Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Shubra Khit (o Chobrâkhyt)

13 Luglio 1798

Gli avversari

Napoleóne I Bonaparte (fino al 1796 Buonaparte) imperatore dei Francesi.

Nacque ad Ajaccio il 15 agosto 1769, morì a Longwood, nell'isola di S. Elena, il 5 maggio 1821; figlio di Carlo e Letizia Ramolino. Collegiale ad Autun, Brienne, Parigi, fu poi luogotenente d'artiglieria (1785) e tentò in seguito la fortuna politica e militare in Corsica (nel 1791 era capo-battaglione della guardia nazionale ad Ajaccio, nel febbraio 1793 condusse il suo battaglione di guardie nazionali nella spedizione della Maddalena, miseramente fallita, nell'aprile-maggio 1793 prese posizione, con il fratello Luciano, contro P. Paoli, per cui dovette fuggire in Francia). Comandante subalterno nel blocco di Tolone (ottobre 1793), si acquistò il grado di generale e quindi il comando dell'artiglieria dell'esercito d'Italia. Sospettato di giacobinismo per l'amicizia con A. Robespierre, subì un breve arresto; destinato a un comando in Vandea, rifiutò e fu radiato dai quadri (aprile 1795). Divenuto amico di P. Barras conobbe presso di lui Giuseppina de Beauharnais (che sposò il 9 marzo 1796); e per incarico di Barras difese energicamente la Convenzione contro i realisti (13 vendemmiale). Ottenne così il comando dell'esercito dell'interno, poi di quello d'Italia. Presa l'offensiva (9 aprile 1796), batté separatamente (Montenotte, Millesimo e Dego) gli Austro-Sardi, costringendo questi ultimi all'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), quelli, dopo le vittorie di Lonato, Arcole, Rivoli, e la resa di Mantova, ai preliminari di pace di Leoben (18 aprile 1797). Occupata la Lombardia, ricostituisce sul modello francese le repubbliche di Genova e di Venezia e toglie al papa la Romagna (armistizio di Bologna, 23 giugno 1796; trattato di Tolentino, 18 febbraio 1797). Poi, col trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), conferma alla Francia il Belgio e le annette le Isole Ionie, ponendo fine all'indipendenza di Venezia, il cui territorio passava all'Austria (ad eccezione di Bergamo e Brescia incorporate nella nuova Repubblica Cisalpina). Preposto, a Parigi, a una spedizione contro le isole britanniche, la devia verso l'Egitto, ove sbarca il 2 luglio 1798 e vince alle Piramidi, in Siria (ma è fermato a S. Giovanni d'Acri), ad Abukir (dove la sua flotta era stata, il 1° agosto, distrutta da Nelson). Tornato in Francia con pochi seguaci (9 ottobre 1799), vi compie, un mese dopo (18 brumaio), un colpo di stato, con la dispersione del Consiglio dei Cinquecento e la sostituzione del Direttorio con un collegio di tre consoli, assumendo egli stesso il titolo di primo console. Ripresa la guerra contro i coalizzati, valica le Alpi (primavera 1800), vince a Marengo (14 giugno 1800) gli Austriaci costringendoli alla pace di Lunéville (9 febbraio 1801), cui seguono profonde modificazioni territoriali in Italia (annessione alla Francia di Piemonte, Elba, Piombino, Parma e Piacenza; costituzione del regno di Etruria); conclude con l'Inghilterra la pace di Amiens (25 marzo 1802). Console a vita (maggio 1802), sfuggito alla congiura di G. Cadoudal (1803), assume su proposta del senato la corona d'imperatore dei Francesi (Notre-Dame, 2 dicembre 1804) e poi quella di re d'Italia (duomo di Milano, 26 maggio 1805). Nei tre anni di pace (rotta, però, con l'Inghilterra già nel maggio 1803), spiega una grande attività ricostruttiva: strade, industrie, banche; ordinamento amministrativo, giudiziario, finanziario accentrato; pubblicazione del codice civile (21 marzo 1804; seguirono poi gli altri); creazione di una nuova nobiltà di spada e di toga; concordato con la S. Sede (16 luglio 1801). Formatasi, per ispirazione britannica, la 3ª coalizione (Inghilterra, Austria, Russia, Svezia, Napoli), la flotta franco-spagnola è battuta a Trafalgar (21 ottobre 1805) da quella inglese comandata da Nelson, ma Napoleone assedia e batte gli Austriaci a Ulma (15-20 ottobre), gli Austro-Russi ad Austerlitz (2 dicembre) e impone la pace di Presburgo (26 dicembre 1805: cessione di Venezia e altre terre austriache alla Francia e ai suoi alleati tedeschi). Assegna il Regno di Napoli (senza la Sicilia) al fratello Giuseppe, quello di Olanda al fratello Luigi, e forma la Confederazione del Reno (luglio 1806). Alla 4ª coalizione (Russia, Prussia, Inghilterra, Svezia) oppone le vittorie di Jena e Auerstedt (14 ottobre 1806) sui Prussiani, l'occupazione di Berlino e Varsavia, le vittorie sui Russi a Eylau (od. Bagrationovsk, 8 febbraio 1807) e Friedland (14 giugno) cui segue la pace di Tilsit (8 luglio 1807), vera divisione dell'Europa in sfere d'influenza tra Francia e Russia con l'adesione della Russia al blocco continentale contro l'Inghilterra (bandito il 21 novembre 1806), e con la formazione del granducato di Varsavia (al re di Sassonia) e del regno di Vestfalia (al fratello Girolamo). Messo in sospetto dall'atteggiamento della Spagna, la occupa (dal maggio 1808) e ne nomina re il fratello Giuseppe (sostituendolo a Napoli col cognato Gioacchino Murat); ma la guerriglia degli Spagnoli, indomabile, logora lentamente le sue forze militari, mentre la lotta contro la Chiesa (occupazione di Roma, febbraio 1808; imprigionamento del papa Pio VII, 5 luglio 1809) gli sottrae popolarità presso ampi settori sociali. Debella quindi, non senza fatica, in Baviera (19-23 aprile 1809) e a Wagram (6 luglio) la 5ª coalizione, capeggiata dall'Austria, e impone la pace di Schönbrunn (14 ottobre 1809), che segna l'apogeo della potenza napoleonica, per gli ampliamenti territoriali che il trattato e i successivi provvedimenti portano all'Impero francese e ai suoi satelliti. Coronamento della pace, dopo il ripudio della prima moglie, sono le nozze (1° aprile 1810) con Maria Luisa d'Austria e la nascita (20 marzo 1811) del "re di Roma". La Russia, allarmata per le mire napoleoniche, aderisce alla 6ª coalizione: Napoleone la invade (24 giugno 1812), vince a Borodino (7 settembre), occupa Mosca (14 settembre); ma la città è in preda alle fiamme e Napoleone è costretto a iniziare verso la Beresina una ritirata disastrosa, poi vera fuga, mentre governi e popoli di Russia, Prussia e infine d'Austria (10 agosto 1813) si sollevano contro di lui. Né l'offensiva ripresa nella Sassonia (maggio 1813), né le trattative con i coalizzati gli giovano; la sconfitta di Lipsia (16-19 ottobre 1813) lo costringe a sgombrare la Germania e a difendersi sul suolo francese (inverno 1813-14). Il 31 marzo 1814 gli Alleati occupano Parigi e il 6 aprile Napoleone abdica senza condizioni accettando il minuscolo dominio dell'isola d'Elba, ove giunge il 4 maggio 1814. Ma, sospettando che lo si voglia relegare più lontano dall'Italia e dall'Europa, sbarca con poco seguito presso Cannes (1° marzo 1815) e senza colpo ferire riconquista il potere a Parigi (20 marzo). Il tentativo dura solo cento giorni e crolla a Waterloo (18 giugno 1815). Dopo l'abdicazione (22 giugno), Napoleone si rifugia su una nave inglese: considerato prigioniero, è confinato, con pochi seguaci volontari, nell'isola di S. Elena, dove a Longwood, sotto la dura sorveglianza di Hudson Lowe, trascorre gli ultimi anni, minato dal cancro, dettando le sue memorie. Le sue ceneri furono riportate nel 1840 a Parigi, sotto la cupola degli Invalidi. La sconfitta definitiva di Napoleone ebbe per la Francia gravi conseguenze: occupata per tre anni dalle potenze nemiche, fu obbligata a pagare esose indennità di guerra; dopo un periodo di relativa pace sociale visse lo scoppio del malumore e della vendetta del mondo cattolico.


