Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio di Akragas

406 a.C.

Gli avversari

Annibale Magone (Cartagine, 471 a.C. circa - Akragas, 406 a.C.)

Generale cartaginese, distruttore delle città di Akragas e d'Akragas in Sicilia. Apparteneva alla casa di Magone ed era nipote dell'Amilcare caduto sotto Akragas nel 480 a. C. Suo padre, Giscone, era morto in esilio a Akragas. Verso l'ultimo decennio del sec. V le sorti della sua casa si erano risollevate, e nel 410 a. C., Annibale rivestiva a Cartagine la carica di sufete (o re, come dicevano i Greci). In quell'anno vennero a Cartagine ambasciatori di Segesta, ad invocare aiuto contro i Selinuntini, da cui la città era minacciata. Cartagine aveva allora più forti ragioni ad intervenire in Sicilia che non ne avesse avute settant'anni innanzi, quando Terillo venne a chiedere aiuto contro Terone, poiché Segesta aveva per i domini cartaginesi sulla costa occidentale dell'isola un'importanza ben diversa di quella che aveva Akragas. E il momento era singolarmente propizio, poiché Siracusa era spossata dello sforzo durato contro l'esercito ateniese, e la sua flotta si trovava lontana a continuare la lotta sulle coste dell'Asia Minore. La domanda dei Segestani fu perciò accolta e il comando dell'impresa affidato ad Annibale. Questi si mostrò abile diplomatico prima ancora che strenuo generale. Egli dissimulò i preparativi bellicosi per mezzo di trattative intese a far credere ai Siracusani che Cartagine, pur sostenendo le ragioni di Segesta, mirasse ad una soluzione pacifica del conflitto. Intanto forniva a questa città alcune migliaia di soldati, in guisa da metterla in condizione di tener fronte al nemico. In effetto, in uno scontro, i Selinuntini furono battuti, e nell'esasperazione della sconfitta presero anche un atteggiamento ostile a Cartagine. La guerra da parte di quest'ultima non era perciò ingiustificata. Nella primavera del 409 un esercito cartaginese, comandato da Annibale e formato, al solito, di milizie mercenarie raccolte da ogni parte, sbarcò presso il Lilibeo, prese Mazara ed assediò Akragas. Le operazioni di assalto furono condotte con grande vigore. Annibale promise ai suoi soldati di abbandonar loro tutto il bottino della città. I Selinuntini chiesero aiuto a Siracusa, poi ad Agrigento e a Gela: nell'attesa si difendevano disperatamente. Ma prima che i soccorsi giungessero, i Cartaginesi eran padroni della città. Circa sedicimila furono i Selinuntini caduti: cinquemila furono fatti prigionieri, e duemilaseicento soltanto poterono scampare alla volta di Agrigento. A costoro fu concesso di tornare in patria, a patto però di pagar tributo ai Cartaginesi. Le mura della città furono demolite.

