Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Mursivano

Luglio 1101

Il vescovo crociato

Anselmo di Bovisio

Galvano Flamma (Chronicon Maius, p. 194) lo dice discendente dei valvassori di Bovisio, località della pieve di besio. Fu preposto della chiesa di S. Lorenzo e, nel 1097, per designazione del legato pontificio cardinale Armanno, vescovo eletto di Brescia, fu chiamato a reggere l'arcidiocesi ambrosiana. Il momento era particolarmente grave per la situazione politico-religiosa della Lombardia: il vescovo di parte imperiale Landolfo da Carcano aveva sottratto il Sottoceneri alla giurisdizione del cattolico Guido Grimoldi vescovo, di Como e si profilava il pericolo che verso di lui convergessero le simpatie dei milites ambrosiani. Sappiamo da Landolfo Iuniore (p. 1) che, quando il legato pontificio giunse a Milano per presiedere all'elezione dell'arcivescovo, il candidato ufficiale del clero milanese era Landolfa da Baggio preposito dei canonici di S. Ambrogio, uomo nobile di vita e di costumi. Armanno, che forse vide in lui lo strumento della classe feudale avversa ad ogni ingerenza romana nella metropoli lombarda, gli rifiutò la sua approvazione. Anche il popolo milanese dimostrò con atti di violenza di essere contrario a tale scelta e soltanto quando fu designato Anselmo di Bovisio tornò la pace. Anselmo, che non aveva alcun ordine sacro, fu consacrato il 3 novembre 1097 da vescovi estranei, perché i suffraganei, forse scismatici, erano assenti. Non fu chiesta l'investitura né ad Enrico IV, né a suo figlio Corrado; l'imperatore aveva lasciato l'Italia in quell'anno e Corrado, coronato re con l'appoggio del partito papale, aveva promesso di astenersi da interventi. Fin dall'inizio dei suo episcopato Anselmo agì in piena conformità con le direttive della Chiesa centrale. Egli scomunicò Oberto soprannominato Baltrico, vescovo scismatico di Brescia, consacrando in sua vece il suddetto Armanno e, dal 5 al 7 aprile 1098, tenne a Milano un sinodo molto importante, per sistemare le irregolarità delle diocesi sottoposte alla sua giurisdizione (Giulini, pp. 643-650). Convennero in S. Tecla accanto all'arcivescovo i suffraganei Azzone di Acqui, Armanno di Brescia, Ubaldo di Mantova e altri le cui città erano, come Milano, fedeli al pontefice. Furono ripetute le condanne contro la simonia, si rinnovarono le scomuniche contro i vescovi di parte imperiale, furono convalidate le ordinazioni compiute da Anselmo III, mentre fu ribadita la nullità di quelle fatte da Tedaldo. Può essere compreso nel programma episcopale di repressione degli abusi anche il provvedimento per cui, il 9 aprile, si vietò a chiunque sotto pena di scomunica di sottrarre i redditi della chiesa di S. Vittore in Varese, proprietà arcivescovile infeudata a dei milites (Giulini, pp. 650 s.). Nell'anno successivo, il 1 febbraio, Anselmo risolse la vertenza tra i vicini della chiesa di S. Protaso e l'abate di S. Simpliciano ed il 15 marzo conciliò coi loro vicini le monache del monastero di S. Maria d'Aurona. Egli creava in tal modo le condizioni per l'attuazione di un più vasto programma suggerito dallo stesso pontefice.

