Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Sirmio(489)

Agosto 489

Gli avversari

Teodorico re degli Ostrogoti

Nacque intorno al 454 da Teodemiro, uno dei tre fratelli della stirpe degli Amali, che reggevano gli Ostrogoti, stabiliti allora nella Pannonia e nel Norico quali foederati dell'impero. A garanzia di un trattato, per il quale gli Ostrogoti si obbligavano a difendere le frontiere con un annuo stipendio, fu mandato (462) a Costantinopoli quale ostaggio. Qui acquistò una certa cultura, sebbene sia dubbio se sapesse scrivere, o se intendesse la lingua latina. Ma soprattutto conobbe i pregi e le debolezze della società romana e i segreti della politica imperiale, e affinò il suo senso politico. Ritornato da Costantinopoli (472), atteggiandosi a vendicatore dei Bizantini, vinse e uccise il re dei Sarmati, ma tenne per sé Singidunum (Belgrado), che questo re aveva tolto all'impero. Succeduto al padre per designazione di lui morente e per elezione del popolo (474), condusse i suoi nella Mesia inferiore (Bulgaria), ponendo sede a Novae (Sistova) sul basso Danubio. Combatté quì una lunga e varia lotta con un altro capo di Ostrogoti, Teoderico di Triario, detto Strabone, e, come questo, ebbe parte nelle contese che laceravano l'impero: aiutò anzi (477) Zenone a risalire sul trono e ne ebbe il titolo di patrizio e l'adozione a figliolo. E già forse dal 479, guardava all'Italia, occupata allora da Odoacre, e offriva a Zenone di ricondurvi lo spodestato imperatore Nepote. Non piacque a Zenone questo patteggiare col barbaro; e Teodorico rimase più anni ancora in Oriente, dove la morte di Strabone gli lasciava libero il campo, prima nemico di Zenone e devastatore dell'Epiro, poi protettore di lui, magister utriusque militiae, console (484), onorato del trionfo e di una statua innanzi al palazzo imperiale; e ancora ribelle, saccheggiatore della Tracia, minaccioso alla stessa Costantinopoli (487). Alla fine si trovarono d'accordo, Teodorico nel chiedere di essere mandato a combattere Odoacre e a "liberare" l'Italia, e Zenone nel consentire o nell'incoraggiare la spedizione; se il barbaro desiderava forse di vendicare la sconfitta dei Rugi, rivoltisi a lui contro l'assalto di Odoacre, e certo voleva per il suo popolo sede più stabile e, relativamente, più ricca della già devastata Balcania, non meno bramava l'imperatore di levarsi d'accanto un così pericoloso vicino. L'impresa fu deliberata dall'assemblea generale dei Goti, e partirono, negli ultimi mesi del 488, innumerae catervae, forse trecentomila, Ostrogoti per la maggior parte, con un forte nucleo di Rugi e nuclei minori di altri barbari, con donne, vecchi, fanciulli, carri, che servivano d'alloggio, suppellettili, arnesi da lavoro. Ma il rex delle gentes barbariche trasmigranti in Italia si presentava insieme come il patricius, cioè l'inviato dell'imperatore a restaurarvi le sorti della romanità. Vinti all'Ulca i Gepidi e i presidî posti qui da Odoacre, Teodorico disperse le milizie di questo all'Sirmio, e il passaggio del fiume (28 agosto 489) considerò come inizio ufficiale del suo dominio sull'Italia. Vinse ancora a Verona (30 settembre), dalla quale città, forse per il valore spiegato nella battaglia, ebbe il nome nella saga tedesca. Vide allora volgersi a lui i più dei Romani e darglisi la maggior parte delle stesse milizie di Odoacre, che si rinchiuse in Ravenna. Poi ebbe di nuovo contro a sé questi barbari e molti Romani, delusi forse i primi nella speranza di spartire con i nuovi venuti le terre italiane, già scontenti gli altri dei pretesi liberatori. Dovette allora ritrarsi a Pavia, in grandi strettezze; poi, con l'aiuto di una discesa di Visigoti, riprese l'offensiva, batté sull'Adda Odoacre (11 agosto 490), lo costrinse a chiudersi di nuovo in Ravenna, mentre infuriava per tutta Italia la guerra fra i barbari e calavano dalle Alpi torme di Borgognoni a predare. Quando Odoacre piegò, dopo tre anni d'assedio, Teodorico gli consentì di rimanere capo dei suoi soldati e dividere con lui il dominio dei Romani (fine di febbraio 494); ma, entrato in Ravenna (5 marzo), lo accusò di tendergli insidie e lo uccise (15 marzo 494). Tutti i parenti del vinto e i suoi comites, dovunque fossero in Italia, ebbero la stessa sorte; ai Romani partigiani di lui fu tolta la libertà di disporre dei loro beni; ma la dura sentenza fu mitigata per l'intervento dei vescovi di Pavia e di Milano, restando esclusi dal perdono solo i capi dell'opposizione. Ancora prima della resa di Ravenna, Teodorico s'era dato pensiero di precisare la