Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Governolo

18 luglio 1848

IL generale piemontese

Eusebio Bava (Vercelli 6 agosto 1790 - Torino 1854)

All'inizio del 1802 entrava nella Scuola militare di St.-Cyr, ma nel 1806, appena sedicenne, la lasciava per partecipare come sottufficiale volontario alla guerra contro la Prussia. Si segnalava a Jena e poi all'assedio di Danzica, ove rimaneva gravemente ferito. Nel 1808 si recava in Spagna come sottotenente e combatteva contro gl'insorti della Navarra e nell'assedio di Saragozza; quindi passava nel Portogallo e nel 1805 era ferito e fatto prigioniero dagl'lnglesi presso Oporto. Tradotto in Inghilterra, riusciva a fuggire nel dicembre 1810, impadronendosi con alcuni compagni, di notte, d'una goletta e, affrontando una fiera burrasca, giungeva al porto di Fécamp (Senna Inferiore). Tornato in Spagna, assumeva il comando d'una scelta colonna mobile destinata a combattere le guerrillas nelle province basche ed era promosso tenente. Nel maggio 1811 prendeva di sorpresa la cittadina di Lequeitio ed era proposto per la Legion d'onore. Passava, quindi, aiutante maggiore del 310 fanteria leggero, e alla fine dell'anno era promosso capitano. Il Bava continuava a combattere nel 1812 e nel 1813 in Spagna e nel Portogallo; nel 1814 partecipava alla campagna dei Pirenei e alla battaglia di Tolosa.

Caduto Napoleone, il Bava rientrava nel luglio in Piemonte, con un grosso battaglione di veterani subalpini. Vittorio Ernanuele I accoglieva cordialmente i reduci, conservando a tutti i gradi e facendo di tale reparto il battaglione Cacciatori piemontesi del ricostituendo esercito. L'anno dopo partecipava alle operazioni contro Grenoble ed era decorato dell'Ordine di San Maurizio e Lazzaro, quindi del nuovo Ordine Militare di Savoia. Nel 1819 era promosso maggiore. Legato sempre più alla monarchia sabauda, non aderì al moto costituzionale, del marzo-aprile 1821, e fu anzi adoperato da Carlo Felice per la ricostituzione in senso nettamente dinastico dell'esercito. Nel 1830 era promosso colonnello e nel 1832, sotto Carlo Alberto, maggior generale. Nel 1838, era posto a capo della divisione di Torino, e due anni dopo diveniva tenente generale. Nel 1844 Carlo Alberto lo faceva barone, e, il 3 apr. 1848, senatore. Dal 27 marzo intanto combatteva contro gli Austriaci, al comando del primo dei due corpi d'armata che costituivano, insieme con la divisione di riserva, l'esercito sabaudo. Il 9 aprile la sua avanguardia iniziava la campagna col brillante scontro sostenuto sul ponte di Goito. Ma non tardarono a sopraggiungere le amarezze. Il 30 aprile il II corpo del gen. De Sonnaz scacciava gli Austriaci dalla testa di ponte di Pastrengo, sulla destra dell'Adige; dopo di che il I corpo, del Bava, sostenuto dalla divisione di riserva, avrebbe dovuto respingere, i nemici dalle posizioni avanzate di fronte a Verona e presentarsi in atto di sfida davanti alla piazza, nella speranza che l'esercito nemico uscisse a battaglia e i Veronesi insorgessero alle sue spalle. Il piano del Bava fu però notevolmente modificato dal gen. Franzini, ministro a latere, e dallo stesso Carlo Alberto, e il 6 maggio si ebbe la battaglia di Santa Lucia, molto sanguinosa e senza risultato. Alla radice dell'insuccesso era la sottovalutazione, condivisa ugualmente dal re, dal Franzini e dal Bava, della potente sistemazione difensiva avanzata austriaca. Il Bava, poco disposto a subire le critiche che ben presto circolarono, chiedeva il collocamento a riposo, ma il re riusciva a calmarlo, promettendogli di dargli di fatto il comando dell'esercito appena il Franzini fosse tornato a Torino per i lavori parlamentari.

Alla fine del mese il Radetzky, che poteva ora disporre di un corpo di riserva, tentava una grande manovra avvolgente da Mantova, ma era battuto a Goito dal Bava. Carlo Alberto incaricava quindi quest'ultimo di una grande azione controffensiva per il 4 giugno, andata a vuoto per la ritirata in Mantova del maresciallo; e, in seguito, gli affidava la direzione d'una operazione contro Verona da effettuarsi il 14 giugno, mentre il Radetzky avrebbe dovuto essere ancora impegnato col grosso delle sue forze contro Vicenza, operazione anch'essa tardiva e non più eseguita. Intanto il 7 giugno il Bava era stato promosso generale d'armata per merito di guerra; ma proprio ora si levavano lamentele e recriminazioni contro il re, il Franzini e il Bava, per il mancato sfruttamento della vittoria di Goito e dei giorni in cui il Radetzky era impegnato contro Vicenza. A metà giugno il Franzini si recava a Torino, e il re invitava il Bava a sostituirlo e a stabilirsi al Quartier Generale, ma il Bava declinava l'offerta; era, tuttavia, spesso interpellato dal re, che accettava la sua proposta del blocco di Mantova e l'incaricava di prepararne il piano. Abbandonate risolutamente le posizioni di fronte a Verona e all'Adige fino a Rivoli, e messa una nuova divisione di riserva a guardia del Mincio da Peschiera a Goito, l'esercito avrebbe schierato il grosso (quattro divisioni) a semicerchio da Goito a nord di Governolo, dietro il canale della Molinella, mantenendo vari sbocchi offensivi, e due sole divisioni avrebbero bloccato la piazza. Le forze sarebbero restate in gran parte riunite, lontane dalle zone malsane, in vigile attesa per contromanovrare di fronte alle eventuali mosse del Radetzky. Ma ormai erano in corso trattative di pace sulla base della cessione a Carlo Alberto della Lombardia e dei Ducati, e il re, fisso nell'idea dell'uti possidetis, non intendeva abbandonare un palmo del terreno conquistato, pur persistendo nell'idea del blocco di Mantova. Il Bava, mordendo il freno, doveva stendere un nuovo piano, e l'esercito finiva col trovarsi disseminato lungo un fronte d'oltre 70 chilometri, debole ovunque. Per di più, il desiderio del Bava di rintuzzare una puntata austriaca oltre il Po con una propria scorreria, se portò il 3 luglio al brillante scontro, da lui diretto personalmente, di Governolo, valse a prolungare pel momento sempre più lo schieramento piemontese.

