battaglioni e i cavalli che fronteggiavano il nucleo di collegamento fra la destra e il centro del Pepe, cosicché le forze austriache sommavano a 12.000 uomini contro gli 11.500 del Pepe. Impresa quanto mai ardua, dunque, quella del generale calabrese, la quale però trovava una possibilità di riuscita nel fatto che la divisione austriaca aveva le due brigate separate, a quattro o cinque chilometri l'una dall'altra: un attacco rapido e travolgente, di sorpresa, avrebbe forse potuto sfaldare prima l'una, poi l'altra brigata. Gli austriaci avevano in Rieti la brigata Geppert, con 4.000 fanti e 500 cavalieri. Cinque chilometri più indietro, l'altra brigata col Wallmoden, forte di 4.500 uomini e 12 cannoni. Rieti, situata sulla riva destra del Velino, è da tre lati circuita dai colli che ne orlano la conca: impadronirsi di Rieti, per chi venga dall'Abruzzo, significa impadronirsi prima dei colli che le fanno da corona. Il Geppert aveva sullo stradone o nelle immediate vicinanze 2.500 fanti e 500 cavalli, 1.000 uomini a protezione della sua destra, 4 o 500 della sua sinistra. Le forze del centro e della destra erano vicine e in grado di sostenersi a vicenda; quelle poche della sinistra si trovavano invece alquanto isolate. In conclusione, la brigata Geppert aveva 3.500 fanti e 500 cavalli in grado d'opporre una valida e organica resistenza. La sera del 6 marzo 1821 il Pepe si portava in Cittaducale, a sette chilometri da Rieti, e divideva i suoi in tre colonne. Quella di sinistra, di quasi 2.000 regolari, 600 civici e 3 cannoni, col generale Montemayor, doveva attaccare all'alba del 7 la destra austriaca di 1.000 uomini, così da richiamare da quella parte le forze del centro. La colonna centrale, di quasi 4.000 regolari, 3.000 civici, 200 cavalli, 6 cannoni, era ai suoi ordini, in parte in prima linea, in parte come riserva in Cittaducale; essa doveva attaccare lungo lo stradone frontalmente. La colonna di destra, di 1.200 regolari e 600 civici, col generale Russo, doveva assalire la sinistra austriaca, forte come sappiamo di 4 o 500 uomini. In conclusione, il Pepe mirava ad impegnare fortemente il nemico alla sua destra, obbligarlo a portar qui molte sue forze, e allora attaccarlo vigorosamente al centro e avvilupparlo alla sinistra. L'azione, se ben eseguita, avrebbe potuto veramente porre in criticissima situazione la brigata Geppert, e l'altra brigata non sarebbe giunta in tempo al soccorso e avrebbe potuto essere coinvolta nella rotta. Per impedire poi alla divisione austriaca, che era a Terni, di accorrere, il colonnello Liguori, coi suoi 600 regolari e 1.200 militi di collegamento fra il centro e la destra, doveva da Leonessa puntare su Piediluco, lungo la strada da Terni a Rieti, e ributtare su Terni o almeno impegnare fortemente i 3.000 austriaci là distaccati e richiamare su di sé altre forze da Terni. Il piano non era mal concepito, come riconobbe lo stesso nemico, non mostrando il livore che invece ebbero molti compagni d'armi del patriota calabrese.

La battaglia

Il 7 marzo, al mattino, l'azione ha dunque inizio alla sinistra napoletana; ma il Montemayor, debole di carattere e indeciso, non attacca che alle dieci anziché alle sei, e procede fiaccamente, nonostante la sua grande superiorità numerica, cosicché gli austriaci non devono levare dal centro parte delle loro forze, come il Pepe aveva sperato. Dopo un'ora di chiassosa e poco efficace sparatoria da quel lato, il Pepe decide di attaccare ugualmente al centro, prima che l'altra brigata austriaca giunga in aiuto: e il nemico al centro indietreggia verso la propria destra, mentre il generale Russo avanza contro la debole sinistra austriaca. Ma la seconda brigata austriaca corse immediatamente al soccorso. Circa 1.000 austriaci procedono così per la sinistra del Velino, minacciando di fianco le truppe di Montemayor; 3.000 uomini con 200 cavalli e 6 cannoni vengono a rafforzare il centro, mentre altri 2.000 muovono a sostegno della loro debole sinistra e accennano a contrattaccare. L'attacco del Montemayor è cominciato alle dieci, quello del Pepe e del Russo alle undici; e già a mezzogiorno i rinforzi austriaci sono in linea. Il Pepe, visti i progressi del Russo alla sua destra, sull'altura di Castelfranco, gli mandò, a rinforzo, 1.300 regolari della riserva, agli ordini del colonnello Casella, e questi sono giunti a sostegno del Russo respingendo le cariche dei 500 cavalieri austriaci, già all'avanguardia sulla strada maestra. Ma questo rinforzo è tardivo, perché dalla parte opposta il nemico ha avuto a sostegno ben 2.000 uomini della seconda brigata, cosicché il Russo deve solo pensare a prolungare la difesa, non ad accerchiare le forze austriache. Alla fine i napoletani cominciano a retrocedere, per quanto lentamente e sempre combattendo; però gli austriaci, incuneandosi tra le forze del Russo e quelle del Casella, obbligano il secondo a ripiegare verso nord, mentre il primo con ampio giro può tornare sullo stradone di Cittaducale. Al centro e alla sinistra dei napoletani l'azione era proceduta fiaccamente: tanto gli austriaci che i napoletani aspettavano ormai i risultati dal lato di Castelfranco. Quando però il Pepe vede delinearsi la minaccia austriaca da questa parte, decide la ritirata. Proprio ora il nemico passa decisamente al contrattacco su tutta la linea e specialmente al centro. È però sulle prime trattenuto e respinto con perdite. Ma quando le colonne abbandonano la formazione di combattimento e prendono a ritirarsi, avviene d'improvviso un pauroso collasso: voci di tradimento, di prossime vendette del re, incitamenti di elementi borbonici, si propagano con incredibile rapidità; le righe si scompaginano, comincia un fuggi-fuggi e una dissoluzione generale. Per fortuna, gli austriaci, che nell'insieme non hanno agito nella giornata con troppa energia, paghi di respingere la puntata offensiva napoletana, non inseguirono con troppa foga. Il Russo può porsi in retroguardia, con 600 regolari, 4 cannoni e 300 cavalli, e trattenere il nemico infliggendogli perdite; le tenebre sopraggiunte pongono fine al combattimento. Il Pepe si ferma presso Cittaducale e spedisce ufficiali per raccogliere gli sbandati in Antrodoco. Dal canto suo, il Montemayor si ritira per le colline, debolmente inseguito, ma ben presto le sue truppe prendono a sbandarsi e solo una pìccola schiera si ritira compatta fino all'Aquila.

Lo stesso giorno il colonnello Liguori aveva assalito l'avanguardia dei 3.000 austriaci distaccati presso Piediluco, sulle prime con qualche successo; ma accorso il grosso del nemico, era stato respinto e inseguito. Nessun rinforzo era stato necessario, da Terni, agli austriaci. Così era finita l'azione da cui il Pepe sperava trarre nuovi spiriti vitali per galvanizzare quel povero esercito! Gli austriaci ebbero 4 ufficiali e 50 soldati fra morti e feriti; non si conoscono le perdite dei napoletani, ma dovettero essere anche minori. Le perdite austriache furono soprattutto al centro, dove il combattimento fu a volte abbastanza vivo e dov'era il Pepe in persona. Ma in complesso si ebbe un'azione fiacca dalle due parti, tirata in lungo, con perdite minime. Se non che agli austriaci bastava respingere il nemico e la loro calma era comprensibile; i napoletani avevano necessità dì vincere, e avrebbero dovuto combattere con maggiore energia. La vittoria fu decisa all'ala sinistra degli austriaci, dove si trovaron contro, nel momento decisivo, 2.400 fanti e 500 cavalli austriaci, contro 2.500 regolari e 600 civici napoletani. In realtà, la battaglia era stata già perduta quando l'attacco di Montemayor, tardivo e fiacco, si era rivelato incapace di richiamare sopra di sé altri austriaci, e quando il Russo, pur con forze tanto superiori, non era riuscito a far subito piazza pulita delle poche truppe che aveva di fronte presso Castelfranco. I napoletani non si erano battuti male, ma un'azione simile, quale le circostanze esigevano, avrebbe potuto riuscire solo se condotta da schiere animose, ben addestrate, ben guidate. Certo, sarebbe stato meglio impostarla con un'azione avvolgente della destra napoletana, il più possibile forte, e riducendo a una finta l'attacco al centro. Il vigore con cui la cavalleria nemica tentò ostacolare i rinforzi mandati all'ala destra lo prova, e la battaglia si decise veramente da quel lato. Ma essa risentì dell'impostazione iniziale poco felice; e quando il Pepe volle nel corso del combattimento, mutare lo sfondamento al centro in un avvolgimento sulla destra, non ebbe né tempo né forze sufficienti: la confusione concettuale si mutò all'atto pratico in una fatale dispersione di forze.

Ora non restava che la speranza di tenere Antrodoco, luogo per natura molto torte, e rannodare i ruggitivi e i dispersi. A tal fine, anzi, il Pepe si recava all'Aquila, lasciando ad Antrodoco il Russo con 1.000 fanti e 300 cavalli. Dal lato opposto, il generalissimo austriaco aveva deciso che la divisione Wallmoden, preso un giorno di riposo, passasse senz'altro decisamente all'offensiva, cercando d'impadronirsi al più presto della stretta di Antrodoco. La brigata Geppert avrebbe dovuto continuare in avanguardia e attaccare frontalmente, mentre l'altra brigata avrebbe formato due distaccamenti, allo scopo di girare la stretta a destra e a sinistra, inerpicandosi sui monti. La chiusa, già fortissima per natura, era rafforzata da un dirupo davanti ad Antrodoco, dal castello di Antrodoco nel mezzo, e da un'altra scoscesa dietro. I rafforzamenti miravano dunque a sbarrare dal basso un varco dì per sé molto difficile: purtroppo nulla era stato fatto per impedire l'aggiramento dall'alto! Ma nonostante questo, il compito della divisione austriaca sarebbe stato assai arduo se il difensore avesse voluto davvero combattere. Mentre la divisione Wallmoden avanzava contro Antrodoco e l'Aquila, la divisione di Terni doveva procedere a suo sostegno verso Rieti, e la divisione che era a Tivoli muovere decisamente contro Avezzano, senza più pensare alla via Latina. Era evidente che gli austriaci, dopo il successo iniziale, volevano più che mai procedere contro il corpo del Pepe e gli Abruzzi, come già e ancor più di quanto avevano fatto nel 1815. Le operazioni contro Antrodoco cominciano il 9 marzo, alle undici del mattino. Le due colonne aggiranti non trovano alcun ostacolo, all'infuori del terreno difficile; quella di destra alle tre del pomeriggio ha compiuto l'aggiramento della tagliata antistante e del castello di Antrodoco, e scendendo al basso urta contro la scoscesa retrostante arrestandosi. La colonna di sinistra procede più lentamente, sempre per colpa del terreno, che in quel settore presenta maggiori difficoltà. Ad ogni modo, appena i progressi delle due colonne laterali si rendono manifesti, la brigata Geppert attacca frontalmente la prima tagliata e subito se ne impadronisce. I difensori si ritrassero così ad Antrodoco, due chilometri più addietro; quivi la resistenza è tenace, ma presto il Russo si trova col nemico alle spalle: la colonna austriaca di destra, che s'è calata fra Antrodoco e la seconda tagliata. Perciò alle quattro pomeridiane deve iniziare la ritirata lungo le alture non ancora occupate dalla colonna di sinistra austriaca, unico varco tuttora libero. Le tenebre pongono di nuovo fine al combattere. Nella notte anche la seconda tagliata viene abbandonata. In tal modo, il 10 mattina, la formidabile posizione di Antrodoco è tutta quanta superata, e la sera dello stesso giorno gli austriaci entrano in L'Aquila. Nella stessa mattinata del 9 marzo, mentre si combatteva ad Antrodoco, parte della divisione austriaca che era a Tivoli ha assalito le scarse forze napoletane oltre Carsoli per aprirsi la via verso Avezzano. Il colonnello Manthonè, con un migliaio d'uomini fra regolari e militi, organizza una flebile difesa, poi le sue truppe si ritirano e si disperdono. Le forze rimaste indisturbate sul Tronto, 1300 regolari e 1000 civici, col generale Verdinois, il 12 iniziano la loro ritirata, e ben presto anch'esse si disperdono. Il II Corpo, quello per eccellenza della rivoluzione, dopo un combattimento incerto e in ultimo sfavorevole, in cui però si è battuto discretamente, ora si dissolve in un modo impressionante, abbandonando posizioni molto forti: terribile crisi morale, da cui sono ugualmente presi soldati regolari e provinciali, senza che nulla riesca a frenarla.