Akragas era stata assediata e presa in pochi giorni. Annibale si rivolse rapidamente verso Akragas, per risolvere, e in maniera definitiva, il problema ch'era costato la vita a suo nonno Amilcare. In che modo fosse giustificata l'aggressione contro questa citta che stava fuori dell'ambito delle controversie per cui sorse la guerra, noi non sappiamo, ma della maniera in cui i Cartaginesi procedevano in simili contingenze, abbiamo un saggio in ciò che riguarda l'assedio di Agrigento. I soccorsi siracusani, che non erano giunti in tempo a Akragas, poterono però prevenire e rinforzare la guarnigione di Akragas. Sennonché anche l'esercito di Annibale era stato a sua volta rinforzato da molta gente, attirata da ogni parte dalle evidenti speranze di un ricco bottino. Akragas fu dunque assediata e resistette anch'essa energicamente. Ma le speranze di riuscire a liberarsi dovevano esser poche: le navi siracusane, apparse sulla rada, non portavano soccorsi. Fu deciso di abbandonare la città: una parte dei cittadini si ritirò con l'esercito siracusano, un'altra salì sulle navi per esser trasportata sulla costa, verso Messana. I rimanenti attendevano il ritorno delle navi per mettersi in salvo. Ma non ne ebbero il tempo. I Cartaginesi assalirono la città: tremila cittadini adulti furono fatti sgozzare da Annibale sul luogo stesso dove Amilcare era caduto: fanciulli e bambini furono trasportati in Africa, e la città fu distrutta. Cartagine si era così liberata delle due città che formavano i posti avanzati della grecità nell'occidente dell'isola. Ma intanto il partito imperialista cartaginese maturava il disegno della conquista di tutta la Sicilia. Fu preparata una nuova spedizione, e nel 406 un esercito cartaginese, ancora più forte del precedente, moveva alla volta di Agrigento. Il comandante era sempre Annibale: salvo che questi, a cagione dell'età, aveva chiesto di essere accompagnato dal cugino Imilcone figlio di Annone. Bisogna supporre che la spedizione fosse rivolta contro Siracusa. Annibale chiese ad Agrigento di allearsi con lui, o impegnarsi a restare neutrale. Agrigento ricusò, e i Cartaginesi l'assediarono. Ma nel campo cartaginese si diffuse una delle solite epidemie, di cui si vide l'origine negli scavi che gli assedianti avevano fatto in una necropoli vicino alla parte delle mura, dalla quale avevano iniziato l'assalto. Annibale ne fu colto, e perì, lasciando solo al comando Imilcone.


Imilcone II (Cartagine, ... - Cartagine, 396 a.C. o 394 a.C.)

Dopo aver sostituito Annibale Magone al comando delle truppe cartaginesi nella terza campagna siciliana, nel 406 a.C. conquistò Agrigento e nel 405 a.C. Gela e Camarina, costringendo Dionisio I, tiranno di Siracusa, alla pace dopo aver assediato Siracusa. Nel 396 a.C. ritornò in Sicilia (quarta campagna siciliana di Cartagine) dopo che Dionisio I aveva riaperto le ostilità nel 397 a.C. Dopo aver riconquistato le città di Erice e Mozia, distrutta dai Greci l'anno precedente, marciò lungo la costa settentrionale siciliana, espugnò Messina e avanzò verso Siracusa, che pose in assedio. Una pestilenza e un contrattacco di Dionisio I lo costrinsero ad abbandonare l'assedio e tornare a Cartagine con i superstiti. Tornato in patria, si uccise per la vergogna della sconfitta.

Egli fu, nei fatti, uno dei più grandi grande condottieri punici, il massimo dell'età classica, quello che riuscì ad espugnare Agrigento, la più grossa "preda" della storia di Cartagine. Fu il primo a durare in carica dieci anni, dal 406 a.C. circa al 396 a.C. circa. Il suo successore fu Magone II.

La genesi

Nell'anno in cui fu arconte in Atene Callia, e in Roma fu dato il consolato a L. Furio, e a Gneo Pompeo, animati i Cartaginesi dalla prospera riuscita della loro spedizione in Sicilia, mirando al possesso di tutta l'isola decretarono di radunare un grande esercito, al comando del quale nominarono quell'Annibale, che distrutte avea Selinunte ed Imera, investendolo d'amplissima autorità. E come costui iscusavasi di tanto carico a cagione della età sua troppo avanzata, gli diedero per luogotenente Imilcone, figliuolo di Annone, il quale era della stessa sua prosapia. Laonde costoro concertatisi insieme scelsero alcune distinte persone di loro città, che con grosse somme di denaro andassero, parte in Ispagna, e parte alle Isole Baleari, per fare incetta di gente che venisse a militare coi Cartaginesi; ed essi fecero leve per la Libia di Africani e di Peni, e de' migliori loro concittadini. Trassero pure Mauri, e Numidi, ed altri dei luoghi stendentisi sino alla Cirenaica, mettendo a quella contribuzione popoli, e re confederati; e trasportarono in Africa Campani da essi ingaggiati in Italia, sapendo che questi potevano giovar loro mirabilmente; mentre quelli, che lasciato aveano in Sicilia, pei mali umori alimentati contro i Cartaginesi sospettavano già disposti a guerreggiare a favore dei Siculi. Quando tutta questa gente fu raccolta in Cartagine, fu contata ascendere, siccome riferisce Timeo, circa a cento venti mila uomini; ma Eforo la fa ascendere a trecentomila. Quindi i Cartaginesi allestirono quanto era d'uopo per trasportare questo esercito, e posero in ordine tutte le triremi necessarie, e più di mille bastimenti da carico. Prima però della grande passata, mandarono in Sicilia quaranta triremi, alle quali non tardarono i Siracusani di farsi incontro verso Erice con altrettante navi; e venutosi a giornata, dopo aspra battaglia quindici navi africane perirono, e le altre col favor della notte sopraggiunta salvaronsi fuggendo. La qual rotta annunziata a Cartagine, Annibale, comandante supremo , navigò tosto con cinquanta navi, prendendo pronte misure onde e il nemico non potesse trar fruito dalla vittoria, ed egli assicurar potesse il tragitto de' suoi.