base giuridica del suo dominio. E aveva mandato all'imperatore, o fatto mandare dal senato, Fausto Negro, uno dei primi dell'alta assemblea, a chiedere la "veste regia". Non ottenne il consenso dell'imperatore, forse perché non volle promettere a questo l'appoggio nella contesa religiosa che, dopo la pubblicazione dell'Henoticon di Zenone favorevole ai monofisiti (482), divideva l'Impero dalla Chiesa romana. Ma, dopo l'ingresso in Ravenna, fu, senz'attendere l'ordine imperiale, confermato re dai suoi Goti, riconosciuto cioè come legittimo rappresentante della sovranità sul paese conquistato; assunse allora il titolo di dominus e rivestì la porpora "come già sovrano dei Goti e dei Romani" (Jordanes, Get., 295). Fu quindi in conflitto più anni con la corte bizantina e tenuto da questa come "tiranno". Nel 498, per opera del patrizio Festo, seguì un accordo, per il quale l'imperatore rimandò gli ornamenta palatii, inviati già da Odoacre nell'Oriente, riconoscendo l'autorità personale di Teodorico Questi rimaneva in teoria subordinato, non sappiamo bene con quale titolo, all'imperatore. Ma in realtà egli pensava ormai distinte le due respublicae, l'orientale e l'occidentale; nell'imperatore non ammetteva altro primato fuor che morale, a sé attribuiva per volere divino quello stesso potere illimitato, che il diritto romano riconosceva all'imperatore, e qualificava il suo come Romanum imperium. La nomina dei consoli, dei patrizî, dei senatori era fatta da lui senz'attendere designazione o conferma imperiale; l'erario pubblico era confuso col tesoro privato del re. Se Teodorico non promulgò leggi, ma editti, non era però in questi alcun accenno al supremo potere legislativo dell'imperatore; le monete avevano bensì, quelle che noi conosciamo almeno, l'effigie imperiale, ma questo dipendeva soprattutto dalla necessità di assicurarne il corso nei paesi orientali, da cui gli occidentali dipendevano commercialmente. Del resto, medaglie commemorative, statue, iscrizioni salutavano Teodorico come solo dominus, un'iscrizione, anzi, come victor ac triumphator semper Augustus; Procopio scrisse ch'egli aveva titolo di rex, cioè di capo barbarico, ma di fatto era vero imperatore. Teodorico si vantava che il suo regno fosse copia dell'unico impero; venendo a Roma nel 500, promise al popolo di osservare le disposizioni prese in altri tempi dagl'imperatori e, come già questi, distribuì doni e offerse spettacoli; conquistata la Provenza, la disse restituita all'antica libertà, cioè alla sovranità di Roma. E conservò infatti le forme dell'antico ordinamento romano, con la gerarchia delle dignitates alla corte di Ravenna e nelle provincie, e diede, generalmente, a Romani le magistrature civili. Ma la romanità del linguaggio è attribuita al re barbaro da Cassiodoro Senatore e da Ennodio, ed è difficile dire fino a qual punto lo scrittore delle lettere del re e il suo panegirista ne interpretassero l'intimo pensiero. E alcune delle più alte magistrature civili, come quella di comes patrimonii, o amministratore del patrimonio regio, e di praepositus sacri cubiculi, o capo della casa del re, erano tenute non di rado da barbari; e il comitatus, raccolto intorno al re, poté avere l'antico nome di consistorium, ma era costituito in parte di Goti; e i saiones, anch'essi goti, rappresentavano l'ingerenza diretta del re in tutti i rami della pubblica amministrazione e non di rado si sostituivano, per volere di lui o per usurpazione, alle ordinarie magistrature; Roma stessa fu per un certo tempo sottoposta all'autorità eccezionale di un comes goto. La giustizia era amministrata in nome del re, giudicavano delle cause fra Romani cognitores romani secondo la legge; delle cause fra barbari i loro capi militari secondo le consuetudini barbariche, stabilendosi così un sistema di leggi personali, diverse da Romani a barbari e tra gli stessi gruppi di barbari. Nelle cause miste erano applicati gli editti del re, che avevano carattere territoriale e valevano ugualmente per barbari e Romani; nei casi non contemplati dagli editti, si può ritenere che fosse applicata la legge romana, adattandola alle circostanze nuove; giudicava tuttavia un comes goto, sia pure avendo al fianco un assessor romano, con intrusione dell'elemento militare nel campo della giustizia, la quale intrusione avveniva talvolta anche in casi di controversie fra soli Romani. E il re poteva poi, o per ricorso di una delle parti, o per iniziativa spontanea, avocare a sé la causa, assegnarla alla cognizione di giudici delegati, prescrivere che si desse sentenza