Il 22 luglio ebbe inizio la grande offensiva austriaca, dapprima contro la sinistra e il centro della linea piemontese, tenute dal II corpo d'armata. Il Bava, che non aveva alcuna speciale carica, ma era ormai il solo a godere la piena fiducia del re, si affannava per rimediare a una situazione compromessa in partenza, mostrando energia e chiaroveggenza; cercava di ristabilire il collegamento fra il II e il I corpo e di prendere alle spalle l'esercito austriaco. Ma disponeva di due divisioni anziché di quattro, e al brillante successo di Staffalo del 24 luglio seguì il giorno dopo la rotta di Custoza. Riuscì, tuttavia, a portare le sue truppe in buon ordine a Goito, sperando di poter resistere sulla linea Volta, Cavriana, Solferino; ma il gen. De Sonnaz aveva abbandonato, in base a un'autorizzazione discrezionale del re, rimasta ignota al Bava, Volta, e i tentativi di riprendere l'importante posizione riuscirono vani. Il 27 l'esercito appariva stremato da quasi sei giorni di lotta e, alla sera, iniziava la ritirata dietro l'Oglio. Anche ora Carlo Alberto fidava esclusivamente nel Bava e pareva volesse affidargli la suprema autorità; ma, in realtà, si rimase in una posizione equivoca. D'altra parte, il Bava riteneva ormai la partita perduta, e si preoccupava solo di condurre in salvo l'esercito in Piemonte: quando sul basso Adda il gen. Sommariva abbandonò, al primo apparire del nemico, le sue posizioni e ripiegò colla I divisione sopra Piacenza, il Bava si limitò a raccomandargli di ritirarsi "il più lentamente possibile". Ma il re voleva tentare ancora la sorte delle armi davanti a Milano, e prese sopra di sé, coadiuvato dal capo di Stato Maggiore, gen. Salasco, l'ulteriore direzione delle operazioni. Quivi il Bava predispose sì la battaglia, ma non certo nel modo migliore, e nulla fece Poi il 4 agosto per correggere i difetti della cattiva impostazione: sembrava quasi agire di mala voglia, persuaso che fosse ormai inutile prolungare la lotta. Il 5 agosto, saputasi la notizia della convenzione stipulata col Radetzky per la ritirata dell'esercito dietro il Ticino, si ebbero in Milano i dolorosi avvenimenti di palazzo Greppi. Decisa dal re, col parere favorevole del Bava, di fronte alla violenta manifestazione popolare, la continuazione della lotta, questi riusciva a tornare fra le truppe, a disporre la nuova difesa, anche perché il sovrano non fosse trattenuto dalla folla come ostaggio. Ma, per l'intromissione dell'arcivescovo e del podestà presso il maresciallo, la lotta non era poi ripresa. Finita la campagna, il ministero non ritenne opportuna un'inchiesta, sollecitata dal Bava, irritato per le recriminazioni, e decise soltanto che ogni comandante di corpo inviasse una relazione, contenente anche considerazioni generali sul funzionamento dell'organismo militare. Il ministero insistette mtanto perché il re lasciasse il comando supremo dell'esercito e si adoperò per trovare in Francìa un generale in capo. Dal canto suo, il re volle che almeno il capo di Stato Maggiore fosse una sua creatura e fece venire a Torino il gen. polacco Chrzanowski. Il 12 ottobre il Bava presentò la sua relazione quale comandante del I Corpo d'Armata, corredata di numerosi documenti riservati, confutò le accuse della stampa che facevano di lui il responsabile del cattivo esito della guerra e dimostrò che la brutta piega della campagna era attribuibile alla continua alterazione dei piani del Bava ad opera del potere irresponsabile del sovrano. Riuscita vana la ricerca d'un generale in Francia, il 22 ottobre il Bava venne nominato "generale in capo del regio esercito", ma con il Chrzanowski quale capo di Stato Maggiore. Per di più la commissione ministeriale, esaminata la sua relazione, gli mosse alcuni appunti, come se fosse stato il responsabile di tutta la condotta della guerra. Il Bava allora non seppe più frenarsi e la diede alle stampe coi documenti (5-6 dicembre). Il re ne fu sdegnato. Il ministero Perrone-Pinelli decise di rimuovere dalla altissima carica l'imprudente generale, e il ministero Gioberti, succeduto il 15 dicembre, si mostrò dello stesso avviso, pur decidendo di tener segreta la cosa pel momento.All'approssimarsi della ripresa delle Ostilità, il 7 febbr. 1849, il Bava era finalmente esonerato, pur con la nomina a ispettore generale dell'esercito, mentre al suo posto era messo il Chrzanowski, ma non come "generale in capo", bensì come "generale maggiore" al comando dell'esercito "sotto la propria responsabilità, in nome del Re"; appena denunciato l'armistizio, il sovrano sarebbe tornato "alla testa delle truppe". L'equivoco permaneva, tanto più che la decisione di dare al re il comando delle truppe restava segreta, e il Piemonte si privava dell'unico uomo capace, sostituendogli uno straniero, sotto ogni rispetto a lui inferiore. Il 12 febbraio il Bava riceveva l'annunzio ufficiale del suo esonero attraverso una lettera del presidente del Consiglio Gioberti, alla quale egli rispondeva ringraziando per la nomina ad ispettore generale, ma respingendo sdegnosamente la accusa di aver provocato con la sua relazione allentamento di disciplina nell'esercito e sfiducia nel capo.