Divulgatosi per l'isola l'arrivo di Annibale, tutti pensarono ch'egli trasportasse colà a dirittura l'intero suo esercito: laonde per sì sterminata massa di forze nemiche veggendosi sul punto di dover contendere della somma delle cose, furono in grande ansietà e paura. I Siracusani mandarono immediatamente ai Greci d'Italia e ai Lacedemoni, onde chiedere lega e soccorsi; e scrissero qua e là lettere alle città del paese, impegnandone i principali a movere in ciascheduna d'esse il popolo ad armarsi per la libertà comune. Gli Agrigentini poi, che non senza fondamento sospettarono dovere essere i primi a sostenere l'assalto di tanta forza nemica, presero l' espediente innanzi a tutto di trasportare dalle campagne in città, frumento ed altri frutti della terra, e quanto v'era di meglio in dovizie d'ogni maniera; poiché a quel tempo e il contado e la città erano ricchissimi d'ogni cosa. Adunque i Cartaginesi trasportato in Sicilia l'esercito, si diedero alla impresa d'Agrigento, piantando in diversi luoghi due accampamenti: uno in certe colline, dove posero Ispani, ed Africani in numero di cinquanta mila, l'altro non lungi dalla città, cingendoli entrambi di profonda fossa, e di argine. Mandarono essi poi immantinente alla città proponendo, che avesse a fare alleanza, e guerra d'accordo con loro, o diversamente non prender parte nella guerra, che andava a farsi, ed essere loro amica. E siccome né l'uno di questi partiti, né l'altro, piacque agli Agrigentini, si venne all'assedio della loro città. Essi, armati tutti quanti quelli che per l'età n'eran capaci, e posti in ordinanza, parte ne misero a difesa delle mura, e parte destinarono a rimpiazzare i primi al bisogno. Era in loro aiuto Dessippo lacedemone, il quale di recente avea loro condotto da Gela una squadra di soldati forestieri in numero di millecinquecento. Vivea allora costui, secondo quel che Timeo riferisce, nella città di Gela, e v' era tenuto in molto favore a cagione della sua patria; ed era stato richiesto dagli Agrigentini, onde con tutti i soldati che potesse, traessesi in loro ajuto. Di più aveano a' loro stipendj circa mille trecento Campani, di quelli che militato aveano dianzi con Annibale; i quali occupavano un colle soprastante alla città chiamato l'Ateneo, e ch'era di comodissima situazione. Annibale ed Amilcare, capi dell'esercito cartaginese, visitate le mura, e trovato un luogo solo, ove l'attacco poteva esser facile, ivi piantarono due torri di stupenda grandezza. Da esse il primo giorno si posero a combatter le mura; ed ammazzato buon numero di nemici chiamarono a raccolta. Nella notte seguente gli oppidani avendo fatta una sortita incendiarono le macchine.