non secondo legge, ma secondo equità, sospendere la procedura, cassare il giudizio. Ai Goti rimanevano tutti gli uffici militari, dai quali i Romani, in via normale, erano esclusi. E a loro, fino dall'inizio della conquista, era stato distribuito il terzo delle terre; e, da prima, sembra, solo quelle confiscate ai soldati di Odoacre; ma certo, almeno più tardi, furono soggette al vincolo delle tertiae anche le terre di privati romani, non nel senso che si venisse a un'effettiva divisione, bensì a un'assegnazione teorica di un terzo del fondo, alla quale corrispondeva il diritto di percepire un terzo dei frutti. La parte non assegnata ai barbari era poi colpita da imposizioni, che andavano di regola al fisco, ma potevano anche essere attribuite dal re a singoli personaggi goti, posti in relazione diretta col contribuente romano. Si costituivano a questo modo due società parallele e nettamente distinte; il re protestava di volere che esse convivessero in pace, mostrava anche di apprezzare la superiorità della civilitas romana sulla barbarie gotica; ma non pensava a fusione tra Romani e Goti e men che mai a romanizzazione dei Goti, né altrimenti concepiva le relazioni fra i due popoli, se non come quelle di un esercito di armati in mezzo a una popolazione senz'armi. E, anche se egli attribuiva a quelli la funzione di difensori della civilitas, nel fatto appariva, come è detto espressamente da Ennodio, che i barbari erano i vincitori e i Romani i vinti, i subiugati. Fu tuttavia l'età di Teodorico, in paragone a quella che la precedette e la seguì, età di rifiorimento economico, o almeno di arresto nella decadenza; la lunga pace permise la tranquilla coltivazione dei campi e la bonifica di terreni, specialmente nelle Paludi Pontine, onde ebbero incremento la popolazione rurale e la produzione agraria e diminuì il prezzo delle derrate, quantunque non manchino memorie di devastazioni di terre, di requisizioni forzate, di prestazioni coattive e gravose. L'industria e il commercio, posti sotto il diretto controllo dello stato e gravati da pesi, che l'arbitrio dei riscotitori aumentava, non ebbero invece alcun progresso sensibile. Anche la cultura romana diede allora un nuovo bagliore della sua fiamma inestinguibile. Il re provvide al restauro degli antichi edifici di Roma, costruì, con l'opera di artisti romani, edifici nuovi a Verona, a Pavia, soprattutto a Ravenna, dove innalzò la basilica, mirabile per i suoi musaici, che volle dedicata a Gesù Cristo ed è oggi S. Apollinare Nuovo, e il battistero ariano e il palazzo magnifico, ora interamente distrutto, e il mausoleo famoso per sua sepoltura. E, se non promosse direttamente le lettere, se anzi vietò ai suoi Goti di mandare i figli alle scuole, mostrò tuttavia favore a dotti Romani: Cassiodoro Senatore fu questore e per più anni segretario del re, console (514), maestro degli uffici (523); Severino Boezio, filosofo e scienziato, oratore e poeta, fu console anch'egli (510) e maestro degli uffici (522) e celebrò le lodi del re, al quale Ennodio di Pavia rivolgeva l'ampolloso suo Panegirico. Abile e per lungo tempo fortunata fu la politica estera di Teodorico Questo barbaro, che era vissuto nella giovinezza fra le armi e con le armi aveva acquistato l'Italia, non amò la guerra; anzi non trasse più la spada dal fodero, lasciando, ove occorresse, ai suoi generali di combattere per lui. Con l'Impero d'Oriente, dopo i primi conflitti, stette in pace, finché la necessità di assicurare le frontiere non lo obbligò nel 504 ad aggiungere alla Penisola, all'Istria, al Norico, alle Rezie, che formavano il regno fin dall'inizio, Sirmium, alla confluenza della Sava col Danubio, "limite antico d'Italia"; solo per questo affrontò una guerra con i Bizantini, che, risoltasi per terra con la vittoria dei Goti, si prolungò più anni per mare con devastazioni piratesche dei Greci sulle coste italiane, finché, intorno al 510, fu ristabilita la pace. Sulle gentes barbariche affermò la propria superiorità, come signore di Roma e d'Italia; ma la volle attuare per mezzo di relazioni di parentela, che stringessero intorno a lui i diversi re barbari: diede una figlia al re dei Visigoti e un'altra al figlio del re dei Burgundi, e una sorella al re dei Vandali, e una nipote a quello dei Turingi, e sposò egli stesso una sorella di Clodoveo re dei Franchi e accolse come figlio d'armi il re degli Eruli; per più anni apparve quasi capo di una grande federazione barbarica. Ruppe questo equilibrio di forze la guerra che Clodoveo, forse eccitato dall'imperatore bizantino, mosse