Infatti Urbano II, il promotore della prima crociata, voleva affidare al metropolita lombardo il compito di condurre nuove forze contro gli infedeli (Jaffé, n. 5795). Pare che Anselmo si preparasse alla partenza fin dal 1098, allorché provvide alla consacrazione di Grosolano vescovo eletto di Savona, che egli voleva designare come vicario in sua assenza. Nell'estate dell'anno 1099 ritornarono in città alcuni crociati milanesi che avevano combattuto in Oriente. Il 3 novembre Anselmo trasferì dalla Chiesa di S. Celso al monastero di S. Dionigi il corpo di s. Arialdo e il ricordo dei martire patarino aggiunse vigore allo spirito missionario dei Milanesi. Intanto l'arcivescovo, usurpando un diritto regio che il sovrano non era allora in grado di rivendicare, visitava terre e castelli della Lombardia e devolveva a beneficio della crociata le rendite che il clero era solito attingere dai proventi delle feste religiose. Il 15 luglio 1100 fu celebrato con solenni cerimonie l'anniversario della conquista di Gerusalemme. Anselmo, applicando il decreto della tregua di Dio, istituì presso la chiesa recentemente dedicata al S. Sepolcro una festa annuale e, davanti al magistrato cittadino, stabilì che si tenesse, in quei giorni un mercato esente da ogni tributo (Giulini, pp. 684-688). Il 13 settembre si mise in cammino con un esercito (secondo le fonti di cinquantamila uomini), guidato da Alberto conte di Biandrate e da altri nobili lombardi. Accompagnavano Anselmo Guglielmo arcivescovo di Pavia e i preposti delle chiese di S. Ambrogio e di S. Nazaro. Probabilmente il viaggio avvenne per via di terra: i crociati svernarono in Bulgaria e passarono quindi in Asia Minore. Poco lontano da Nicomedia i Lombardi si unirono ai Francesi guidati da Raimondo di Saint-Gilles conte di Tolosa e insieme con essi procedettero verso la meta prefissata. I cronisti sono concordi nell'affermare che l'esercito in marcia subì una gravissima sconfitta, ma discordano nell'indicare la località precisa; parlano di una terra "Coritiana"che è difficilmente identificabile; pare comunque che si siano avuti due scontri, uno presso Kastamonu (Anatolia) e l'altro tra Merzifon e Amasya (Anatolia; cfr. Barni, p. 257), ambedue sfavorevoli per l'esercito francolombardo. Moltissimi crociati rimasero sul campo di battaglia; l'arcivescovo Anselmo poté ritornare a Costantinopoli, ma, sfinito dalle ferite ricevute combattendo, morì colà il 30 settembre 1101 e fu sepolto dal preposto di S. Nazaro nella chiesa di S. Nicola. Soltanto nel 1102 giunse a Milano la notizia della sua morte.

La genesi

Dopo il successo di Ascalona, i Crociati lombardi furono primi a porsi in cammino per le terre natie, e giunti in Bulgaria e nelle greche provincie, dimenticati i disastri dèlle masnade dell'Eremita, diedersi a far violenza in ogni luogo, spogliando e maltrattando gli abitatori, facendo prede di tori e montoni, e, (il che, secondo Alberto Aquense, era più esecrando e deplorabile ) cibandosi di carne nel santo tempo di quaresima. Giunto a Costantinopoli, nacquervi per causa loro gravi disordini; perché giusta le croniche contemporanee, non avendo il greco imperatore provvisto di guardie e di milizie ne'luoghi opportuni, per dove i nuovi pellegrini avevano a passare, intervenne che, essi pervenuti alle mura della città, e trovando le porte chiuse e senza guardia, scalassero il primo muro presso la porta di Corsia, che ora è detta Egri Capii; del che avvisato l'Imperatore fece subito scatenare e stimolare incontro a quelli i leoni e i leopardi della sua corte: le quali belve feroci, assalita la moltitudine de'pellegrini cominciarono a farne strage, e i pellegrini postisi sulle difese con lancie e giavellotti, tutti i lioni ammazzarono; ma i leopardi meno coraggiosi, sendosene fuggiti, arrampicavansi come gatti per le mura, da onde discesero liberamente nella città. Divolgatasi per Costantinopoli questa novella maniera di zuffa, insorse gran tumulto: molti pellegrini con martellio altri cotali strumenti di ferro avviaronsi al palagio imperiale in piazza Santa Argene, penetraronvi dentro, e su i primi furori ammazzarono un parente dell'Imperatore. Ammazzarono anco di poi, e ne fanno commemorazione gli storici , un bellissimo lione; agevole quanto un cane e nel palagio caro a tutti. Fecero i capi de'Crociati ogni prova per contenerli, ma l'indisciplina non lasciava alcun luogo al rispetto: e Alessio che avevali della sua collera minacciati, videsi costretto a implorarne pace e a cacciarli oltre lo stretto di San Giorgio con preghiere e grossi donativi.

