Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Roselle

301 a.C.

Il dittatore

Marco Valerio Corvo (371 a.C. circa - 285 a.C. circa)

Uomo politico e comandante militare romano, Marco Valerio, in qualità di tribuno militare, fu nel 349 a.C. compagno di Lucio Furio Camillo nella guerra contro i Galli ed in questa occasione acquisì il cognomen di Corvus a causa di un duello contro un nemico gigantesco che vinse con l'aiuto di un corvo. L'anno dopo il 348 a.C., sebbene avesse solo 23 anni, fu eletto console assieme a Marco Popilio Lenate, nel quarto consolato di quest'ultimo. Durante questo consolato fu stipulato il secondo trattato tra Roma e Cartagine. Nel 346 a.C. fu eletto console per la seconda volta, con il collega Gaio Petelio Libone Visolo. A Valerio fu affidata la campagna militare con i Volsci, che cercavano di trovare alleati tra i Latini in funzione anit-romana. I Romani sbaragliarono i Volsci in campo aperto, e poi ottennero la resa di Satrico, che, presa, fu rasa al suolo. Valerio portò in trionfo oltre 4.000 soldati arresisi a Satrico. Console per la terza volta nel 343 a.C. assieme Aulo Cornelio Cosso Arvina, fu inviato al comando delle truppe romane in Campania, quando Roma dichiarò guerra ai Sanniti, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima guerra sannitica. Valerio Corvo condusse i Romani alla vittoria nella battaglia del Monte Gauro e in quella nei pressi di Sessuola, ottenendo per questo il trionfo. Nel 342 fu nominato dittatore e soffocò, con misure miti e concilianti, una rivolta dei soldati messi a presidio di Capua, durante la prima guerra sannitica, evitando così quella che avrebbe potuto trasformarsi in una guerra civile. Nel 335, fu eletto console per la quarta volta, con Marco Atilio Regolo Caleno. A Marco Valerio fu affidata la campagna contro gli Ausoni, che sconfisse sotto le mura di Cales, che fu espugnata. Lasciata una guarnigione in città, tornò a Roma per celebrare il trionfo. Fu dittatore di nuovo nel 301 a.C., per fronteggiare la contemporanea sollevazione di Etruschi e Marsi Prima rivolse l'esercito romano contro i Marsi, sbaragliandoli in un'unica battaglia. Poi, in seguito ad un'imboscata etrusca, di cui fu vittima Marco Emilio Paolo, da lui scelto come magister equitum, effettuò una nuova leva a Roma, per poi dirigersi in pieno territorio etrusco, nel territorio di Roselle. Qui, dopo aver evitato di cadere in una nuova imboscata degli Etruschi, i Romani vinsero lo scontro in campo aperto. Agli Etruschi fu concessa una tregua di due anni, e il dittatore celebrò il trionfo per la vittoria. Fu poi console nel 300 a.C., con il collega console Quinto Appuleio Pansa; Marco guidò una campagna militare di scarsa importanza contro gli Equi. Durante il consolato i Plebei ottennero di poter eleggere quattro pontefici e cinque auguri, da affiancare ai quattro pontefici e quattro auguri patrizi. Nel 299 a.C. fu console suffectus, a causa dell'improvvisa morte del console Tito Manlio Torquato (console 299 a.C.), 46 anni dopo la prima volta quindi a 72 anni. Condusse l'ultima campagna contro gli Etruschi, i quali furono talmente impauriti dalla sua presenza che rifiutarono di scendere in campo aperto, nonostante i Romani devastassero e razziassero le loro campagne. Ritiratosi in campagna morì coltivando una sua proprietà a 100 anni.