al genero di Teodorico, il re dei Visigoti Alarico II, che fu vinto e ucciso a Vouillé (507). Teodorico mandò allora eserciti, che vinsero i Franchi ad Arles (509), riunì all'Italia la Provenza, alla quale diede amministrazione romana, e assunse dal 511 il governo della Spagna in nome del giovine nipote Amalarico, affidandolo a Teudis, "armigero" suo. Il dominio di lui era così notevolmente ampliato; ma il disegno suo, di legare a sé tutte le gentes, era fallito. Più tardi anche i Burgundi si staccarono dall'amicizia di lui, ch'ebbe scarso compenso nell'acquisto di una striscia di terreno a nord dell'Isère; e si staccarono i Vandali, senza che egli osasse nemmeno vendicare l'uccisione della sorella (523); lo stesso Teudis nella Spagna assumeva qualche atteggiamento d'indipendenza. Il re invecchiava; e la stessa continuità della dinastia non appariva sicura. Non avendo figli maschi, egli diede nel 515 in sposa la figlia Amalasunta a Eutarico, discendente degli Amali, ma vissuto nella Spagna, e ottenne a questo dall'imperatore l'adozione a figlio e la dignità di collega dell'imperatore stesso nel consolato per il 519, come a riconoscimento del suo diritto alla successione del re. Ma il carattere di Eutarico, assai ostile ai Romani, rendeva più grave la difficoltà di mantenere nel regno la convivenza pacifica di due società così diverse e provvedute di forze così disuguali: la parte più intollerante dei Goti guadagnava terreno, crescevano le violenze a danno dei vinti, né gli sforzi del re riuscivano sempre a impedirle o a punirle. La questione religiosa s'intrecciava con la politica. Ariano e re di un popolo ariano, Teodorico aveva rispettato la religione dei vinti, conservato i privilegi della Chiesa, accolto le preghiere di pontefici e di vescovi, tanto più che la madre sua Ereleuva era cattolica. Non s'era però astenuto dall'ingerirsi alcuna volta in questioni ecclesiastiche. Chiamato ad arbitro nella duplice elezione pontificale del 498, aveva dato dapprima giudizio favorevole a Simmaco, eletto dalla maggioranza, e da questo era stato accolto a Roma con grande onore (500). Ma, scoppiata poco dopo una nuova contesa per le accuse mosse a Simmaco da una fazione, che aveva per sé quasi tutto il senato e parte del clero romano, aveva citato a Ravenna Simmaco, mandato a Roma il vescovo di Altino come visitatore, convocato, con l'assenso di Simmaco, un sinodo; e, pure dichiarando che non toccava a lui decidere in materia ecclesiastica, aveva insistito perché questo pronunziasse un giudizio, e privato intanto il papa delle chiese e dei beni. E anche quando (23 ottobre 501) il sinodo, rimettendo la causa del pontefice al giudizio divino, lo aveva dichiarato quanto agli uomini libero dalle accuse e rimesso nella pienezza dei suoi poteri, il re aveva consentito che l'avversario di lui venisse a Roma ed esercitasse fra i tumulti le attribuzioni pontificali, e aveva atteso quattro anni prima di far restituire al pontefice le chiese e il patrimonio. Dopo d'allora, tuttavia, le relazioni fra Teodorico e la Chiesa di Roma e il popolo cattolico non erano state per più anni turbate; anzi il re, forse nell'intento di assicurare la pacifica successione nel regno suo, aveva cooperato alla fine dello scisma, che separava la Chiesa greca dalla romana (518). Ma questa riconciliazione, abbattendo la barriera che aveva diviso per più anni i Romani d'Italia dall'impero, portava quelli di loro, ch'erano più intolleranti del giogo barbarico, a vedere nell'imperatore orientale la sola speranza per la restaurazione della romana libertas e dava agli ariani più accesi, quale era Eutarico, buon pretesto per accentuare l'avversione, come alla stirpe, così alla fede romana. La morte di Eutarico parve riavvicinare Teodorico ai Romani: Boezio fu magister officiorum e due figli suoi consoli nel 522. Ma l'accusa fatta da Cipriano, un romano goticizzante, al patrizio Albino, di avere relazioni con l'imperatore orientale, coinvolse Boezio, che aveva preso le difese di lui, come d'altri Romani perseguitati dai Goti, e minacciò l'intero senato. Questo, intimidito, abbandonò alla propria sorte Boezio, che fu chiuso in carcere, probabilmente nel 523, sotto l'accusa di arti magiche e condannato per giudizio del senato alla confisca dei beni e all'esilio. La pubblicazione (523 o 524) di un editto dell'imperatore Giustino contro pagani, ebrei ed eretici, che erano esclusi dai pubblici uffici, anche se lasciava all'arbitrio dell'imperatore la sorte dei Goti, inaspriva la contesa fra ariani e cattolici. Teodorico pigliò