Murad Bey (1750 - 1801)

Capo mamelucco egiziano, comandante di cavalleria e governatore dell'Egitto per conto del Sultano ottomano assieme a Ibrahim Bey. La sua famiglia era originaria della Georgia. Aveva sposato una vedova ricchissima, e con il denaro della moglie era diventato generale. È descritto come un gigante circasso, massiccio, corpulento e pesante, dalla folta barba nera, capace di decapitare un bue con un solo colpo di scimitarra. Era prepotente e crudele, a volte codardo e perfido; ma sapeva anche essere forte, coraggioso e generoso. Non era uno stratega; infatti non aveva una gran scuola come comandante militare ma contava su buone doti d'intuito. Il suo genio militare era istintivo e fantasioso. A seguito della sua sconfitta contro il generale Napoleone Bonaparte nella famosa Battaglia delle piramidi (22 luglio 1798), Murad Bey venne costretto a emigrare nell'Alto Egitto, organizzando una breve guerriglia contro il generale Louis Charles Antoine Desaix de Veygoux della durata di circa un anno. Nel 1800, Murad Bey firmò la pace con il generale Jean Baptiste Kléber al Cairo dove morì di peste bubbonica l'anno seguente durante l'epidemia che vi scoppiò.

La genesi

Sarebbe difficile formarsi un'idea di tutti i mali che dovette sopportare l'armata nei diciassette giorni di cammino fino al Cairo, e soprattutto duranti le venti leghe di deserto, che ebbe a percorrere onde giungere fino al Nilo. Appena diretti a questa volta, uscimmo da Alessandria, incontrammo, per attraversare un deserto nudo come la palma della mano, ove non trovavasi ad ogni quattro o cinque leghe che un cattivo pozzo d'acqua salmastra. Immaginiamoci un'armata costretta a passare a traverso quelle orridissime pianure colpite dai raggi d'un sole infuocato, ed i soldati che marciavano sopra una sabbia ancor più infuocata carichi del pesante lor sacco, vestiti di lana e provveduti cadauno di viveri per cinque giorni. Dopo un'ora di cammino estenuati per l'eccessivo calore, e per il loro bagaglio, si alleggerivano gettando via i loro viveri, e non pensando che al presente senza prendersi briga dell'avvenire. Ben presto divorati dalla fame e dalla sete, più non trovavano né pane né acqua. In tal maniera era giuoco forza il trascinarsi fino a quattr'ore dopo mezzo dì, oppressi dal calore e tribolati dai beduini, che senza posa l'inseguirono nelle prime tre giornate di marcia. Ho veduti dei soldati morirsi di sete, d'indebolimento, e di calore; altri disperati alla vista dei patimenti, dai quali eran tormentati i loro fratelli d'armi, abbruciarsi le cervella. Non pochi volontarj ho veduti per l'eccessiva debolezza cader sulla polvere privi di vita. In questa lacrimevole marcia da Alessandria a Damonhour, ho offerto sino un luigi per un bicchier d'acqua; i soldati erano sul punto di recusar di marciare. Impegnati senza provvigioni e senz'acqua negli aridi deserti che circondano la Libia, noi vedevamo gli uomini i più vigorosi divorati dalla sete ed abbattuti dal calore soccombere sotto il peso delle loro armi. Improvvisamente credevamo scorger davanti a noi dei fiumi e degli stagni, ma ciò altro non era che l'effetto della fata morgana (mirage) che con specie di fenomeno, il quale mercè della più crudele illusione, sopportar ci faceva il supplizio di Tantalo. Ripiombando in tal guisa nella più orribil tristezza, ne resultava l'abbattimento e la perdita delle nostre forze, ch'io vidi giunte all'ultima estremità in alcuni dei nostri prodi, che quasi per estinzione perivano. Udii che uno di essi andava dicendo nell'atto di spirare, trovarsi egli in un inesprimibile benessere: era quella la morte dolce e tranquilla degli asfissi. Noi ce ne preservammo col mezzo di poche goccie di spirito divino d'Hofmann, di cui alcuni di noi avevamo avuta la fortunata previsione di provvedersi. Si desiderarono nello spazio di cinque a sei giorni cinque a seicento uomini tutti per la sete. Tanta era l'esasperazione dei soldati, che trascorrevano perfino a discorsi i più inconseguenti ed i più vili. Me ho uditi taluni esclamare, vedendo passare lo stato maggiore: "ecco là i carnefici dei francesi!", e mille altre siffatte parole. Ho veduti dei soldati darsi la morte sotto gli occhi del generalissimo, dicendogli: "ecco l'opera tua!".

In tal maniera giungemmo colla più gran pena il quarto giorno del viaggio a Damanhour, primo luogo dell'interno d'Egitto che ci offerì qualche lieve mezzo dì dissetarci. Fummo costretti a spigolar il poco che lasciato avevano le divisioni, dalle quali eravamo stati preceduti. Colà io mi riposai all'ombra d'alcuni palmieri, aspettandovi il quartier generale, che giunse nella sera dell'8 luglio. Due sinistri l'uno sull'altro ci colpirono; noi perdemmo il general Muireur, il quale avendo fatto acquisto d'un cavallo arabo, e volendolo provare fuori del campo, malgrado le nostre rimostranze, fu posto a morte e spogliato dai beduini, prima che uno dei posti avanzati d'infanteria volar potesse in di lui soccorso. Per un altro lato il generalissimo ricevette da un cavallo arabo un calcio, che gli cagionò alla destra gamba una forte contusione. Trovavasi fortunatamente al quartier generale il chirurgo in capo Larrey, il quale colle sue fasciature prevenne le conseguenze, che siffatto avvenimento avrebbe potuto portare. Nè ciò fu tutto. L'indomani all'uscire da Damanhour, Bonaparte accompagnato dal suo stato maggiore fu sul punto d'esser preso e trucidato da un corpo di mamelucchi, e d'arabi, distaccato da un altro corpo assai più considerevole, che aveva cercato inviluppare l'antiguardo del general Desaix. Il pronto soccorso della divisione, ed una prominenza, che aveva impedito ai nemici di scorgere il generale in capo, furono la nostra salute. L'armata intanto era giunta a Ramaniè, primo villaggio sul Nilo, ed ivi erasi quasi tutta precipitata nel fiume per dissetarsi. La vista del Nilo produsse sopra di noi una deliziosa impressione. Da quel momento si ebbero minori privazioni da sopportare, e meno penose furono le marce. Giunti la sera al luogo, ov'era determinata la riunione, ciascuno bagna vasi nella benefica onda, e tal bagni, ricreandoci, di nuove forze ci ristoravano. A Ramaniè ci raggiunse la flottiglia distaccata dalla nostra squadra, che sotto gli ordini del contrammiraglio Perrée rimontava ilNilo. Essa ci seguì nella direzione del nostro cammino alla volta del Cairo sulla riva occidentale del Nilo, che trovammo tutta sparsa di cocomeri. Somministrarono questi il principale alimento del soldato, avvegnaché con gran pena procurar ci potemmo qualche poco di salvaggiume, e della carne di bufalo: l'acqua del Nilo era l'unica nostra bevanda. Non di rado il generale in capo stette senza cibo per dodici e ben anco diciotto ore, perché il soldato, arrivando il primo, tutto poneva a sacco e consumava. Intanto costeggiavamo il Nilo si piccole giornate, incontrando deboli corpi di mamelucchi, che al nostro avvicinarsi davansi tostamente alla fuga.

Giunti a Salamè il 12 luglio, ebbe il generalissimo notizia che questi ultimi in numero di 4000 l'aspettavano al villaggio di Chobrâkhyt sulla ripa del Nilo, appoggiando la loro sinistra al fiume, ov'essi avevano una flottiglia di una dozzina di barche cannoniere, e che ivi eransi fortificati con grossolane trincee armate di cannoni. Un altra spia annunziò che i Bei stavano per porsi in marcia alla nostra volta colle loro forze riunite, e che il giorno seguente saremmo stati attaccati. Il generalissimo dispose incontanente la marcia dell'armata in ordine di battaglia, formando d'ogni divisione un quadrato difeso dalla sua artiglieria, e prese tutte le necessarie precauzioni, onde non esser nè sorpreso, ne posto in disordine, al qual'oggetto distaccò tre scialuppe cannoniere alla scoperta. Mourad Bey, trincerato al villaggio d'Embabéh, aveva intimato a tutti gli abitanti del Cairo d'accorrere a Boulacq per vedere la distruzione dei cristiani, i quali dietro la relazione d'uno dei suoi spioni erano per mezzo di catene l'un all' altro ristretti nella loro linea di battaglia. E l'istesso spione ricercato da Mourad intorno ul numero dei francesi, prese un pugno di sabbia, e gettollo per l'aria. Le divisioni dell'esercito essendosi poste in marcia, la nostra flottiglia risalì il Nilo e gettò l'ancora in faccia del villaggio, ov'erano riuniti i mamelucchi. Allo spuntar del giorno eglino spiegarono tutte le loro forze girando intorno all'armata ora di galoppo, ora di passo in bande di dieci, di trenta, di sessanta uomini, e venti volte tentando di venire alla carica, ma per ogni parte trovando i nostri battaglioni coperti da un muro di baionette, e difesi dall'artiglieria. I mamelucchi passarono in tal modo l'intiera giornata, tenendoci esposti ad un sole ardentissimo. Il generale in capo temporeggiò per conoscere il nemico, e porsi al fatto della sua maniera di combattere.

Sono i mamelucchi provvisti d'ottimi cavalli arabi, e d'eccellenti armature; ma niuna tattica, niun'elemento di guerra li guida, sebbene mostrino un'eccessiva intrepidezza. Quella prima giornata non ebbe veruna conseguenza, perciocchè essi dopo aver perduto una ventina d'uomini, i quali cercaron la morte precipitandosi sulle nostre file, si determinarono alla ritirata. Pur'uno non volle arrendersi. Stupefatti per l'ordine, che presentavano le nostre colonne, ad un altro giorno differirono la decisione delle egiziane sorti, lasciandoci avanzare alla volta del Cairo. L'indomani allo spuntar del giorno ebbi l'incarico dallo stato maggiore di portare un ordine all'ajutante generale Boyer, che trovavasi a bordo d'una scialuppa cannoniera, cui era commesso l'esplorare. Annunziavasi l'imminente arrivo della flottiglia dei mamelucchi. Salimmo sull'albero della cannoniera, e realmente scorgemmo sei scialuppe turche, che dirigevansi verso di noi; in quel momento sopraggiunse una delle nostre mezze galere a rinforzarci. Aveva io appena posto piede a terra che il combattimento fra le due flotte ingaggiossi, sul primo con nostro svantaggio, a segno che cinque scialuppe turche, dopo aver fatto un fuoco terribile sopra di noi, vennero all'abbordaggio. Noi fummo astretti ed abbandonar tre scialuppe, ed a manuvrare dalla banda, ove minori erano le forze del nemico. Avanzavasi in questo mentre la nostra armata, per il che fu tratta d'impaccio la flottiglia, ed una cannoniera turca saltò in aria. Eravamo allora tre sole leghe lontani dal Cairo, e cinque dalle famose Piramidi, delle quali scorgevasi la sommità.

La battaglia

Già i mamelucchi, che stanziavano sulla manca riva del Nilo al numero di 4000 uomini a cavallo, marciavano a lento passo verso di noi per darci battaglia. Aggiraronsi da prima intorno alle nostre divisioni disposte in quadrati, senza che riuscisse loro sopra alcuna di esse il menomo attacco; la giornata si consumò in iscaramucce fino a tre ore pomeridiane. Ci accorgemmo allora che i mamelucchi facevano un movimento. La nostra armata appoggiava il suo destro lato alle Piramidi, e la sinistra al Nilo presso il villaggio d'Embabéh trincerato dal nemico. Allora cedendo alla voce del loro capo precipitaronsi eglino sopra uno scelto esercito; ed il loro assato fu un atto di furore, di rabbia, di disperazione. Il primo impeto fu diretto contro le divisioni Desaix, e Reynier. I soldati di quelle due divisioni stretti nei loro quadrati gli ricevettero con intrepidezza, e quando li videro giunti alla distanza di dieci passi, fecero sopra di essi un fuoco di fila, che ne atterrò presso a dugento; compiè l'opera la metraglia. Si volsero quindi contro la divisione Bon, che in pari modo gli accolse. Finalmente dopo reiterati inutili sforzi presero la fuga, lasciati avendo sette o ottocento uomini sul campo; dugento volendo passare a nuoto il Nilo si annegarono. Il villaggio d'Embabéh fu tosto investito, e preso dai nostri soldati, i quali come sul campo di battaglia, ove si arricchirono colle spoglie dei mamelucchi, vi fecero un pingue bottino.

Le conseguenze

Quella valorosa milìzia non aveva opposto alla nostra perfetta disciplina che un coraggio ardito ed inconsiderato. Noi ispirammo una grande idea del la nostra tattica ad un nemico, che non ne aveva alcuna, e che non sapeva in altra guisa guerreggiare, che per le superiorità delle armi, l'agilità e la sveltezza, cioè a dire combattendo da corpo a corpo; nel rimanente senz'ordine, senza disciplina, non sapendo perfino marciare in isquadroni, e soltanto piombando sul nemico alla maniera delle orde selvagge, come flutti scatenati dalla tempesta.



Tratto da:
"Memorie istoriche sopra la spedizione in Egitto di N. Bonaparte", Volumes 1-3, Niello Sargy, Firenze, 1834.