Cinque mesi dopo la disgraziata campagna di Novara Vittorio Emanuele II pregava il Bava, assente il presidente del Consiglio d'Azeglio, d'accettare il portafoglio della Guerra, e così il 4 sett. 1849 il Bava diventava ministro. Ma volle agire per via di decreti reali, passando sopra alla Giunta speciale, nuovo organo consultivo per la riforma dell'esercito, e al presidente del Consiglio, già mal disposto fin dalla pubblicazione della relazione; volle ridurre i bersaglieri per non privare la fanteria dei suoi migliori elementi; quindi si provò a eliminare vari generali. Ne nacque una questione, costituzionale: la Giunta si dimise e il ministero minacciò di fare altrettanto. Il Bava, invitato, dal re a mostrarsi più cmciliante, preferì rassegnare le dinùssioni, e il 14 ottobre lo sostituiva nella grande opera di riorganizzazione dell'esercito il giovane genetale Alfonso La Marmora. La Camera, tuttavia, lo stesso giorno dichiarava unanime, il Bava "benemerito della Patria". Così egli rientrava definitivamente nell'ombra. Fatiche, amarezze, dolori ne avevano logorato la fortissima fibra. Il 30 apr. 1854 egli si spegneva all'improvviso a 63 anni. Un modesto monumento gli fu eretto in Torino, coll'epigrafe: "Ad Eusebio Bava - vincitore a Goito nel 1848 - l'esercito sardo". Ad onta dei suoi limiti, egli può esser considerato il miglior generale che il Piemonte abbia avuto nel Risorgimento italiano.

La genesi

I risultati della battaglia di Goito non furono quelli che a prima vista ci si sarebbe potuto aspettare; e ciò proprio perché la battaglia era stata ben condotta e vinta nel campo tattico, non sul piano strategico. In realtà, il Radetzky aveva ancora le sue forze in gran parte intatte e riunite, mentre di fronte a lui si trovava meno d'un terzo delle forze piemontesi; e a ben guardare era già tanto che esse fossero riuscite a parare il colpo. Il Radetzky infatti non ripiegava affatto su Mantova, ma a meno di quattro chilometri a sud di Goito, con l'atteggiamento di chi si raccoglie per ritentare presto la prova. Se non che era sopraggiunta la caduta di Peschiera e ciò significava altre forze piemontesi disponibili contro di lui; allora retrocedeva di nuovo con la destra appoggiata al Mincio e la sinistra a Castellucchio, sulla strada Mantova-Cremona, e il corpo di riserva dietro a Rivalta. E ora grandi rafforzamenti difensivi; ma al tempo stesso, malgrado la sopraggiunta pioggia insistente, grandi scorrerie di cavalleria fin verso il Chiese e il basso Oglìo, varcando persino il fiume a Marcarla e facendo larga incetta di viveri. Queste scorrerie avevano un effetto deprimente sulle popolazioni e specialmente sui contadini, dando loro l'impressione che l'Austria era tutt'altro che vinta. Il 1° giugno cessa la pioggia e il giorno dopo gli austriaci sembrano voler tornare all'offensiva, mentre la loro cavalleria sparge il panico fra le popolazioni. Ma intanto il maresciallo ha avuto la certezza della caduta di Peschiera e il 3 giugno la notizia della nuova rivoluzione di Vienna del 25 maggio; potrebbe anche darsi che egli dovesse accorrere a Vienna col grosso per soffocarvi la grave rivolta! Nel pomeriggio del 3 l'esercito è fermato e poi fatto retrocedere lentamente; la sera del 4 si trova riunito fra Curtatone e Montanara, presso Mantova. L'esercito piemontese frattanto è rimasto del tutto inattivo. Il 2 giugno si dispone per una ricognizione da eseguirsi l'indomani, ma essa non è spinta a fondo. Viene tuttavia deciso, finalmente, un grande attacco per l'indomani, 4 giugno all'alba, al quale dovranno partecipare ben 48 battaglioni con 18 squadroni di cavalleria. L'azione sarà diretta dal Bava, coll'esercito diviso in due masse: la prima, a sinistra, dovrà vincolare il I Corpo austriaco e quello di riserva, l'altra, a destra, agli ordini del duca di Savoia, che tanto si è distinto a Goito, avrà il compito risolutivo, tentando dì tagliar fuori dal grosso e rigettare sull'Oglio il II Corpo austriaco: l'annientamento del II Corpo annullerebbe il grande vantaggio conseguito dal Radetzky grazie alla sua congiunzione col corpo di riserva, mentre l'esercito piemontese, libero dall'assedio di Peschiera, avrebbe tutte le sue forze disponibili. Carlo Alberto desidera vivamente questa azione che forse varrebbe a impedire la defezione completa del corpo d'armata napoletano. Il Bava termina l'ordine d'operazione con queste parole: «Questo movimento è supremo e deve decidere delle sorti d'Italia!» Ma la mossa è ormai tardiva; l'offensiva non trova il nemico e proprio il II Corpo ha cominciato a ritirarsi la sera prima. D'altra parte, l'offensiva del duca di Savoia, che si risolverebbe in una puntata nel vuoto, viene presto fermata dallo stesso Bava, il quale interpreta i movimenti austriaci come l'inizio d'una contromanovra nemica dal lato del Mincio. Ma il nemico non c'è più nemmeno da quella parte e invano la brigata Aosta di testa si spinge fino a Cimatone; gli austriaci anche di lì si sono ritirati da un'ora. Il maresciallo sta attraversando Mantova colle sue truppe; al mattino del 5 giugno comincerà un nuovo ciclo operativo, in cui rifulgerà la sua innegabile capacità e purtroppo appariranno nella loro gravità le deficienze del Comando piemontese.