Accamparonsi adunque i Lombardi Crociati nelle pianure di Civitota e di Nicomedia, ove gli sopraggiunsero, il contestabile Corrado con scelto corpo di Teutoni, il duca di Borgogna, il conte di Carnosa, e i vescovi di Laone e di Soassone con i Crociati Francesi venuti dalla Loira, dalla Senna e dalla Mosa: mista moltitudine di pellegrini, che tra soldati, monaci, chierici, donne e fanciulli aggiungeva al numero di dugento sessanta mila. Il conte di Tolosa che da Laodicea era a Costantinopoli venuto, ebbe commessione di condurre questi nuovi pellegrini per l'Asia Minore. Ma i Lombardi massimamente presumevano tanto di sè , che non si proponevano meno che di assediare Bagdad, e di conquistare il Corasano, prima di andare a Gerusalemme. Invano i loro capi volevano guidarli per la via già da Goffredo e da' suoi compagni tenuta; eglino costrinsero Raimondo a prendere il cammino della Cappadocia e della Mesopotamia. Appropinquavansi le feste di Pentecoste dell'anno 1101, allorchè partironsi da Nicomedia i nuovi Crociati, e camminato per tre settimane ben provvisti di viveri, e senza trovar nimici, gonfiaronsi dismisuratamente d'orgoglio e di cieca sicuranza. La vigilia della festa di San Giambatista (secondo Alberto Aquense) giunsero alle falde di altissime montagne e in profondissime valli, e dipoi alla fortezza di Ancras, abitata e difesa da' Turchi. Presero d'assalto la cittadella e passarono il presidio per le armi. Fatto ciò, mossero contro un'altra fortezza, poche miglia distante, detta dagli storici Gangras ovvero Gangara: la quale situata sopra eminentissima rupe, sostenne i loro ferocissimi assalti. La città detta dai cronisti Ancras, è la stessa che si disse Andra e che i moderni abitatori appellano Angora; alla quale si va da Costantinopoli in cinque giorni; sebbene per giungervi i Crociati impiegassero tre settimane, a cagione della loro geografica ignoranza. Le ruine della fortezza di Gangara esistono tuttavia e i Turchi appellano quel luogo Chiancharì: e qui appunto ebbero principio gli infortuni di questa novella crociata. I pellegrini entrarono nelle montagne della Paflagonia, sempre però perseguitati e bersagliati dai Turchi; onde quelli che la stanchezza facea tardi nel cammino, e quelli che per procacciare viveri, dal corpo dell'esercito si discostarono, divenivano vittime de' barbari. Si ebbe ricorso allo spediedte di partire l'esercito in alcuni corpi, dei quali ognuno dovea vigilare alla sicurezza de' pellegrini; e perché d'ogni nazione erasi formato un corpo, talora toccava a Borgognoni il contrastare agli assalti e alle insidie del nimico, talora ai Provenzali, talora ai Lombardi e talora ai Francesi. Ma nonostante questi provvedimenti, molti della inerme moltitudine rimanevansi trucidati sul cammino, nè passava giorno che di gran numero non si compiangesse la perdita. Per la qual cosa l'esercito si ricompose nuovamente in un sol corpo, con che venne ad esser meno esposto agli assalti de' Turchi, e più a quelli della lume. Il danaro ( dicono le croniche ) divenne cosa inutile, mancando in che spenderlo.

Trovavansi i pellegrini circondati da ogni parte da nude e scoscese rupi e da aride montagne, e simili a grande carovana, precedevano a caso e senza guida in traccia di fonti, di pasture o almeno di quel poco terreno che lo squallore della sterilità non coprisse. Cresceva ogni giorno la fame, ed eccettuati alcuni ricchi che avevano fatta provigione per sé a Civitota e a Nicomedia di farina, carni prosciugate e lardo, tutti gli altri mancavano affatto di viveri, ed erano ridotti a sostentare la misera vita con grani e frutti, non mai veduti e con erbe e radici selvatiche. In tali strettezze mille fanti eransi inoltrati fin presso Constamna, turchescamente Castamun e avendo trovato un campo d'orzo, ma non per anco maturo, abbrustolaronlo al fuoco e il si mangiarono. Trovarono anco certi arbusti che producono frutti al sapore molto amari e che i viaggiatori dicono grani gialli, questi immaginarono rendere commestibili con la cottura e lo feciono. Dopo che ridottisi in una valle per farvi il loro pasto, ecco che improvvisamente si veggono colti e circondati da grande moltitudine di Turchi, i quali incendiate le capanne e le erbe secche di che il luogo era stipato, tutti quei mille fanti, non altrimenti che essi dell'orzo fatto avevano, abbrustolarono o nel fumo soffocarono. Giunta poi la novella di ciò all'esercito, dice Alberto Aqnense, che i Cristiani principi ne fossero di spavento compresi, riconoscendo che le cose le quali da discosto agevolissime si mostrano, da vicino poi il più delle volte in tante difficoltà eccedono da sbigottire la costanza di quantunque più fermo animo. Così i Crociati dopo aver errato per alcune settimane in quel labirinto di montagne della Paflagonia, posero finalmente il campo in vasta pianura non denominata dai Cronisti , ma probabilmente quella detta dai Turchi Osmandgic. Ivi l'esercito trovossi alle mani con gran moltitudine di Turcomanni, venuti dal Tigri e dall'Eufrate, per preciderli il cammino della Mesopotamia e della Siria. Nella prima settimana del luglio accaddero molte zuffe nelle quali i Cristiani, osservarono rigorosamente gli ordini, né potettero essere scommessi dal nemico; perlochè preparavansi a muovere contro Marac (la piccola città di Mursivano) nella quale fazione occuparono dapprima una fortezza, che solo due miglia distava dal loro campo, quando improvvisamente abbandonati dalla seconda fortuna, caddero in grande abisso di calamità. Un di di domenica (dice la storia contemporanea) il vescovo di Milano, annunziò imminente una gran battaglia; andò per le ordinanze dell'esercito, esortando i soldati al coraggio e mostrando loro il braccio del beato Ambrogio. Raimondo di san Gille fece pure portare davanti ai soldati la famosa Lancia trovata in Antiochia. Tutti confessarono le loro peccata e n'ebbero remissione in nome di Gesù Cristo.