Ma Annibale volendo attaccare la città anche da altre parti, ordinò a' soldati di demolire i sepolcri, e di fare alzate di terra a modo, che giungessero al pari delle mura. Il che, per la grande moltitudine d'uomini che avea, fu prestissimo fatto. Se non che l'esercito venne fortemente preso da religioso rimorso: imperciocché sotto a' suoi occhi accadde, che un colpo di saetta spezzò il monumento di Terone, opera di mole e di struttura magnifica, i cui rottami essendosi incominciati a levar via, il lavoro fu sospeso da alcuni indovini ch'eran presenti. Ed immantinente ecco la pestilenza entrare nel campo, e molti morirono sull'istante, e molti ancora furono presi da dolori, e da morbi atroci; fra quali lo stesso Annibale, che uscì di vita. Alcuni poi mandati a fare le sentinelle, dissero aver la notte vedute le ombre de' morti: onde Amilcare considerando tutto il volgo spaventato pel terror degli Dei, primieramente cessò dal metter mano a' sepolcri; indi facendo fare processioni ed orazioni agli Dei, secondo il rito del suo paese sacrificò a Saturno un ragazzo, e moltissime vittime consacrate a Nettuno cacciò in mare. Ma però non si ritrasse dal suo proposito; e chiuso con argini sino alle mura il fiume vicino alla città, appressò a questa sollecitamente tutte le macchine; ed ogni giorno più la stringeva. Intanto i Siracusani, considerato l'assedio d'Agrigento, e temendo, che quella città subisse il destino poco prima avuto da Selinunte e da Imera, disposti già ad accorrere in soccorso della medesima cercarono dagli alleati d'Italia, e di Messana rinforzi; e radunato un esercito, ne diedero il comando a Dafneo, al quale nella marcia si unirono ancora soldati di Camarina, e di Gela, ed altri venuti da' paesi mediterranei; mentre un'armata di trenta navi veniva dietro il lido secondando l'impresa. Dafneo in questa maniera avea sotto i suoi stendardi più di trentamila fanti, e non meno di seicento cavalli.

L'assedio

Amilcare saputo l'arrivo de' nemici, mandò loro contro tra Iberi, Campani, ed altra turba, non molto meno di quarantamila uomini; e già i Siracusani aveano passato il fiume Imera, quando si videro i Barbari di fronte, coi quali vennero alle mani e, dopo lungo combattimento, finalmente ebbero la vittoria, avendone ammazzati più di cinquecento, e il resto disperso, ed inseguito fin sotto la città. Ma il capitano vedendo i suoi disordinatamente correr dietro ai fuggiaschi, incominciò a temere, che Amilcare sopraggiungendo col resto dell'esercito non riparasse la rotta sofferta, ben ricordandosi che per caso simile quei d'Imera s'erano ruinati. Allora i soldati d'Agrigento, veduti i Barbari rifugiarsi negli accampamenti vicini alla città, e da tal fatto argomentando la strage e rotta de' Peni, domandarono a grande istanza ai loro capi di essere condotti fuori, dicendo essere quella l'occasione opportunissima per opprimere e distruggere l'esercito nemico. Ma quelli, o fossero corrotti con denaro, siccome correva voce, o temessero che lasciando sguernita la città, Amilcare potesse coglierne il contrattempo per impossessarsene, non vollero che i soldati uscissero. Onde avvenne, che i nemici, i quali fuggivano, poterono entrare sani e salvi ne' loro accampamenti. Dafneo intanto spinto innanzi l'esercito suo andò ad accamparsi ove prima erano i Barbari; e tosto della città uscirono ad unirsi a lui i soldati, coi quali erasi accompagnato anche Dessippo; e questa moltitudine si ordinò in concione , ove incominciarono tutti con alto fremito a gridare, che s'era lasciata fuggir l'occasione propizia di vendicarsi de' Barbari già battuti; e che i loro capi erano quelli, che ne aveano la colpa; perciocché col non avere accordata la chiesta sortita, per la quale era cosa facilissima il mettere a morte l'esercito nemico, venivano ad averne salvate tante migliaja. Nato per tal maniera sì gran tumulto, Mene di Camarilla, il quale era prefetto, fattosi innanzi accusò i capi degli Agrigentini; e con ciò tanto infiammò gli animi di tutti, che a' rei preparati a giustificarsi non fu lasciato luogo a parlare; e quattro d'essi immantinente furono dalla moltitudine lapidati, fattasi grazia al quinto, di nome Argeo, avuto riguardo all' assai giovenile età sua. E mal pensavasi anche di Dessippo lacedemone, perciocché tenevasi, che avendo il comando delle truppe, ed essendo tenuto sopra gli altri intelligentissimo delle cose militari, per tradimento avesse in quella occasione prevaricato.