Il 5 giugno l'esercito austriaco è dì nuovo in movimento: il II Corpo e il I procedono verso l'Adige; il corpo di riserva, coprendo tale marcia alla loro sinistra, volge verso Verona. Il giorno dopo il I e II Corpo passano l'Adige a Legnago, proseguendo fino a Montagnana. Il corpo di riserva giunge invece indisturbato a Verona. Il 7 giugno gli altri due corpi si riordinano, l'8 volgono verso Vicenza, mentre la sera stessa la brigata Culoz (5 battaglioni) del corpo di riserva esce da Verona, puntando anch'esso su Vicenza. Il 9 l'esercito del Radetzky avanza concentricamente su Vicenza, alla cui difesa si trova ancora il generale Durando con 11.000 uomini fra regolari e volontari il 10 è sferrato l'attacco da forze triple; dopo una resistenza eroica, durata tutta la giornata, e costata quasi 2000 uomini fra morti e feriti, il Durando chiede di trattare. Nella mattinata dell'11 è stipulata la convenzione, che obbliga i difensori a ritirarsi dietro il Po, impegnandosi a non partecipare più alla guerra per tre mesi; nel pomeriggio di quello stesso giorno gli austriaci entrano nella sventurata ed eroica città. È un grande innegabile successo, accresciuto nei giorni successivi dalla caduta di Padova e di Treviso. Al tempo stesso, il Radetzky dispone perché il grosso delle sue truppe torni sollecitamente a Verona: il 12 giugno, all'alba, rientra la brigata Culoz, e nella stessa mattina l'intero I Corpo, riposatosi e riordinatosi in ventiquattr'ore, il 13 giugno a mezzodì rioccupa la famosa linea del «rideau», ora rafforzata da opere permanenti in avanzata costruzione. Il II Corpo rimane invece per qualche tempo nel territorio riconquistato, salvo una brigata, che da Vicenza per Schìo si porta a Rovereto e il 14 si unisce al corpo d'armata del Tirolo meridionale. La perdita di Vicenza fu assai grave, perché elimina dal Veneto le truppe del generale Durando e porta come diretta conseguenza alla successiva perdita di Padova e di Treviso, e poi di Palmanova, mentre sono ora domati i difensori del Cadore e delle altre vallate bellunesi e quelli della valle di Brenta. E l'impresa di Vicenza è stata condotta mentre l'esercito piemontese rimaneva in una quasi inesplicabile e ben dolorosa inazione per dieci preziosissimi giorni, senza tentare nulla, sia per cogliere di fianco il corpo d'armata di riserva austriaco nella sua marcia su Verona, sia contro la stessa piazza, rimasta ben poco guarnita. Inoltre, il 4 giugno l'esercito piemontese era in una situazione assai buona: libero dall'assedio di Peschiera, con quasi tutti i suoi 60 battaglioni disponibili contro un nemico che non arrivava ai 50 (Nelle ultime operazioni le perdite austriache erano state maggiori di quelle degli avversari, ad onta della mala sorte dei toscani: gli austriaci avevano dovuto lamentare più di 1000 uomini tra morti e feriti e ben 2000 dispersi, in gran parte disertori dei reggimenti italiani; mentre piemontesi e toscani avevano avuto 972 morti e feriti e 1186 prigionieri, ossìa 2158 perdite complessive). Ora dunque l'esercito vittorioso avrebbe dovuto agire di nuovo con vigore, avanzare in mezzo al Quadrilatero, per volgersi poi, secondo la situazione, verso Vicenza o verso Verona. Ma il Radetzky aveva tanto osato perché aveva compreso le deficienze della direzione suprema di guerra piemontese! Il Bava ritiene che l'esercito austriaco debba ritornare sollecitamente a Verona, ma al tempo stesso teme che possa tentare di rovescio, dalla sinistra del Mincio, la manovra fallita sulla riva destra o, per lo meno, un colpo di mano su Valeggio, su Villafranca, su Sommacampagna. Ritorna insomma l'atteggiamento tipico di chi subisce l'iniziativa del nemico, di chi si ritiene fortunato e soddisfatto di poter parare i suoi colpi; anziché nutrire la convinzione che la vittoria in un punto decisivo trarrà come conseguenza la necessità da parte dell'avversario di subire la volontà del vincitore. Del resto, il Bava può illudersi d'aver agito bene: il nemico non ha osato né attaccare di rovescio sul Mincio, né tentare colpi di mano sulle posizioni piemontesi. Il 7 giugno egli è promosso per merito di guerra generale d'armata, pur rimanendo al comando del I Corpo.