La genesi

Nello stesso anno a Roma venne stipulato un trattato con gli abitanti di Vesta giunti con una richiesta di amicizia. Ci furono poi numerose ragioni di allarme. Arrivò la notizia che l'Etruria si stava ribellando a seguito di un'insurrezione scoppiata ad Arezzo, dove l'influente famiglia dei Cilni, odiata dagli Aretini per le ricchezze che possedeva, stava per essere scacciata con la forza dalla città. Nel contempo fu annunciato che i Marsi stavano difendendo con vigore la terra sulla quale era stata fondata la colonia di Carseoli, costituita da 4.000 uomini. Per far fronte a questi disordini, venne nominato dittatore Marco Valerio Massimo, che scelse come maestro di cavalleria Marco Emilio Paolo. Personalmente preferisco questa versione dei fatti a quella secondo la quale Quinto Fabio, non ostante l'età e le molte cariche ricoperte, sarebbe stato subordinato a Valerio. D'altra parte sarei portato a credere che l'errore sia dovuto alla confusione creata dal soprannome Massimo. Uscito da Roma alla guida dell'esercito, il dittatore sbaragliò i Marsi con un'unica battaglia. Dopo averli costretti a barricarsi all'interno delle loro città fortificate, nel giro di pochi giorni conquistò Milionia, Plestina e Fresilia. Condannò poi i Marsi alla perdita di parte del territorio, rinnovando però il trattato di alleanza con loro. Teatro delle operazioni fu in seguito l'Etruria. Mentre il dittatore si era recato a Roma per il rinnovo degli auspici, il maestro di cavalleria cadde in un'imboscata mentre usciva allo scoperto per cercare rifornimenti: perse alcune insegne, venne risospinto nell'accampamento, dopo un orribile massacro e la fuga vergognosa dei suoi uomini. Questa reazione terrorizzata non può essere attribuita a Fabio, e non solo perché se qualche altra dote più di altre gli valse il soprannome di Massimo questa fu certo la perizia strategica in guerra, ma anche perché non si sarebbe mai lasciato trascinare allo scontro senza un preciso ordine del dittatore, memore com'era della severità di Papirio.

Quando la sconfitta venne annunciata a Roma, la reazione fu un panico sproporzionato alla realtà dei fatti. Come se l'esercito fosse stato fatto a pezzi, venne proclamata la sospensione delle attività giudiziarie, vennero piazzate sentinelle alle porte e fissati turni di vigilanza nei vari quartieri, mentre lungo il perimetro delle mura furono accumulati armi e proiettili. Dopo aver costretto tutti i giovani a prestare giuramento militare, il dittatore raggiunse l'esercito e trovò che la situazione era meno preoccupante di quanto non si aspettasse, e che il maestro di cavalleria aveva curato di rimettere tutto a posto: il campo era stato trasferito in un punto più sicuro, le coorti che avevano perduto le insegne erano state collocate al di là della trincea e non avevano tende, mentre l'esercito era impaziente di gettarsi nella mischia per riscattare quanto prima l'onta subita. Il dittatore fece pertanto spostare il campo più avanti, nel territorio di Roselle. I nemici lo seguirono e, pur nutrendo dopo la vittoria grosse speranze di avere la meglio anche in un confronto in campo aperto, ciò nonostante ricorsero di nuovo alla tecnica dell'imboscata, di cui già si erano avvalsi con successo. Non lontano dall'accampamento romano c'erano le case diroccate di un villaggio messo a ferro e fuoco nel corso dei saccheggi alle campagne. I soldati nemici vi si andarono a nascondere, spingendo del bestiame di fronte a un presidio romano comandato dal luogotenente Gneo Fulvio. Poiché dalla postazione romana nessuno si lasciava attirare dall'esca, uno dei pastori arrivò fin sotto i dispositivi di difesa romani e gridando domandò ai compagni impegnati a sospingere con grande esitazione il bestiame fuori dai ruderi del villaggio che cosa avessero mai da aspettare, dato che potevano tranquillamente far passare gli animali attraverso l'accampamento romano. Alcuni soldati provenienti da Cere tradussero queste parole al luogotenente suscitando grande sdegno nei soldati di tutti i reparti, i quali però non osavano prendere alcuna iniziativa senza l'ordine del comandante; quest'ultimo ordinò allora agli interpreti di prestare attenzione se la lingua parlata da quei pastori fosse più simile a quella delle campagne o a quella di città. Quando gli venne riferito che l'inflessione della parlata, l'aspetto esteriore e la carnagione erano troppo raffinati per dei pastori, egli disse: "Andate, dite pure che rivelino il tranello che hanno cercato invano di nascondere: ormai i Romani sono al corrente di tutto, e ingannarli è difficile quanto superarli con le armi". Quando i sedicenti pastori sentirono queste parole e le andarono a riferire agli uomini pronti all'imboscata, i nemici saltarono immediatamente fuori dai nascondigli, e avanzarono in assetto da guerra verso la pianura che si apriva alla vista nella sua estensione. L'esercito schierato diede al luogotenente l'impressione di essere troppo massiccio perché il suo presidio fosse in grado di affrontarlo. Per questo mandò in fretta a chiedere aiuti al dittatore, sostenendo nel frattempo da solo l'urto dei nemici.