Sciolta l'adunanza Dafneo, guidate fuori del campo le sue truppe, tentò di metter l'assedio all'accampamento de' Peni; ma avendo veduto com'era troppo ben munito, lasciò quell'impresa. Però mandando cavalleria sulle strade, facendo pigliare quanti uscivano per foraggiare, ed impedendo ogni modo di procurar viveri, pose il nemico in tali angustie, che non arrischiando d'uscire in forza, e penuriando assai delle cose necessarie, i Peni erano molto travagliati, e parecchi morivano di fame. Laonde i Campani, e quasi tutti gli altri stipendiati, andati in folla alla tenda di Amilcare, si posero a domandare la pattuita razione di frumento, minacciando di passare al nemico, se loro venisse negata. Amilcare, avvisato da una spia, che i Siracusani mandavano ad Agrigento un convoglio di navi piene di frumento, non avendo altro rifugio, disse agli ammutinati, che avessero a pazientare ancora per pochi giorni; e per vieppiù assicurarli della sua buona fede, loro consegnò per pegno i nappi de' soldati cartaginesi. Intanto poi da Panormo, e da Mozia fatte venire quaranta triremi, le pose in aguato per sorprendere il convoglio che dovea giungere ai nemici, approfittando della circostanza, che i Siracusani, non tenendo più da gran tempo i Peni la signoria del mare, ed avvicinandosi l'inverno, pensavano non aver nulla da temere per questa parte dai Cartaginesi, stando sicuri che non ardirebbero di montare sopra triremi. Adunque mentre con sì poca cautela essi venivano col loro carico, Amilcare andando loro incontro colle quaranta triremi accennate subitamente affondò otto navi lunghe, e le altre obbligò a trarsi in fuga presso il lido, onde poi impadronitosene, a tal modo venne a cambiare la condizione delle cose, che i Campani alleati degli Agrigentini vedendo disperati gli affari de' Greci, lasciaronsi corrompere per quindici talenti, e passarono nel campo de' Cartaginesi. Imperciocché gli Agrigentini sul principio dell'assedio, mentre le cose andavano poco bene a' Cartaginesi, del frumento, e dell'altra vettovaglia fecero larghissimo consumo; e quando i Barbari poterono sperare miglior condizione, per la gran moltitudine di gente chiusa nella città si lasciarono mancare i viveri senza aver presa alcuna precauzione, e senza neppure accorgersene. Dicono di più che Dessippo si lasciasse corrompere per quindici talenti anch'esso, perciocché fu sollecito a rappresentare ai prefetti degli Itali come bisognava portar la guerra in altro luogo, poiché ivi mancava la vettovaglia; e sotto questo pretesto, que' capi, come se fosse già finito il tempo del loro impegno, condussero le loro squadre allo Stretto. Dopo la partenza de' quali i comandanti acconciatisi coi prefetti si misero a cercare quanta vettovaglia rimanesse in città; ed avendo trovato esservene pochissima, giudicarono doversi assolutamente abbandonar la città; e perciò ordinarono, che tutti nella prossima notte fossero pronti a partire.