In quello stesso giorno, il Franzini è avvertito a Valeggio, da patrioti veneti, che il Radetzky marcia col grosso contro Vicenza. Egli è a letto malato di pellagra; si limita a scrivere al Durando a Vicenza, avvertendolo della cosa; e al tempo stesso al re, che portatosi a Peschiera sembra meditare un'azione su Rivoli, pregandolo di riunire un consiglio di guerra; e suggerendo l'opportunità d'agire contro Verona, tanto più che gli abitanti sembrano disposti a insorgere. Il re riunisce l'8 giugno un consiglio di guerra, cui partecipano i generali De Sonnaz, Chiodo, comandante del genio, e Rossi, comandante dell'artiglieria. I tre generali ritengono più opportuna l'azione contro Rivoli, e il re approva. Egli dichiara di non voler fare un bis di Santa Lucia; dopo di che il sovrano scrive al Franzini che il 10 attaccherà Rivoli; e il giorno dopo si potrà agire contro Verona, col II Corpo lungo la sinistra del fiume, col I, al comando del Bava, contro il «rideau», con un'azione impegnativa. Il 10 giugno, mentre si sferra da parte austriaca il grande attacco contro Vicenza, il II Corpo avanza contro lo storico altipiano di Rivoli. Ma gli austriaci sfuggono alla stretta, e si ritirano senza combattere, intenti a rafforzarsi sull'altra sponda dell'Adige e sul monte Pastel, che domina la zona. Proprio ora, del resto, col possesso di Vicenza, il Radetzky ha libero uso delle strade del Veneto; l'occupazione di Rivoli rafforza praticamente l'ala sinistra piemontese, ma la indebolisce strategicamente, in quanto la prolunga troppo; il valore dell'intercettazione della strada del Tirolo è ormai pressoché nullo. Dal punto di vista strategico l'azione, come già il 4 giugno, si è risolta in una puntata nel vuoto; e ciò in un momento in cui l'esercito doveva essere riunito in una lotta suprema che decideva dei destini d'Italia! In compenso Carlo Alberto, tornato a Garda, ha ricevuto la deputazione lombarda coi risultati ufficiali della «fusione»; ma poco dopo gli giungono una dietro l'altra due lettere del Franzini: il Durando chiede soccorsi; pare che i veronesi vogliano insorgere. Allora il re convoca un secondo consiglio di guerra: a questo partecipano il De Sonnaz, il generale Broglia, comandante la 3ª divisione, e il generale Olivieri, comandante della cavalleria. Tutti e quattro sono concordi sulla necessità di concentrare le forze a Villafranca, e marciare verso l'Adige e verso Vicenza. Però Carlo Alberto scrive al Franzini per sentirne il parere; e questi risponde che si debba agire contro Verona soltanto con tre divisioni a semplice scopo dimostrativo. E allora terzo consiglio di guerra, a Valeggio, l'11 giugno, presenti il re, il suo capo di Stato Maggiore, generale Salasco, e i due comandanti di corpo d'armata, Bava e De Sonnaz: il terzo consiglio di guerra in cinque giorni e sempre con persone diverse, all'infuori del De Sonnaz. In esso si decide di agire contro Verona dal lato sud-ovest e l'operazione sarà ancora affidata al Bava; essa dovrà aver luogo il 13 giugno. Proprio mentre sì svolge il terzo consiglio, gli austriaci entrano in Vicenza. Il 13 mattina giunge a Valeggio la fatale notizia della caduta di Vicenza: il Franzini vorrebbe sospendere tutto, ma il re vuole ormai tentare. E procede per Villafranca. Qui le truppe si vengono riunendo a fatica, in mezzo al marasma logistico; per giunta si deve aspettare l'arrivo del re alle nove, che vuole passarle in rivista; poi occorrono quattro ore per decongestionare la grande massa d'uomini e incolonnarla; quando finalmente è in movimento (e proprio ora il I Corpo austriaco ha terminato d'occupare la linea «rideau»), un violento temporale, fra le tre e le quattro e mezzo pomeridiane, crea un nuovo disordine e allaga il terreno; e l'azione è rimandata al giorno dopo, 14 giugno. Inoltre, gli animi non sono ancora abbattuti; e a sera un messo del comitato segreto veronese annunzia che in città 600-700 cittadini sono pronti a insorgere; il comandante delle quattro torri principali è stato guadagnato alla causa italiana; per di più, a un dato segnale alcune centinaia d'operai, addetti ai lavori della ferrovia, si solleveranno: in Verona, insomma, si aspetta solo il segnale che l'esercito piemontese sta per iniziare l'attacco: un falò e alcuni razzi da Villafranca. Il re ordina al Bava di emanare le disposizioni per l'attacco della mattina: l'attacco sarà sferrato da 4 divisioni affiancate e si estenderà da Tomba a Santa Lucia, ossia contro la parte meno forte del «rideau», colle forze molto concentrate. Ma a notte torna il messo da Verona: il colonnello comandante il presidio di Villafranca, non avendo ricevuto ordini dal Comando supremo, non ha voluto concedere le segnalazioni col falò e coi razzi; e ormai l'insurrezione non potrà aver luogo. Era negligenza o vergognosa resistenza passiva nell'esecuzione degli ordini? Nessuno fece mai luce al riguardo. Il re e i suoi consiglieri decisero di rinunciare all'azione, così continuava la guerra delle occasioni perdute.