le difese dei suoi correligionarî e, mentre allestiva una flotta col duplice fine di rendere l'Italia indipendente dal commercio bizantino e d'intimidire l'imperatore, costrinse il pontefice Giovanni I a recarsi a Costantinopoli, imponendogli di perorare la causa degli ariani. Le accoglienze assai onorevoli fatte al papa in Oriente (524-25) e l'insuccesso almeno parziale della sua missione accrebbero i sospetti del re, il quale si sfrenò ora a crudeltà; fece uccidere Boezio, che poté essere così considerato quale martire della fede, e il suocero di lui Simmaco, capo del senato; e tenne prigione a Ravenna il papa, che ben presto venne a morte (18 maggio 526) e fu venerato fin d'allora come victima Christi. Il re cercò d'imporre come successore persona a lui grata; ma contemporaneamente ordinò che le basiliche cattoliche fossero invase dagli ariani, mentre ai Romani era tolto fino l'uso del coltello. Morendo poco appresso, il 30 agosto 526, Teodorico raccomandò ai Goti di rispettare come re il piccolo nipote Atalarico, di amare il senato e il popolo romano, di placare l'imperatore d'Oriente e tenerlo propizio dopo Iddio. Egli riconosceva così il fallimento dell'opera sua, che non era riuscita a creare una tale realtà politica da rendere sicura, nell'accordo fra i due popoli e nella stabilità nelle relazioni con l'Oriente, la continuità della dinastia e del regno stesso dei Goti in Italia. Il giudizio assai diverso dato sopra di lui dai contemporanei, il contrasto tra le leggende cattoliche e romane, che lo fanno morire tra i rimorsi o essere rapito vivente dal demonio e precipitato nel cratere di Lipari, e la saga germanica, la quale canta il giusto e savio e prode Dietrich von Bern, sono prova non solo della divisione profonda tra Romani e barbari, ma della contraddizione, in cui si aggirò, inevitabilmente forse, ma certo vanamente, tutta l'opera di Teodorico.

La genesi

Tratto da: << Teoderico, re dei Goti e degl'Italiani, Gottardo Garollo, Firenze, 1879 >>

Tale era lo stato dell'Italia, quando la corte di Costantinopoli prese la risoluzione di mandarvi Teoderico con tutti i suoi Göti. Il fatto di questa risoluzione non fu qualche cosa di straordinario; esso ebbe la sua ragione nel principio fondamentale della politica bizantina. Già il primo Costantino coll'aver trasferita la capitale da Roma a Bizanzio aveva dimostrato che d' allora in poi la maggiore importanza del nome romano doveva essere non più della parte occidentale dell'impero, ma della orientale. In seguito, questo principio era stato così bene inteso e sfruttato dagli imperatori di Costantinopoli, che questi non solo non si erano creduti in obbligo di materialmente aiutare i deboli loro colleghi d'Occidente, ma avevano anzi preso a considerare l'impero occidentale come una specie di bacino di sfogo, nel quale immettere quelle onde di popoli migranti, che altrimenti si sarebbero riversate sopra le provincie a loro soggette, arrecando cosi a queste danni incalcolabili e mettendo in forse la esistenza stessa dell'impero. Di modo che tutti i pensieri dei politici bizantini, relativamente ai Barbari presso i confini dell'impero stanziati, furono sempre diretti a non permettere che le piccole popolazioni fossero mai in pace fra di loro e ad insegnare alle più forti la via dell'Occidente. Nello stesso tempo peraltro i despoti orientali aveano sempre voluto esercitare sulla corte di Roma o di Ravenna quel diritto di tutela che pareva loro d'avere pel sentirsi più forti; diritto ch'essi avevano specialmente esercitato col nominare direttamente o indirettamente gl'imperatori d'Occidente. Per questo fatto l'impero occidentale o, per dire con più esattezza, l'Italia dalla condizione di Stato politicamente pari all' Oriente era stata ridotta alla condizione di Stato a quello vassallo.* Da ultimo, dopo la rivoluzione del 476, per l'esplicita dichiarazione del senato e per la nomina, da Zenone fatta, di Odovacre a patrizio, l'Italia era stata ridotta, nelle viste della corte bizantina, nè più né meno che ad una provincia dell'impero orientale, governata dal patrizio Odovacre, che, quando ciò fosse all'imperatore piaciuto, si sarebbe potuto privare del di lui ufficio in favore di un altro, il quale poi alla sua volta avrebbe potuto essere licenziato, quando ciò fosse stato nell'interesse e nel potere dell'imperatore. E si fu appunto in forza di questo diritto che Zenone, messo alle strette, volle offrire al re Teoderico l'Italia. Tale offerta non giunse al re del tutto inaspettata. Ch'egli prima non avesse mai pensato all'Italia, come