Le conseguenze

A Napoli si era sperato che i resti del corpo del Pepe potessero almeno tenere le strette di Roveto sul Liri e quelle della strada che va da Sulmona a Isernia. Ma ora lo stesso I Corpo si vedeva minacciato d'aggiramento dalla valle del Liri e da quella del Volturno. Non avendo questa minaccia in realtà il I Corpo avrebbe mandato rinforzi e si sarebbe ricostituita una buona linea difensiva, con un fronte notevolmente raccorciato, ma ormai non c'era più nessuno a cui dar rinforzo. Gli stessi austriaci, meravigliati della facilità con cui era stato occupato l'acrocoro abruzzese, senza che si vedesse traccia d'insurrezione partigiana a sostegno delle truppe operanti, hanno in parte, modificato il loro piano: 2 sole divisioni devono completare la conquista dell'Abruzzo e poi scendere per la valle del Liri una, per quella del Volturno l'altra. Il grosso della divisione, che da Tivoli ha operato verso il lago di Fucino, deve invece adesso retrocedere e muovere per la via Latina, sostenuta da un'altra divisione; Pultima resterebbe per ora in riserva a Terni. Il Frimont si dispone dunque a prendere di fronte e di fianco con 40.000 uomini, i 25.000 del Carrascosa. Ma le diserzioni crescono in modo impressionante anche fra queste truppe, che non hanno combattuto! La linea Itri-Cassino appare minacciata di aggiramento dalla valle del Liri; si decide di portare la difesa alla stretta di Mignano e a quella di Sesto sul Volturno, in modo da esser sicuri anche dalla parte di Isernia. Ma anche questa linea è ormai minacciata di un più ampio aggiramento; pare opportuno ritirar dietro il Volturno a Capua.

Il Pepe, rimasto all'Aquila fino al 10, partendone poco prima che la occupassero gli austriaci, dopo aver sostato a Sulmona e Castel di Sangro, si è ritirato a Isernia, mirando sgomento la dissoluzione dì tutte le sue forze. Giunge a Isernìa la sera del 12 e quivi arriva pure il Russo con circa 2.000 uomini, quanto resta del II Corpo! Ma gli avvenimenti precipitano e il Pepili 15 è a Napoli per discutere col reggente il da farsi. Ormai la sua autorità è crollata. Per levarselo di torno, il reggente lo incarica di ricostituire il II Corpo fra i monti di Avellino e Monteforte, i luoghi sacri della rivoluzione. Intanto si medita una nuova linea di difesa Capua-Ariano, e un'altra ancori! più indietro, alla stretta di Cava dei Tirreni, appoggiata alla destra alla mon tagna di Monteforte e a quella d'Ariano, cosi da riprodurre in qualche modo il saliente controffensivo già irrimediabilmente perduto. Vani progetti, destinati a restare sulla carta! Gli austriaci scendono per la valle del Liri, a Sora il I Corpo scambia le prime fucilate col nemico, poi il distaccamento del colonnello De Concilj si ritira subito. I soldati si ammutinano apertamente, sparando contro le tende degli ufficiali superiori! La divisione Wallmoden scende tranquillamente da Isernia per la valle del Volturno, lo passa a monte di Capua e gira anche questa linea. In Capua vi sono ormai soltanto 2 battaglioni della Guardia Reale. Il 20 marzo, tra il generale austriaco Fìcquelmont e il generale D'Ambrosio si stabilisce la cessazione delle ostilità e si consente che ogni atto debba d'ora in poi esser fatto unicamente nel nome del re, legittimo sovrano del regno. Il 21 gli austriaci occupano Capua, il 24 entrano in Napoli. Il generale Begani, che comanda il presidio di Gaeta, il 22 esce per sorprendere un piccolo posto austriaco alla foce del Garigliano; lo obbliga alla fuga e incendia il ponte. Ma da Napoli gli è subito ordinato di cessare ogni ostilità. La rivoluzione costituzionale nel regno delle Due Sicilie è finita. Nello stesso 24 marzo, mentre gli austriaci entrano in Napoli, diciotto deputati si riuniscono con Giuseppe Poerio nel parlamento e prima di sciogliersi firmano una dignitosa protesta, che termina: «Noi protestiamo contro la violazione del diritto delle genti, intendiamo di serbar saldi i diritti della nazione e del Re, invochiamo la saviezza di S. A. R. e del suo augusto genitore e rimettiamo la causa del trono e dell'indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio che regge i destini dei monarchi e dei popoli».



Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962