Il 14 giugno l'esercito piemontese retrocede: dopo il 30 maggio, per quindici giorni, i soldati non hanno fatto altro che marce e contromarce, col solo risultato di due puntate nel vuoto e un grande attacco mancato. Ora cominciano le recriminazioni e i palleggiamenti delle responsabilità. Il Franzini, irritato di non essere stato ascoltato a più riprese e di trovarsi ora in condizione d'inferiorità gerarchica rispetto al Bava, lascia il 15 giugno l'esercito e se ne va a Torino, col pretesto delle esigenze parlamentari, quale ministro della Guerra; il re vorrebbe ora incaricare il Bava, ma questi, ugualmente scontento di non essere abbastanza ascoltato, rifiuta, e così, come consigliere del re rimane il modesto generale Salasco, propenso soprattutto a evitare di contraddire il suo signore. Per di più, lasciate sfuggire le occasioni propizie, la situazione si fa sempre più grave per il disgraziato esercito: con la costituzione del II Corpo di riserva del generale Walden, incaricato di bloccare Venezia e presidiare il Veneto, il Radetzky ha ora la libera disponibilità dei suoi due vecchi corpi e del I Corpo di riserva; inoltre le truppe del Trentino si sono venute ingrossando fino a formare un nuovo corpo d'armata. Il generalissimo austriaco dispone ora di 4 corpi, ha le spalle coperte dal lato del Veneto e dispone delle fortezze di Verona, Mantova e Legnago, ossia d'una eccellente base d'operazione. Al contrario, l'esercito piemontese si trova ora in condizione d'inferiorità, in gran parte per colpa dei suoi capi, che hanno lasciato battere separatamente la divisione toscana e il corpo d'armata pontificio, mentre è venuto meno l'aiuto del corpo d'armata napoletano richiamato nel regno a soffocare l'agitazione liberale. Stando così le cose, esso avrebbe dovuto porsi decisamente sulla difensiva, rafforzando l'eccellente linea, che da sopra Pastrengo per Santa Gìustina si prolunga lungo l'orlo dell'"anfiteatro morenico" fino a Valeggio, conservando più a nord anche le posizioni di Rivoli: e su questa linea, adeguatamente rafforzata, così come avevano fatto gli austriaci davanti a Verona, e anche di recente nella zona presso Mantova, ci si poteva porre dunque in una difensiva vigile e attiva, e al tempo stesso cercare di trarre dal Piemonte e dalla Lombardia nuove efficienti forze. In realtà, non si fece quasi nulla di tutto questo: l'esercito restò disseminato da Rivoli a oltre Goito, quasi senza fare lavori campali o di rafforzamento dei capisaldi. E quanto alle nuove forze chiamate a compensare il crescente squilibrio numerico, esse furono scarse di numero e scadenti di qualità. Fin dal 10 aprile era stato chiamato il contingente delle prime tre classi anziane, ossia della riserva: gli uomini di ventinove, trenta e trentun'anni, e si erano formati i quarti e quinti battaglioni di ciascuno dei 18 reggimenti di fanteria, e il quarto battaglione per i 2 reggimenti della brigata Guardie: in tutto 38 battaglioni. Ma il gettito dei tre contingenti anziani era stato inferiore al previsto, circa 16.000 uomini in luogo di 20.000 e i battaglioni ebbero la forza di 450 uomini circa, anziché 617. Il 21 aprile i quarti battaglioni eran dichiarati mobilitati; in realtà, però, tre soli erano mandati a presidio di Piacenza, Parma e Modena. Il 15 maggio altri 12 quarti battaglioni erano mandati di presidio nelle città lombarde e una cinquantina di uomini di ognuno erano inviati al fronte come complementi; cosicché la forza d'ogni battaglione restò di 400 uomini. Il 29 maggio, in seguito all'arrivo a Verona del corpo d'armata di riserva austriaco, era stabilito a Torino che i 12 quarti battaglioni dislocati in Lombardia dovessero formare la 2ª divisione di riserva, col compito di «spalleggiare, occorrendo, l'armata». E i battaglioni non sarebbero rimasti della forza di 400 uomini, e nemmeno di 617, ma di 1000 uomini, come i battaglioni di prima linea: la deficienza sarebbe stata colmata da reclute lombarde. Che, sebbene Carlo Alberto il 23 aprile avesse scritto a Cesare Balbo di non credere che la Lombardia potesse formare un esercito se non in un tempo molto lungo e che per tutto l'anno almeno non si sarebbe potuto contare sull'appoggio lombardo, dai primi di maggio erano state fatte pressioni sul governo provvisorio per un adeguato contributo alla guerra. Il governo provvisorio, in verità, già dall'11 aprile aveva emanato una legge al riguardo; e dopo aver oscillato fra l'idea di chiamare dieci contingenti di leva del vecchio esercito austriaco (di circa 5000 uomini l'uno) o i contingenti delle ultime cinque classi aumentando quello delle due classi più giovani, aveva finito praticamente col chiamare quasi per intero le due classi più giovani da cui si poteva attendere un gettito complessivo di 40.000 uomini, da ridursi a 30.000, tolti gli elementi già al fronte come volontari o ancora incorporati nell'esercito austriaco. Ma il ministro della Guerra piemontese non ha chiesto in realtà di più: come programma massimo egli vorrebbe dai lombardi gli elementi integratori dei 12 quarti e quinti battaglioni piemontesi, il che vorrebbe significare, a 600 uomini per battaglione, 14 o 15.000 uomini, con cui costituire la 2ª divisione di riserva e poi anche la 3ª, e infine una divisione lombarda, di riserva anch'essa: con queste tre divisioni si sarebbe formata l'«armata di riserva», forte di 36 battaglioni (36.000 uomini, di cui 5000 piemontesi e il resto lombardi), destinata specialmente a coprire la Lombardia sul Mincio. La Lombardia in tal modo dovrebbe fornire circa 31.000 uomini, più i volontari (5 o 6000) dislocati dallo Stelvio al Garda. All'atto pratico, già nel formare la 2ª divisione di riserva si dovette lottare col problema dei quadri; mancavano gli ufficiali provinciali o di complemento che dir si voglia, e la Lombardia non era in grado di fornirne molti. Ma se non era giusto rimproverare chi non sapeva improvvisare, la cosa era diversa nei riguardi di chi con tanto tempo e con tanti mezzi a disposizione non aveva affatto provveduto. Comunque, bene o male la 2ª divisione di riserva verso la fine di giugno si avviava verso il Mincio, mentre altri 3 quarti battaglioni piemontesi erano mandati a Venezia. Il 13 luglio era presso il Mincio anche la divisione lombarda; mentre la 3ª divisione di riserva non era stata costituita. Comunque, il governo e il Comando piemontese s'illudevano d'avere contrapposto ai 37 o 38 battaglioni dei 3 nuovi corpi austriaci altrettanti battaglioni e di uguale forza.