ad una terra dove il suo popolo avrebbe potuto stabilirsi ed egli stesso soddisfare la propria ambizione, egli il discendente degli Amali, il figlio adottivo dell'imperatore, l'ex-console, il patrizio romano, non lo si può assolutamente negare. È bensì vero che, quando, nel 479, egli s'era offerto d'andare in Dalmazia, per prendervi Nepote e ricondurlo in Italia, non aveva palesata l'intenzione di rimanere in questa ; ma è pur vero che a Costantinopoli era, allora sorto il sospetto di qualche cosa di simile; perchè, avendo egli occupata Durazzo, gli si era mandato a dire in fretta che per intanto non raccogliesse *navi rè tentasse cose nuove; e le navi a che mai gli avrebbero potuto servire se non ad effettuare uno sbarco sulle coste italiane, qualora Zenone non si fosse in verun modo indotto a contentarlo? Ma per quanto Teoderico fosse in cuor suo contento della proposta fattagli, tuttavia egli non poteva dare subito e di proprio arbitrio una risposta definitiva agli oratori di Zenone. Gli fu d'uopo di chiamare a consiglio i capi dell'esercito, esporre a questi la cosa, convincerli che, accettando, una nuova èra di prosperità e di gloria si sarebbe aperta per essi, per tutto il popolo gotico. I capi poi, dopochè ebbero dichiarato al re ch'essi erano pronti a seguirlo in Italia, annunziarono all'esercito la proposta che l'imperatore aveva fatta al re, il desiderio che questi giustamente aveva di accettarla, e la loro intenzione di seguirlo, se il popolo, dall' esercito rappresentato, non vi si fosse dimostrato contrario. Ma qual mai esercito di Barbari si sarebbe allora rifiutato di seguire il proprio re in Italia ? Un solo grido dovette allora risuonare nella pianura di Melantiade: in Italia! in Italia! E Teoderico dichiarò agli oratori greci ch'egli accettava l'offerta e ch' era disposto a venire in Costantinopoli, onde coll'imperatore stabilire quelle condizioni, che, in un affare di tanta importanza, apparissero indispensabili all'interesse ed al decoro d' entrambi. Abbastanza lunghe e complicate furono, non v'ha dubbio, le di-· scussioni fra l'imperatore ed il re dei Goti, per arrivare alla conchiusione d'un conveniente trattato. La segretezza, con cui furono tenute le conferenze dei due principi, fu cagione che mai non si potessero conoscere i particolari delle medesime. Tuttavia le circostanze d'allora ed i successivi avvenimenti bastano a far penetrare un raggio di luce in quelle tenebre ed a rischiarare alquanto i punti più salienti di quella importantissima convenzione. Anzitutto l'Italia doveva essere da Teoderico conquistata. Quindi sino dal principio della discussione si dovette ammettere la possibilità ch'egli rimanesse vinto da Odovacre. Ciò posto, che cosa avrebbe egli fatto? sarebbe, potendolo, ritornato in Oriente? oppure avrebbe cercato di accomodarsi alla meglio col vincitore? o avrebbe tentato di passare nella Gallia o nella Spagna ? Zenone intendeva di liberare la corte di Costantinopoli da qualunque timore dei Goti e di Teoderico per ogni tempo avvenire. Quindi Teoderico rinunziò per sempre al dono o stipendio, che ogni anno gli soleva essere dall'erario bizantino pagato, e promise di non mai far ritorno entro i confini dell'impero orientale, se la fortuna non lo avesse nell'impresa favorito. Invece pel caso più probabile, ch'egli nella lotta riuscisse ad Odovacre superiore, Zenone gli accordò il diritto di rimanere in Italia e di provvedere al benessere dei Goti in quel modo, ch'egli fosse per credere più adatto all'interesse di quelli ed alla romana dignità. Ma gravissime 'difficoltà si presentarono, quando si trattò di stabilire la posizione politica di Teoderico rispetto alla corte di Costantinopoli, nel caso che gli riuscisse l'impresa. Occuperebbe egli il posto degli antichi imperatori, oppure sarebbe considerato come un semplice luogotenente dell'imperatore e ciò di fatto, non soltanto di nome, quale pei politici greci era Odovacre? Si pensò che queste difficoltà verrebbero meglio appianate ad impresa finita e per intanto si conchiuse che Teoderico, quando fosse riuscito a vincere per intero Odovacre, non come imperatore d'Occidente nè come re d'Italia, ma come patrizio romano amministrerebbe la cosa pubblica in Italia anome dell'imperatore Zenone, fintantochè questi prendesse una risoluzione in proposito, o dichiarando il re dei Goti signore indipendente dell'Italia o mandando in questa un altro come imperatore. Naturalmente si tenne anche parola del modo con cui Zenone avrebbe appoggiata l'impresa, per accrescerle le probabilità della riuscita. Un