Or come tanta moltitudine d'uomini, di donne, di fanciulli, si disponeva a tal'opera, difficile è dire i pianti e la disperazione, che empivano ogni casa, tanto pel terrore che i vicini nemici inspiravano, quanto pel dolor di lasciare alla depredazione de' Barbari quelle sostanze, per le quali ognuno dianzi si credeva beatissimo. Ma poiché la cattiva fortuna voleva che si perdesse tanta copia di beni, prudente partito parea il salvare almeno la vita. Se non che vedeasi pure che lasciavansi non tanto le beate ricchezze di sì magnifica città, quanto ancora una gran turba di persone, poiché essendo ognuno inteso alla salute sua propria, gli ammalati eran da' loro stessi domestici negletti, e i vecchi abbandonati. Molti poi furono, che anteponendo la morte all'andar fuori della patria, di propria mano si uccisero, onde almeno spirare nelle loro case paterne. Però soldati ben armati condussero a Gela la profuga moltitudine. Ogni via così, ed ogni campagna, che guidava verso Gela, riboccava confusamente di un immensa turba di donne e di ragazzi: fra quali le verginelle, quantunque cambiassero le consuete delizie della vita colle fatiche e cogli stenti gravissimi di sì aspro viaggio, pur sostenevano pazientemente ogni affanno, togliendosi al maggiore, che loro recava la paura. Questa tanta quantità di profughi giunse salva a Gela; e poscia per benefizio de' Siracusani ebbe ad abitazione la città de' Leontini.

Le conseguenze

Amilcare intanto, introdotte non senza timore in città le truppe, di quanti ne trovò ivi lasciati, quasi tutti ne fece uccidere; e quelli ancora restarono crudelmente trucidati, che s' erano rifugiati ne' templi, da' cui altari venivano strappati senza misericordia. Lo stesso fine nella ruina della sua patria dicesi che avesse anche quel Gallia, che tutti i suoi concittadini tanto superava nella magnificenza dell'opulento suo stato, e nella integrità della vita: imperciocché avea creduto di potere salvare sè stesso e i suoi amici, col rifugiarsi nel tempio di Minerva, sperando egli che i Cartaginesi sarebbonsi astenuti dal profanare con crudel macello il luogo sacro agli Dei. Ma poiché vide la crudele loro empietà, attaccò fuoco al tempio, e si abbruciò insieme con tutti i sacri tesori degli Dei, con questo solo fatto pensando d'impedire tre mali; l'empietà de' nemici verso gli Dei, la rapina delle grandi ricchezze ivi accumulate, e quello, che per lui era massimo, la contumelia, a cui altrimente sarebbe stato esposto il suo corpo. Amilcare, fatto diligentemente cercare per tutti i luoghi sacri e profani, e spogliati di tutto, tanta preda ne colse, quanta è facil cosa presumere che ne somministrasse una città abitata da dugento quaranta anni, non mai stata saccheggiata, e che allora passava per opulentissima infra tutte le città greche, spezialmente considerato che i suoi cittadini in singolare maniera amanti della eleganza, dilettavansi d'ogni genere di cose magnifiche. Perciò il vincitore ivi allora trovò moltissime pitture lavorate con sommo artifizio, ed un numero infinito di statue d'ogni specie con particolare ingegno fabbricate. Egli mandò a Cartagine le cose preziosissime, tra le quali era anche il toro di Falaride; e il rimanente fece vendere all'asta. Timeo nella sua storia nega con grande impegno, che mai quel toro abbia sussistito: ma egli viene smentito dall'evento stesso della fortuna: imperciocché Scipione africano quasi dugentosessant'anni dopo questo eccidio di Agrigento, distrutta Cartagine, tra le altre cose che fino a quel tempo eransi conservate, restituì agli Agrigentini anche quel toro famoso, il quale mentre pure componevasi questa storia, rimaneva in Agrigento. Avendo poi Amilcare dopo un assedio di otto mesi presa la città poco prima dell'inverno, non la distrusse egli immantinente, ma se ne servì per farvi svernare il suo esercito.

Bensì al divulgarsi il fatto calamitoso di Agrigento tanto terrore invase subitamente l'isola, che parte dei Siculi corse a ritirarsi in Siracusa, mentre parte andò co' figli, colle mogli, e coi proprii beni in Italia. Gli Agrigentini che erano fuggiti alla schiavitù, pervenuti a Siracusa accusarono i capitani, gridando, che pel loro tradimento perduta essi aveano la patria. E i Siracusani stessi anche presso gli altri Siculi incorsero il rimprovero d'aver mandato all'impresa tal razza di comandanti, i quali per la perversità loro messo aveano in estremo pericolo tutta quanta la Sicilia.