Non erano mancate invero le voci d'allarme. Il 2 giugno al Parlamento subalpino il Moffa di Lisio, patriota del '21, notava le deficienze dei 38 quarti e quinti battaglioni e proponeva che subito si chiamassero gli ultimi cinque contingenti della riserva, ossia gli uomini dai trentadue ai trentasei anni. Cesare Balbo rispondeva che mancavano soprattutto gli ufficiali per inquadrare questi ultimi 25 o 30.000 uomini. Il giorno dopo il deputato Josti tornava alla carica per il richiamo di tali classi e il Balbo aggiungeva ora che si trattava di uomini anziani, carichi di famiglia, per i quali il richiamo avrebbe significato una «rovina immancabile», e del resto ormai, dopo la vittoria di Goito, la guerra poteva considerarsi «inoltratissima e quasi finita». Dopo altri undici giorni, l'onorevole Valerio insiste perché i 38 battaglioni di riserva già formati siano mandati tutti quanti sul Mincio, e perché si chiamino le ultime cinque classi di riserva. Il presidente del Consiglio si mostra di nuovo contrario a richiamare degli ammogliati carichi di figli e propone invece di chiamare in anticipo l'alìquota della classe del 1828, portandola per di più da 8000 a 12.000 uomini, e che si prendano 3000 uomini fra gli elementi non chiamati di ciascuna delle classi 1827, 1826, 1825, ossia 9000 uomini. Ma il 1° luglio il generale Colli obietta che le reclute del '28 sarebbero troppo giovani, e ch'è contro la legge chiamare tre contingenti straordinari di su le classi del '27, '26, '25. Il vecchio e autorevole generale Alessandro Saluzzo si mostra dello stesso avviso: «se proprio è necessario si chiamino gli ultimi cinque contingenti della riserva, ossia gli anziani carichi di figli, e si lascino a casa i giovani, che almeno si resterà nella legge». Alla fine, però, la duplice proposta è approvata; ma si è perso un mese in discussioni e l'approvazione del parlamento dovrà ora urtare contro le lungaggini burocratiche. Lo stesso 1° luglio il ministro degli Interni, marchese Ricci, aveva proposto la mobilitazione di 50 battaglioni di Guardia Nazionale o più esattamente di Guardia Civica, come la chiamava il decreto di Carlo Alberto del 4 marzo 1848. Ma i magazzini non erano per nulla preparati ad equipaggiare ed armare, nonché la riserva, neppure la Guardia Nazionale! In sostanza, mentre il pericolo ingrossava, l'esercito sabaudo si mostrava incapace di organizzare e guidare le risorse vive del paese; tutto rimaneva fermo ai 38 battaglioni formati colle prime tre classi della riserva, e di cui 12 per metà col concorso delle reclute lombarde; ed erano i soli che andavano al fronte, per quanto in seconda linea, ai primi di luglio. In pratica, solo la prima classe della riserva, la meno anziana, era davvero mobilitata! Altri 6 battaglioni erano nei Ducati o a Venezia; gli ultimi 20 infine erano tenuti a mantenere l'ordine interno, 7 in Lombardia e 13 in Piemonte, di fronte a un fantastico pericolo repubblicano. La 2ª divisione di riserva finì coll'avere i battaglioni della forza non di 1000, ma di 800 uomini, metà piemontesi e metà lombardi, mentre i battaglioni lombardi erano di 1000 uomini. Di fatto, dunque, l'esercito piemontese opponeva i 24 battaglioni delle 2 nuove divisioni, in parte ancora senza fucili, con quadri vecchi e scadenti o male improvvisati, senza artiglieria né cavalleria, ai 30 nuovi agguerriti battaglioni austriaci del I e del II Corpo di riserva. L'artiglieria dell'esercito regolare era stata molto accresciuta: da 56 pezzi all'entrata in campagna era salita il 10 giugno a 120 pezzi. Ma i 102 pezzi dell'esercito austriaco erano saliti a 200.