forte ajuto era già di per sè stesso il fatto dell'accordo fra i due principi; per cui Teoderico non sarebbe apparso agli Italiani come un conquistatore straniero, ma come il capo d'un grande esercito dall'imperatore mandato a liberarli dall'oppressione dell'avaro tiranno. In quanto agli ajuti materiali, Zenone diede al re una vistosa somma di denaro; gli permise d'invitare a far parte della spedizione anche i capi di quei Goti che non erano da lui dipendenti; inoltre non si dimostrò contrario a che un qualche patrizio bizantino lo seguisse come amico e consigliere in Italia. Quest'ultima concessione riguardava specialmente il patrizio Artemidoro, che aveva appunto esternato il desiderio di farsi compagno a Teoderico. Infine gli raccomandò caldamente di usar tutti i riguardi al senato ed al popolo romano. Fermato così l'accordo, Teoderico partì da Costantinopoli e col suo esercito ritornò a Nova sul Danubio, per incominciarvi subito i preparativi alla grande impresa. Già durante la marcia verso Nova Teoderico spedì araldi nei luoghi dove sapeva esser Goti, per invitargli a seguirlo. Giunto a Nova, fece a sè venire quei capi di famiglia, che non erano stati nell'ultima spedizione ; li rese istrutti del divisamento da lui preso dietro il consiglio dell'imperatore e coll'unanime consenso dell'esercito, e gli eccitò a non lasciarsi sfuggire così bella occasione di acquistare gloria imperitura e comoda vita sotto il bel cielo e in mezzo alle ricchezze d'Italia. Poscia ordinò che le famiglie, le quali intendessero di unire la loro alla sua sorte, non appena si mostrassero i primi segni della mite stagione, con tutta la sollecitudine dall'importanza della cosa dimandata si preparassero a partire. Dopo di che l'esercito si sciolse e tutti i Goti ritornarono in seno alle famiglie loro col vivo desiderio di veder quanto prima sorgere il giorno, in cui avrebbero incominciata l'ultima fatica; superata la quale, erano sicuri, per la fede grande che avevano nelle parole del re, di giungere al termine delle loro miserie. Nell'inverno arrivarono da diverse parti dell'impero a Nova, per mettersi colle loro famiglie a disposizione di Teoderico, molti di quei Goti, ai quali egli aveva, come si è detto, spediti araldi. Ma, più che dell'arrivo di questi, ebbe il re a chiamarsi contento del discreto numero di eccellenti guerrieri, che colle reliquie del disfatto popolo dei Rugi gli condusse Federico, dopochè indarno aveva tentato di ricuperare la patria perduta. Quando il Danubio cessò di menar ghiaccio, i Goti incominciarono a prendere quelle disposizioni, che da tanto tempo erano soliti di prendere, tutte le volte che o l'incalzare d'un nemico più forte di loro o il peggiore dei nemici, la fame, li costringeva a mutare stanza. Ciascuna famiglia allestì il proprio o i proprî carri, mettendovi sopra tutto quel po'di bene che aveva, non escluse le pietre, colle quali le donne macinavano il grano, poi s'avviò alla volta di Nova, da dove la grande spedizione sarebbe mossa. Quando tutti gli emigranti furono riuniti, Teoderico li dispose in un ordine non dissimile da quello tenuto allora della sua spedizione nell'Epiro: cioè gli atti alle armi divise in più corpi e questi collocò parte davanti, parte a fianco e parte dietro della lunga fila dei carri. Quale strano spettacolo deve aver presentato quella immensa moltitudine di gente, che, i Rugi compresi, certo, se non lo superava, non era di molto inferiore al numero di cinquecentomila individui dell'uno e dell'altro sesso e di tutte le età: individui, che, se per una buona parte coi loro aspetti non dimostravano d'aver passati giorni molto felici, pure e colla insolita gaiezza e colla ossequiosa obbedienza agli ordini del re a vicenda si palesavano l'intima sicurezza di potersi fra breve risarcire di quanto avevano fino allora sofferto! Non possiamo sapere quanto tempo Teoderico avesse calcolato d' impiegare, per raggiungere da Nova il confine italiano. È peraltro probabile che, per la pratica abbastanza lunga da lui fatta, presentisse, già nel primo momento della partenza, che gravissime difficoltà forse non meno gravi di quelle che lo aspettavano in Italia, egli avrebbe dovuto superare avanti che gli fosse dato di pestare la prima zolla dell'ambita terra. La via, per la quale si doveva muvvere la spedizione, correva da Nova, lunghesso la destra sponda del Danubio, fino a Singiduno per un tratto di trecento e quindici miglia (chil. 467); a Singiduno, presso la foce della Sava, entrava nella Pannonia Sirmiese; presso Sirmio toccava la sinistra sponda