La battaglia

L'ordinanza delle schiere fu fatta per nazioni. I Lombardi che erano nella fronte sostennero il primo urto de' Turchi e per più ore combatterono strenuamente, ma finalmente stanchi d'inseguire il nimico che iteratamente simulava la fuga e ritornava all'assalto, ritornaronsi alle loro tende con lo stendardo dell'esercito. Il contestabile Corrado, ritiratisi i Lombardi, mosse contro i Turchi co' suoi Sassoni, Bavaresi, Lorenesi e Teutoni, e combattè fino a mezzogiorno, ma sopraffatto da incessante piovere di strali, rifinito dalla fame e dalla fatica, seguitò l'esempio de' Crociati Italiani. Stefano co'suoi Borgognoni, entrò terzo in battaglia e perdutovi gran numero de' suoi, similmente si ritirò. La vittoria pendeva in favore de' Turchi, quando il conte di Bloase e il vescovo di Laone subentrarono ai partiti, e sostennero il nimico fino a sera allorchè anco essi, vinti dalla fatica, ritornaronsi nel campo avendo perduti molti de' loro. Ultimo a combattere fu Raimondo di San Gille e ferocemente mischiava le mani, ma perduta quasi tutta la sua cavalleria provenzale, abbandonato da' suoi Turcopoli, riparavasi dai perseguitatori Turchi sopra altissima rupe, ne sariasi però salvato se generosamente non l'avesse soccorso il duca di Borgogna. Sorta la notte ritiraronsi i due eserciti ne' loro campi che fra loro non più che due mila passi distavano, sendo ambidue delle loro perdite sgomenti e poco confidenti della vittoria. Quando improvviso corre voce fra i Cristiani che Raimondo di San Gille siasi fuggito co' suoi Turcopoli, e abbia presa la strada di Sinope; al qual rumore, panico terrore invade i pellegrini e i più valorosi disperano dello scampo. Succede fuga generale, del che avvisati i Turchi che similmente disponevansi alla ritirata, ripresero animo, e all'alba posersi a inseguire i fuggitivi, e parte di loro con ispaventevoli grida precipitaronsi nel campo cristiano, nel quale non trovavansi più altri che donne imbelli, trepidanti verginette, fanciulli e malati. Qual fosse la disperazione e lo spavento di quelle meschinelle e di quei disventurati abbandonati dai mariti, dai padri, dai fratelli, dagli amici, e vedendosi preda di quei ferocissimi Turchi le cui rabbuffate chiome e il barbaro aspetto ( secondo l'espressione di Alberto Aquense ) facevanli parer loro simili a neri e immondi spiriti, meglio potrà il lettore immaginarlo, ch'io dirlo.

Le conseguenze

Quelli che inseguivano i fuggitivi, per lo spazio di tre miglia, camminavano su i bisanti, su i vasi d'oro e d'argento, sulla porpora e i drappi di seta; ma non penarono molto a raggiungerli e farne miserevole strage; sicchè per tutte le regioni che a Sinope e al Mar Nero si stendono, non fu luogo abitato e diserto, non gora di monti, non pianura che il sangue cristiano non irrigasse; sì grande essendo la carnificina che le croniche contemporanee, numerano da meglio che sessantamila pellegrini spenti o dal ferro de' Turchi o dalla fame o dalla lassitudine e dalla disperazione.



Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842