Alla fronte ora, dopo la caduta di Vicenza e il fallimento del tentativo contro Verona, si ha un mese, un altro mese d'assoluta inazione. Non si compiono neanche quei lavori di difesa campale, di sistemazione dei capisaldi, che sarebbero urgenti e compenserebbero in parte la deficienza di riserve. Si fanno piani, si avanzano progetti, si discute come uscire dall'inazione; e alla fine non si trova di meglio che iniziare il blocco di Mantova, e per di più nella stagione meno adatta. Sulle prime si progetta un attacco a Verona, dalla sinistra dell'Adige: difficile varcare il fiume e procedere fino alle posizioni nemiche, ma in compenso da questa parte non c'è la linea avanzata del «rideau». Il 19 giugno il Bava manda al re un lungo parere sulla situazione e conclude che è necessario prendere una posizione difensiva sul Mincio, guardando quanto più terreno si possa oltre il fiume, ossia l'orlo dell'anfiteatro morenico, in attesa che le 2 divisioni di riserva possano acquistare una vera efficienza operativa. Ad onta di ciò, il re richiede al Bava, subito dopo, un progetto di blocco di Mantova, ed egli tosto lo invia in data 21. Il progetto è razionale e non privo d'interesse. Due divisioni o poco più bloccherebbero la piazza (divisione lombarda e toscani; anche se dopo la giornata di Curtatone e Montanara, la divisione toscana fu mandata a Brescia a riorganizzarsi; in realtà, però, i volontari si sciolsero o passarono coi volontari lombardi o andarono a Venezia; i battaglioni civici tornarono in Toscana, e rimasero i due piccoli reggimenti di fanteria, che tornarono nel luglio in prima linea - da sud, 2ª divisione da nord); la 2ª divisione di riserva guarderebbe il Mincio da Goito a Peschiera; e 4 divisioni proteggerebbero il blocco e al tempo stesso resterebbero in vigile attesa, stese a semicerchio a nord della città, a una certa distanza (da undici a quindici chilometri in linea d'aria), in zona meno malarica, sfruttando il forte ostacolo passivo del canale della Molinella, dietro o sul quale vari villaggi come Marengo, Castiglione, Canedole, Castel d'Ario, Roncoferraro, potevano divenire altrettanti capisaldi difensivi o sbocchi controffensivi. La sinistra piemontese avrebbe poi da Goito a Peschiera l'appoggio naturale del Mincio e della fortezza, e la difesa sarebbe affidata alla 2ª divisione di riserva. Verrebbero abbandonate risolutamente le posizioni di Rivoli e quelle dell'anfiteatro morenico, ma le forze resterebbero riunite, il grosso sarebbe tenuto abbastanza lontano dalle zone malsane nella stagione estiva e resterebbe una larga possibilità di reazione alle eventuali mosse del Radetzky. Il progetto è letto e meditato dal re; questi decide tuttavia per il 25 una «dimostrazione offensiva» per la sinistra dell'Adige; ma vi rinunciò quasi immediatamente e il 30 si trasferisce da Valeggio a Roverbella. Qui il 4 luglio Carlo Alberto riceve la visita di Giuseppe Garibaldi, venuto dall'America a combattere per la patria; ma il sovrano lo accoglie con gelida cortesia e lo rimanda al ministro della Guerra; scrivendo al Franzini che sarebbe «disonorevole per l'esercito» dare il grado di generale a un elemento simile. In compenso il re chiede al Bava un nuovo piano di blocco di Mantova, che non sacrifichi le posizioni gloriosamente conquistate; e questi, seppur con l'animo esacerbato, stende il 9 un altro piano molto mutato e soltanto in peggio. E in seguito, sia per le necessità transitorie sia per il sopraggiungere di fatti nuovi, esso risulterà radicalmente mutato; l'esercito verrà presto a trovarsi disteso lungo una linea di ben settanta chilometri, da Rivoli a Governolo, al confluente del Mincio nel Po: una linea troppo forte se intesa come semplice linea d'osservazione e assolutamente troppo debole - data per di più la mancanza di lavori accessori - come linea di resistenza ad oltranza.

La battaglia

Intanto il 13 luglio il Radetzky ha disposto perché la brigata Liechtenstein del II Corpo compia una rapida scorreria fino a Ferrara per rafforzare il presidio austriaco della cittadella e fare incetta di viveri. Ottenuto lo scopo, il 15 mattina la brigata si pone già sulla via del ritorno. Il Radetzky ha avuto notizia dell'inizio delle operazioni attorno a Mantova e sta attuando le prime contromisure. La brigata Liechtenstein, al ritorno, andrà a rafforzare la brigata Benedek, che presidia Mantova; non solo, ma in questa fortezza andranno pure due brigate cedute dal II Corpo di riserva (quello nuovo del Veneto) e insieme le 4 brigate formeranno il IV Corpo d'armata. Il Radetzky dispone quindi ora dei suoi 3 corpi d'armata, più le truppe del Trentino meridionale e 2 brigate cedutegli pel momento dal II Corpo di riserva; una forza veramente rilevante. La brigata Liechtenstein dovrà lasciare a Governolo 5 compagnie; e il 16 luglio tale località è occupata. Ma nello stesso giorno il Bava ha riunito a Goito la brigata Regina, con una compagnia di bersaglieri, il Genova Cavalleria e una batteria a cavallo. Si propone di rintuzzare la scorreria austriaca su Ferrara, che si teme voglia volgersi poi contro Modena, con un'altra scorreria che le tagli la via del ritorno e ponga un freno alle frequenti scorribande nemiche. Il 17 la colonna è a Borgoforte sul Po, a sud di Mantova, e si propone di varcare il fiume per correre a proteggere la pianura modenese. Ma viene a sapere che la colonna austriaca è retrocessa verso il Quadrilatero. Decide allora di agire contro gli austriaci, che hanno occupato Governolo. Avanza lungo la sinistra del Po, mentre i bersaglieri, entro barconi coperti di tela, discendono nascostamente lungo il fiume. L'attacco è sferrato da tre colonne con duplice azione avvolgente: gli austriaci sono al di là del Mincio sostenuti da 4 cannoni. Fra le due sponde si ha un vivace fuoco di fucileria e d'artiglieria. Ma a un tratto i bersaglieri, che sono giunti con le barche al confluente del Po col Mincio e poi hanno risalito il fiume, salgono improvvisamente sull'argine sinistro e abbassano il ponte levatoio, che tosto è subito varcato da cavalleria e da artiglieria. Gli austriaci, serrati in quadrato, si ritirano verso Nogara, ma sono circondati e annientati. In complesso perdono 400 prigionieri, 2 cannoni e una bandiera.

Le conseguenze

Era certamente un brillante successo piemontese, e avrebbe potuto servire a frenare davvero in seguito le scorrerie austriache, ma purtroppo per l'incalzare degli eventi si risolveva in un danno. Già il Bava aveva disposto che la 2ª divisione si portasse a sud di Mantova e vi rimanesse finché la divisione lombarda non si fosse adeguatamente sistemata; ora egli disponeva che, analogamente, la brigata Regina restasse per il momento a Governolo, fino a piena sistemazione dei volontari mantovani; in questo modo il fronte si prolungava di altri venti chilometri fino al Po, e nel momento decisivo della lotta una divisione e mezzo si sarebbero trovate lontane. Al contrario, la brigata Liechtenstein, impedita d'entrare in Mantova, veniva a trovarsi riunita al grosso delle forze del maresciallo.



Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962