della Sava, per subito scostarsene ed avvicinarsi, passando per Cibale (Swilaja) e Certisa (Djakovar), a quei monti, che separano i bacini della Drava e della Sava (montagna di Warasdin); lungo i quali monti correva (e corre anche oggidi) fino a Siscia (Sissek), dove passava sulla destra sponda della Sava, misurando da Singiduno miglia cento e ottantacinque (chil. 275); da Siscia poi correva direttamente fino ad Emona (Lubiana) per un tratto di cento e quindici miglia; finalmente per un tratto di sessanta miglia discendeva da Emona all'Isonzo. Un esercito regolare romano avrebbe potuto comodamente percorrere questa via in poco più d'un mese; ma quale diversità fra un esercito romano e la moltitudine da Teoderico con. dotta! Prima di tutto la marcia dei guerrieri doveva regolarsi dietro il lentissimo passo dei buoi che tiravano i carri; poi ad ogni fiumicello, e ve n'erano molti, che attraversava la via, era necessaria una fermata non di poche ore nè di un giorno solo, per far passar tutti i carri; da ultimo l'essere stato a Teoderico impossibile di sufficientemente provvedere al vitto per tanta gente era cagione di continui conflitti fra i Goti e le popolazioni, per le cui terre quelli devastando e rubando passavano. Il più serio conflitto fra Nova e Singiduno fu quello coi Bulgari, che, condotti dal loro re Busa, assalirono un giorno i Goti; ma furono respinti ed il re loro fu ucciso. Quando una di quelle popolazioni veniva vinta, i Goti ne mettevano a sacco il territorio e così si procacciavano di che vivere un giorno per l' altro; non ultima risorsa per essi era anche la caccia. Non tutti però, stante il grandissimo numero, potevano aver parte al bottino: i delusi si rifacevano un altro giorno in modo simile, ed allora toccava di patire a quelli che prima erano stati i fortunati. La scarsezza del vitto incominciò ben presto a farsi sentire generalmente e lo spettro della fame ad incutere a tutti spavento. Ma lì non si fermarono i patimenti di quella gente. Venne l'estate ed i cocenti raggi del sole contribuirono con tutto il resto a far scoppiare malattie, che, per la loro rapida diffusione e per le molte vittime che ogni giorno andavano mietendo, sempre più accrebbero le difficoltà dell'avanzarsi; per modo che, partiti da Nova sul far della primavera, non giunsero a Singiduno che in sul finire dell'autunno.

La battaglia

Passata la Sava, entrarono nel territorio dei Gepidi. Questi, dopo la partenza dei Goti dalla Pannonia Sirmiese, avevano sotto il loro re Triopstila, successore di Ardarico, passato il Danubio ed occupata senza difficoltà Sirmio e la circostante regione. Teoderico, dovendo attraversare il loro territorio, mandò ad avvisarne Triopstila e nello stesso tempo a pregarlo che appoggiasse del suo meglio la spedizione. Quelli fe' dapprima le viste di essere amico dei Goti; ma quale non fu la meraviglia e l'ira di questi, allorchè dalla loro avanguardia fu segnalata al di là del Iulka (fiumicello o lunga e stretta palude fra Sirmio e Cibale) la presenza di un grosso corpo di Gepidi schierati a battaglia! Teoderico comprese d'essere stato tratto in inganno; ordinò all'avanguardia di tentare il passaggio del Iulka e di far testa ai Gepidi, finch' egli con tutte le rimanenti truppe giungesse. I primi Goti, che arrivarono sull' altra sponda del Iulka, furono tagliati a pezzi; a questi altri subito succedettero ed una vera battaglia fu incominciata. I Goti, minori di numero, furono presto costretti a piegare e già stavano per fuggire, quando ai loro orecchi risuonò potente la voce di Teoderico e l'urrà delle truppe che lo seguivano. Allora la cosa mutò aspetto; i Gepidi si videro essi in minor numero e, caduto essendo nella zuffa Triopstila, si diedero per vinti. Molti si arresero a discrezione; molti invece fuggirono e questi vennero inseguiti accanitamente dai Goti, che solo si fermarono al sopravvenir della notte.

Le conseguenze

I prigionieri, giusta l'uso di quei tempi e di quei popoli, vennero incorporati ai Goti: per modo che le perdite da questi per le malattie e pei conflitti patite furono in parte ricompensate. La spedizione si fermò fra Sirmio e Cibale durante tutto l'inverno. Nella primavera del 489 essa riprese la faticosa sua marcia, per arrivare nella valle dell' Isonzo verso la fine d'agosto. Ivi, nel piano fra i piedi del monte Carusadio (Carso) e l'Isonzo, Teoderico ordinò di piantare l'accampamento, acciò tutti ricuperassero con un conveniente riposo le forze, prima di passare il confine della terra promessa ed accingersi all'ultima e decisiva lotta.