La battaglia

Quando il dittatore ricevette il messaggio, ordinò ai soldati di uscire dall'accampamento e di seguirlo con le armi in pugno. Occorse meno tempo ad eseguire gli ordini che a impartirli. Gli uomini afferrarono in un attimo armi e insegne, e non era facile impedire che partissero immediatamente di corsa. A pungolarli erano tanto la rabbia per la sconfitta subita quanto il frastuono che arrivava sempre più forte dal campo di battaglia a misura che lo scontro aumentava di intensità. Così si incitavano l'uno con l'altro, esortando gli alfieri ad accelerare l'andatura. Ma il dittatore, più li vedeva impazienti, più era risoluto nell'ordinar loro di rallentare la marcia e di procedere lentamente. Dal canto loro gli Etruschi si erano gettati nella mischia impiegando subito tutte le loro forze. Un messaggero dopo l'altro arrivavano a riferire al dittatore che tutte le legioni etrusche stavano prendendo parte alla battaglia e che il presidio romano non era più in grado di resistere. Egli stesso poté vedere da un'altura in quali difficoltà si dibattessero i suoi. Confidando però nel fatto che il luogotenente fosse ancora in grado di reggere lo scontro, pur essendo già così vicino da poter accorrere in aiuto in caso di pericolo, volle che il nemico si sfiancasse il più possibile, in modo da poterlo aggredire con le truppe fresche quando ormai fosse allo stremo delle forze. Pur avanzando molto lentamente, restava ora poco spazio per lanciare la carica, specialmente per i cavalieri. In testa marciavano le insegne della fanteria, per evitare che il nemico avesse a sospettare mosse a sorpresa o tranelli. Ma il dittatore aveva lasciato intervalli tra le file di fanti, in modo che ci fosse spazio a sufficienza per far caricare i cavalli. Non appena si levò il grido di battaglia, i cavalieri si lanciarono a briglia sciolta contro i nemici che, impreparati a resistere all'urto imperioso della cavalleria, vennero colti da un attacco improvviso di panico. Così, anche se l'aiuto per poco non arrivava troppo tardi agli uomini che stavano per essere sopraffatti, ora poterono finalmente riposarsi per bene. Infatti subentrarono nel combattimento i soldati freschi, e lo scontro non fu più né incerto né si trascinò per le lunghe. Travolti, i nemici puntarono verso l'accampamento, e cedendo ai Romani che stavano già facendo breccia si andarono ad ammassare sul lato opposto del campo. I fuggitivi restarono intrappolati negli stretti passaggi delle porte: molti salivano sulla trincea e sul terrapieno, sperando di difendersi meglio da quella posizione elevata o di scavalcarne il perimetro in qualche punto e scappare. Ma per puro caso avvenne che il terrapieno, non essendosi ancora rassodato per bene, a causa del peso dei soldati che vi si trovavano al di sopra franò in un punto sbriciolandosi nel fossato sottostante: sfruttando quella breccia i nemici - più numerosi quelli disarmati che quelli armati - si precipitarono fuori urlando che gli dei avevano voluto aprire loro una via di fuga.

Le conseguenze

Quella battaglia fu la seconda occasione in cui la potenza etrusca venne sopraffatta, e il dittatore concesse agli sconfitti di mandare ambasciatori a Roma per discutere la pace, a patto che pagassero lo stipendio di un anno all'esercito e lo rifornissero di viveri per due mesi. La pace fu negata, mentre venne concessa una tregua di due anni. Il dittatore tornò a Roma in trionfo. Alcuni autori riferiscono che il dittatore riportò la pace in Etruria senza dover combattere battaglie degne di menzione, limitandosi a soffocare l'insurrezione degli Aretini grazie a una riconciliazione della plebe con la famiglia dei Cilni. Dopo la dittatura, Marco Valerio venne eletto console. Secondo alcune fonti egli venne eletto pur non avendo presentato la candidatura e per di più restando assente, e a presiedere quelle elezioni fu un interrè. Ciò su cui tutti si trovano d'accordo, è che egli detenne il consolato insieme ad Apuleio Pansa.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro X