Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Mentana

3 novembre 1867

Gli avversari

Giuseppe Garibaldi

Nacque in Nizza Marittima il 4 luglio 1807, secondogenito di Domenico, un piccolo armatore e capitano di navi da cabotaggio, e di Rosa Raimondi, che forse più del padre comprese l'animo del figliuolo, come il suo dotato d'infinita bontà. Vano riuscirebbe il tentativo di precisare quale corso di studi egli facesse: sin dall'infanzia, più che dall'amore per i libri, conquistato dalla passione del mare e coraggioso sino alla temerità, fu dominato dall'ardente brama di tentare avventure eroiche e meravigliose, e finì per farsi accontentare. Da mozzo, compi il suo primo viaggio su di un brigantino diretto a Odessa; successivamente, fu con il padre a bordo della sua tartana; poi tornò in Oriente e a Costantinopoli, dove a lungo lo trattenne la chiusura dei porti per la guerra russo-turca; infine, raggiunto il grado di capitano, poté avere una nave ai suoi ordini. In tal modo, l'amore per l'indipendenza, proprio dei marinai, fu rafforzato dalla visione della libertà dei mari da lui solcati; le lunghe e perigliose navigazioni gli accesero nell'animo il desiderio di sfidare sempre nuovi pericoli e accrebbero la sua fiducia nella propria fortuna; la forzata permanenza in Costantinopoli, dove si trovò solo e senza mezzi, lo rese esperto nella dura lotta per l'esistenza. Contemporaneamente, fortunate circostanze fecero nascere e alimentarono in lui accanto a quella per le avventure marinaresche la passione politica, educandogli l'animo e la mente a ideali che saranno poi quelli di tutta la sua vita. Le utopie di sansimoniani, da lui incontrati in un porto del Levante e accolti a bordo della sua nave, lo scossero profondamente, perché appagavano la sua accesa sensibilità e la sua fantasia romanzesca, che nelle pause della lotta gli facevano sognare una pace infinita come il suo mare, da godere come agricoltore nella sterminata distesa dei liberi campi. E, poco dopo, ecco arridergli un nuovo meraviglioso ideale, nel quale forma più concreta parve dovesse prendere il precedente. Già lo aveva scosso nell'intimo la visione di Roma (1825), della quale aveva rivissuto fantasticamente tutta la passata grandezza pur nella misera situazione del momento; ora, in un giorno del 1833, in una locanda di Taganrog, nel Mar Nero, dalla bocca di un genovese, G. B. Cuneo di Oneglia, ebbe una viva descrizione delle tristi condizioni dell'Italia e precisa notizia del superbo compito assuntosi dal Mazzini; e "iniziato così ai sublimi misteri della patria", come affermò egli stesso, decise fermamente di venire in suo aiuto. Ma, sebbene divenisse subito predominante, la passione italiana, educata dalla propaganda mazziniana e mai regolata da organiche teorie politiche, non gl'impedì di continuare a nutrire l'amore per ogni causa giusta, di concepire fantastici piani di riforme religiose e sociali, di sperare sino all'ultimo d'esser chiamato a collaborare a una del tutto innovatrice trasformazione della vita politica e sociale dell'umanità, sulla base di una nuova religione, della fratellanza dei popoli, della pace universale.

Ritornato in patria, alla fine di luglio dello stesso anno si recò a Marsiglia per conoscere il Mazzini, ed entrò a far parte della Giovine Italia con il nome di Borel. Poi, desideroso di prender parte all'ideata rivolta della flotta militare del regno di Sardegna - rivolta che avrebbe dovuto facilitare la spedizione di Savoia - il 26 novembre per far proseliti nelle ciurme si arruolò nella marina da guerra come semplice marinaio con il nome di Cleombroto, e ottenne di far parte dell'equipaggio della fregata Des Geneys. Ma il moto, che sarebbe dovuto scoppiare il 4 febbraio 1834, non ebbe esito alcuno; e Garibaldi fu costretto a fuggire, travestito da contadino, la sera del giorno dopo. Riparò a Marsiglia, dove apprese che il governo sardo, su denunzia di un suo conterraneo, lo aveva condannato a morte (3 giugno). Assunto il nome di Giuseppe Pane, si imbarcò per una crociera nel Mar Nero; successivamente si arruolò nella flottiglia del bey di Tunisi, e, ritornato alla metà del 1835 a Marsiglia, fece da infermiere durante un'epidemia colerica; alla fine ottenne il comando in seconda di un brick diretto a Rio de Janeiro. Giunse a Rio de Janeiro tra il dicembre 1835 e il gennaio seguente, annunziando il suo arrivo con un articolo incendiario contro Carlo Alberto nel giornale Paquet du Rio; ed ebbe la fortuna di trovarvi un gruppo d'Italiani, esuli ancor essi e per di più mazziniani come il Cuneo, e, primo fra tutti, il genovese Luigi Rossetti, che divenne suo fraterno amico e che doveva morire combattendo nel 1841. Questi, creata una piccola società di navigazione per il cabotaggio tra Rio de Janeiro e Cabo Frio, affidò a Garibaldi il comando di uno dei legni: la nave si chiamava Mazzini, sulla flottiglia sventolava il tricolore, in città erano i locali della Giovine Italia, sui quali nei giorni di festa s'inalberava una bandiera con la scritta: "Repubblica Italiana"; e dai marinai si mirava anche a disturbare il traffico dei bastimenti sardi. Intanto, in Porto Alegre scoppiava la rivolta dei farrapos ("cenciosi") contro il governo imperiale, e il Rio Grande del Sud si organizzava a repubblica: G. e il Rossetti, invitati da Livio Zambeccari, che aveva avuto grande parte nel movimento, accettarono di fare una regolare guerra di corsa contro il Brasile. Seguirono anni di romanzesche avventure e di eroici ardimenti. In uno scontro Garibaldi è ferito da una palla che gli attraversa il collo, e a Gualeguay, nei territori argentini governati da M. Rosas, dove ripara per curarsi, è sottoposto alla tortura da un Leonardo Mella, governatore della provincia; assume il comando della piccola flotta da guerra dell'eroica repubblica, e nei continui urti con il nemico, che decima le sue schiere e distrugge le sue navi, miracolosamente scampa la vita; infine, per la prima volta, da marinaio si trasforma in cavaliere, combattendo nelle sterminate pianure americane con accanto la donna del suo cuore. Ma poi, al principio del 1842, è costretto ad abbandonare il teatro della lotta, peraltro ormai prossima a finire: come premio non portava con sé che Anita, la sua vera compagna in vita e in morte, "il suo tesoro - come poi la chiamò - non men fervida di lui per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa"; mentre nell'animo celava il rimpianto per i compagni caduti al suo fianco e negli occhi conservava l'immagine di Bento Gonçalves, lo sfortunato presidente della Repubblica, ricco delle qualità che dovevano poi essere anche le sue e che ricordava nelle proprie Memorie siccome suo glorioso maestro.

Riparò a Montevideo; ma poté riposare soltanto per breve tempo perché ben presto fu chiamato a prendere parte all'aspra lotta che lacerava l'Uruguay, ove si contendevano la presidenza della repubblica Fructuoso Rivera e Manuel Oribe, quest'ultimo sostenuto dal dittatore argentino, il Rosas. Dal partito del Rivera accettò il comando di una corvetta e di due altre piccole navi, con l'incarico di raggiungere Corrientes e di sostenervi l'insurrezione che sembrava vi fosse scoppiata: impresa pressoché folle perché si trattava di navigare per circa seicento miglia nell'Estuario e lungo il Paraná, superando pericoli e ostacoli di ogni sorta, attraverso un paese infido, ma che egli affrontò con leggendario ardimento; finché, raggiunto dalla flotta argentina, molto più forte della sua, fu costretto, dopo un'epica lotta presso Nueva Cava (15 agosto 1842), a cercare scampo a terra. Seguivano la disfatta del Rivera e l'inizio dell'eroico assedio di Montevideo, che, minacciata nell'indipendenza dal sempre più attivo intervento del Rosas, insorse unanime in difesa della propria libertà. Garibaldi, che per l'ospitalità ricevuta considerava ormai quella città come sua seconda patria, non solo accettò il comando di una nuova flottiglia, ma organizzò anche una legione italiana. Poi, allorché la minaccia argentina fu allontanata per l'intervento in favore di Montevideo della flotta anglo-francese me bloccò il Rosas nella sua capitale (agosto 1845), G. ebbe ordine di risalire il Plata e di penetrare nell'Uruguay con la flottiglia, con parte della legione e con altri piccoli contingenti, per riaccendervi la rivolta e riunire le disperse truppe repubblicane. E fu allora, l'8 febbraio 1846, che a San Antonio del Salto i soldati italiani insieme con il loro condottiero si ricoprirono di gloria sostenendo eroicamente l'urto della soverchiante cavalleria di Servando Gómez. Restò al Salto ancora alcuni mesi e poi fu richiamato a Montevideo (settembre 1846); ma il periodo epico della resistenza era ormai finito perché in città eran scoppiate le lotte civili; ed esse attutirono l'entusiasmo nell'animo di Garibaldi, mentre dall'Italia gli giungeva la notizia che stavano maturando tempi propizi per la libertà.

Alessandro Walewski, che il Guizot aveva mandato in missione nell'Uruguay e nell'Argentina, di ritorno aveva detto che Garibaldi "era un genio capace di ogni impresa e tale da riuscire uguale a uno dei migliori marescialli dell'Impero". B. Mitre, che lo conobbe nel 1843, affermò poi che sin dal tempo del suo servizio presso la repubblica di Rio Grande egli aveva acquistato "fama romanzesca per il suo coraggio e la sua elevatezza morale", sì che lo avvolgeva "una specie di mistero morale". In Italia si era aperta una sottoscrizione nazionale per offrirgli una spada ed era sorta la speranza che un giorno egli potesse dare il suo braccio per la difesa della causa della libertà italiana. "Garibaldi è un uomo di cui il paese dovrà un giorno giovarsi per l'azione", scriveva il Mazzini, che aveva seguito le sue vicende, il 22 ottobre 1843; e il 9 maggio 1845: "La nostra legione italiana e Garibaldi fanno prodigi; gl'Italiani sono amati e stimati dalla popolazione come salvatori della città. Il modo con cui quegli uomini, bottegai il giorno prima, si battono, è tale da far arrossire i nostri Italiani dell'interno, che hanno opinioni patriottiche e che nondimeno stanno quieti"; e ancora il 20 ottobre dell'anno seguente: "Se potrò stendere una breve storia della legione, circolerà ugualmente e farà bene. Giova, oltre la lode da darsi al merito, che la legione e il nome di Garibaldi diventino un'influenza morale in Italia; e farò che sia". Ormai egli non era più lo sconosciuto marinaio del 1836: la leggenda aveva cominciato a impadronirsi delle sue imprese, alcune delle quali, come lo scontro di San Antonio, erano di rinomanza europea, e la fama delle sue gesta si era diffusa anche in Italia. D'altro canto, Garibaldi mai aveva dimenticato la patria lontana; si era mantenuto in rapporti epistolari con Mazzini; con passione nazionale e con la speranza di poterla condurre un giorno in Italia aveva organizzato la legione, e dai suoi meravigliosi successi aveva ricavato sempre maggiore fiducia nelle forze dei suoi seguaci e nell'avvenire della comune patria. Il Mitre afferma che egli, infiammato da sogni grandiosi, pensava di sbarcare sulle coste calabresi e di dare il segno della rivolta italiana, risoluto a morire ove non fosse riuscito a piantar la bandiera della redenzione sul Campidoglio. Il 12 ottobre 1847 offrì al nunzio apostolico Bedini a Rio de Janeiro il braccio degli esuli italiani per la redenzione della patria e, giunta la notizia della rivoluzione di Palermo, il 15 aprile 1848 Garibaldi partì da Montevideo con parte della legione, diretto verso l'Italia.

Sin dalla fine dell'anno precedente il Mazzini si era mostrato sicuro dei sentimenti repubblicani di Garibaldi "è veramente eccezionale uomo per noi - aveva scritto. - Il di lui nome in Italia comincia ad essere una potenza. Tutto è inteso tra Garibaldi e me da molto tempo". Ed il 20 febbraio 1848 Garibaldi, che aveva intenzione di ottenere dal granduca di Toscana il comando delle sue truppe e di sbarcare con i propri uomini tra Viareggio e Piombino, gli aveva mandato il Medici con l'incarico di mettersi d'accordo con lui. Ma la realtà fu ben diversa: al passaggio dello stretto di Gibilterra avuta la notizia che Milano era in rivolta, che gli Austriaci erano in fuga e che il re di Sardegna era deciso a intervenire in favore della causa italiana, deliberò di approdare a Nizza, ove giunse il 21 giugno; e appena sbarcato, dichiarò "di non essere repubblicano, ma Italiano, pronto a versare l'ultima goccia del suo sangue per il re e per l'Italia". Quattro giorni dopo fece una pubblica dichiarazione di fede monarchica. E tale dichiarazione ripeté il 2 luglio in Genova: "Io fui repubblicano; ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, ho giurato d'ubbidirgli e di seguire fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza. Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gl'Italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può essere salute". Mazzini ne fu amaramente sorpreso. A spiegare la sua conversione, in apparente contraddizione con il suo precedente atteggiamento, i mazziniani dissero "che l'America era stata sì per Garibaldi un'eccellente palestra per l'educazione militare, ma non una buona scuola d'istituzione politica": giudizio che poi dovevano ripetere anche alcuni pavidi seguaci della monarchia, sebbene da un altro punto di vista, timorosi delle conseguenze delle imprese da lui compiute senza il manifesto consenso e anche contro la volontà del governo. Ma la contraddizione era soltanto apparente, e fu fortuna per l'Italia che l'America le avesse restituito un Garibaldi, per così dire, cattivo politico. A odiare le contese di partito e tutti i maneggi e le sette G. era tratto dalle vicende delle repubbliche che egli aveva servito, nelle quali la nobiltà delle lotte da esse sostenute e l'opera dei loro disinteressati difensori erano state distrutte da intrighi e da contese personali. E appunto in nome dell'unità degli spiriti di fronte al comune nemico aveva spinto gl'Italiani ad accettare come loro unico condottiero Carlo Alberto, affermando: "Guai a noi se, invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi, inutili; e peggio ancora se cominciamo a spargere tra noi i semi di discordia". D'altro canto, se pure nella sua memoria si era attutito il ricordo dell'inutile congiura di Genova, che gli aveva fruttato la condanna a morte, a riprovare i sistemi mazziniani era tratto dalla persuasione dell'inutilità delle piccole sommosse mal preparate e mal dirette, nelle quali invece sembrava che il Mazzini riponesse tutta la sua fiducia, e dell'opportunità di trarre profitto della secolare politica italiana della casa di Savoia e del suo ben munito esercito nella guerra contro l'Austria. Ma la sua adesione alla monarchia non era una piena e definitiva dedizione. Le imprese d'America, consistenti più che altro in ardimentose azioni di sorpresa, nelle quali aveva modo di trionfare il valore del combattente, lo avevano persuaso anche del primato dell'ardimento bellico di fronte alle trattative politiche, e della necessità di sostituire al momentaneo e particolare interesse di politica interna ed estera quello supremo e ultimo della patria. E d'altro canto assoggettarsi a un indirizzo o ad un'autorità che non fosse quella della propria volontà, sarebbe stato impossibile per Garibaldi, nel quale l'indipendenza del comando aveva educato il senso dell'iniziativa, e a cui i fortunati successi avevano dato sterminata fiducia nella forza del braccio suo e dei suoi seguaci. Perciò in seguito egli avrebbe agito anche contro le direttive di governo della monarchia, fermamente persuaso della bontà della sua opera; e, talvolta con non poca rudezza, avrebbe attaccato i suoi maggiori uomini, pur essendo pronto ad allearsi con essi nel momento opportuno, e con meraviglioso disinteresse, per rendere utile il frutto delle sue imprese. Ora, tutto ciò poteva sembrare conseguenza di un'imperfetta educazione politica, intesa nel senso tradizionale; ma forse nulla fu mai tanto utile per l'Italia. E non soltanto perché da alcune delle miracolose imprese garibaldine, come la spedizione dei Mille, essa ricavò immensi vantaggi, sibbene ancora perché l'opera di Garibaldi, anche quando non rientrava nei quadri della politica costruttrice dei ministri sabaudi, la integrava continuamente, precedendola e preparandola, e teneva desta, in tutto il suo fervore, la passione italiana. La convinzione che la sorte avesse affidato a Garibaldi compiti ultra umani, era propria a tutti coloro che lo seguirono, e finì per conquistare buona parte dell'Europa; e il suo intervento nelle vicende italiane valse a fondere gli animi e a distruggere antagonismi personali e differenze di partito. Del che sin dal 1848 era stato buon profeta l'Anzani, che gli era stato accanto in America, il quale sul punto di morte aveva detto: "Garibaldi è un predestinato; gran parte dell'avvenire d'Italia è nelle sue mani".

Avrebbe voluto organizzare un forte corpo di volontari per combattere accanto all'esercito regolare; ma le sue offerte furono accolte freddamente. Allora si recò nel Milanese, ove ebbe il comando dei volontari raccolti tra Milano e Bergamo; ma seguirono i dolorosi rovesci dell'esercito sardo, l'ingresso degli Austriaci in Milano, l'armistizio; e Garibaldi, costretto alla ritirata, si batté a Luino (15 agosto), entrò in Varese, che però dopo poco dovette abbandonare, resistette eroicamente a Morazzone (26 agosto), e poi, premuto dalle soverchianti forze austriache, dovette riparare in Svizzera. Tornato a Nizza e raccolte alcune centinaia di volontari, il 24 ottobre si rimise in moto per recarsi in Sicilia, invitato da Paolo Fabrizi; ma poi si fermò in Toscana (25 ottobre-8 novembre); e infine, entrato nello Stato Pontificio e raggiunto a Ravenna dalla notizia degli avvenimenti romani, offrì a Roma il suo braccio. Dapprima tenuto in disparte a Macerata, che lo nominò deputato alla Costituente (e in tale qualità partecipò alle discussioni per la proclamazione della repubblica) e poi a Rieti, fu chiamato nella capitale soltanto quando i Francesi mossero contro di essa; ma anche allora non ebbe il comando supremo delle truppe, affidato a P. Roselli dal Mazzini, che sembrava avesse perduto l'illimitata fiducia che già aveva riposto in lui. Seguirono l'eroico scontro del 30 aprile 1849, la breve campagna contro l'esercito napoletano, la meravigliosa e sfortunata giornata del 3 giugno, il radioso periodo dell'assedio di Roma, una delle più belle pagine del Risorgimento italiano. Poi fu necessario partire (2 luglio). Circondato da ogni lato dai Francesi, dagli Spagnoli, dagli Austriaci, dai borbonici, sfuggì all'accerchiamento, mentre la schiera di coloro che lo seguivano si assottigliava; costretto a riparare a San Marino (31 luglio), non accettò le condizioni offertegli dagli Austriaci e per mare tentò di fuggire a Venezia, ancor libera. Ma, attaccato dalle navi austriache, dovette sbarcare sulla costa di Magnavacca (ora Porto Garibaldi); e nel tragico inseguimento la morte gli tolse Anita (4 agosto). Con il cuore sanguinante attraversò fuggiasco Romagna e Toscana, e il 5 settembre sbarcò a Porto Venere, in territorio piemontese. Ma il governo sardo, preoccupato per la presenza di tanto uomo, che, odioso alla Francia e all'Austria e pericoloso all'interno per l'enorme fascino che esercitava, poteva peggiorare la situazione già particolarmente grave nella quale si trovava lo stato dopo la disfatta di Novara, non poté dargli ospitalità. Forse con il proprio consenso, fu subito arrestato; certamente nulla fece contro il governo e non trasse profitto dell'ascendente di cui godeva il suo nome e della protesta formulata dalla Camera dei deputati sarda, la quale a maggioranza dichiarò "il suo arresto e la minacciata sua espulsione dal Piemonte lesioni dei diritti consacrati dallo Statuto e dei sentimenti di nazionalità e della gloria italiana"; e accettò di partire. Cominciava il suo secondo esilio (16 settembre).

Condotto a Tunisi, il bey non permise il suo sbarco; a Gibilterra gli furono concessi soltanto pochi giorni di sosta; e allora egli accettò l'ospitalità offertagli dal console piemontese di Tangeri, ove si trattenne dal novembre 1849 al 3 giugno 1850, e prese a scrivere le memorie della sua vita nell'America del Sud. Poi s'imbarcò per l'America del Nord. A New York visse come operaio in una piccola fabbrica di candele creata a Staten Island dal suo compatriota Antonio Meucci; dipoi riprese a navigare. Successivamente fu nell'America centrale, ove poco mancò che non fosse ucciso dalla malaria, nel Perù, in Cina, nell'Australasia; e ritornò a New York nell'autunno del 1853, per ripartirne per l'Europa ai primi di gennaio dell'anno seguente al comando di una nave diretta in Inghilterra e a Genova. Ma nel suo animo sempre desta era stata la passione italiana. "Che vi dirò dell'errante mia vita? - aveva scritto ad A. V. Vecchi nel 1853 - Io ho creduto con la distanza poter scemare l'amarezza dell'anima, ma fatalmente non è vero, ed ho trascinata un'esistenza assai poco felice, tempestosa e inasprita dalle memorie. Sì, anelo sempre all'emancipazione della nostra terra e non dubitate che questa vitaccia sarebbe onoratissima, se dedicata, anche logora com'è, ad una causa così santa". Nel febbraio 1854 toccò le coste inglesi; e pochi giorni dopo, a Londra, rivide il Mazzini. Questi tornò a illudersi di potersi servire di lui per le imprese che meditava, e specialmente per una spedizione in Sicilia, che credeva matura; ma, come narra A. I. Herzen, che fu presente al colloquio, a Mazzini, che gli esponeva il progetto di una repubblica italiana, Garibaldi fece notare che "non sarebbe stato bene offendere il governo piemontese, perché il principale obbiettivo era di rompere il giogo dell'Austria; e com'egli fortemente dubitasse che l'Italia fosse matura per la repubblica". Poi, ritornato a Genova e a Nizza, ove questa volta fu tollerato - e durante uno dei suoi viaggi nel Tirreno, sorpreso dal fortunale e costretto a riparare alla Maddalena, ebbe l'idea, subito tradotta in pratica, di acquistare una parte dell'isola di Caprera come sua dimora - fu conquistato dalla politica realistica del governo sardo. Informato che si faceva il suo nome nei tentativi repubblicani compiuti nella Lunigiana e nel Parmense, pubblicamente smentì ogni sua partecipazione (4 agosto 1854). Si limitò ad accettare di far parte di una spedizione che avrebbe dovuto liberare il Settembrini dalle carceri di Santo Stefano, ma che non fu condotta a termine (1856). Invece, contrariamente al Mazzini, approvò l'idea di mandar truppe in Crimea; e bene interpretando almeno la parte più appariscente della politica cavourriana, affermò: "L'Italia non dovrebbe perdere nessuna occasione per spiegare la sua bandiera sui campi di battaglia e per ricordare alle nazioni europee il fatto della sua esistenza politica. Poi, il 13 agosto 1856 ebbe un colloquio segreto con il Cavour, che seppe definitivamente conquistarlo; e pubblicamente dichiarò di voler mettere a base dell'unità italiana la monarchia e Vittorio Emanuele. Seguì la sua adesione alla Società nazionale, di ben chiaro indirizzo monarchico; e il suo gesto ebbe enorme importanza, perché doveva essere imitato da moltissimi ex-mazziniani. "Bisogna profittare di questo fatto - scriveva G. Pallavicini a D. Manin - che ci assicura le simpatie e, all'uopo, il concorso di tutta la gioventù italiana" Garibaldi non l'accettò di capitanare la spedizione poi diretta da C. Pisacane, così motivando alla White Mario il suo rifiuto: "In Piemonte vi è un'armata di quarantamila uomini e un re ambizioso; sono questi elementi per un'iniziativa ed un successo, in cui la maggior parte degl'Italiani ora crede. Mostri il Mazzini di poter fornire simili elementi e un po' più di pratica di quanto non ha saputo dimostrare finora, e noi lo benediremo e lo seguiremo con fervore. D'altra parte, se il Piemonte esiterà o si mostrerà non idoneo alla missione alla quale noi crediamo sia chiamato, allora lo ripudieremo. Insomma: che qualcuno incominci la guerra santa anche con temerarietà, e voi vedrete il vostro fratello pel primo sul campo di battaglia... Ma... io non dirò mai agl'Italiani: Sorgete! proprio per far ridere le canaglie" (3 febbraio 1856). La guerra non tardò a scoppiare. Il 20 dicembre 1858 di nuovo s'incontrarono Garibaldi e Cavour, che per un momento aveva pensato di affidargli la direzione di un moto da far scoppiare nel Carrarese, che avrebbe dovuto provocare la guerra con l'Austria. Si videro di nuovo il 2 marzo dell'anno seguente per mettersi d'accordo sul modo come organizzare i volontari che affluivano da ogni parte; e fu allora che, presentato da Cavour, Garibaldi conobbe Vittorio Emanuele. Gli fu affidato il comando dei cacciatori delle Alpi, corpo con fine politico più che strategico, e quindi composto di non molti reparti, che assolse eroicamente il suo compito, vincendo K. Urban sotto Varese (26 maggio 1859) e a San Fermo (27 maggio), proteggendo i fianchi dell'esercito degli alleati ed entrando trionfalmente in Brescia (13 giugno). I quadri del futuro esercito garibaldino erano ormai formati.

Gli avvenimenti che seguirono alla pace di Villafranca raffreddarono i rapporti tra Garibaldi e il governo sardo. Alla fine di settembre Garibaldi, lasciato l'esercito sardo e già divenuto comandante della divisione toscana, fu da M. Fanti nominato comandante in seconda delle truppe della lega militare formatasi fra la Toscana, le Romagne, Parma e Modena. Un mese dopo, diffusasi la voce di un'incursione dei pontifici, fu messo alla testa delle due divisioni romagnole con il compito di diffondere la rivoluzione anche nello stato confinante. Tale decisione spaventò i moderati e il governo piemontese, timorosi di una nuova rottura con l'Austria e di una guerra con la Francia; si tentò persuadere Garibaldi a recedere dal suo proposito; ma questi preferì ascoltare i rivoluzionari, che gli dicevano imminente lo scoppio della rivolta nelle Marche e lo incitavano a non tollerare gl'intrighi di Napoleone, contrario all'impresa, e decise di varcare il confine nella notte del 12 novembre. Allora le truppe ebbero ordine di non muoversi; Vittorio Emanuele chiamò presso di sé Garibaldi (16 novembre) e ottenne che egli deponesse il comando. Garibaldi lo stesso giorno partì, e il 19 lanciò da Genova un manifesto agl'Italiani, nel quale violentemente attaccava la politica piemontese. Per la prima volta cozzavano tra loro le volontà del condottiero e del governo: l'uno subordinava l'azione a possibilità d'ordine interno, l'altro d'ordine internazionale; ma fin d'allora ebbe modo di rivelarsi tutto il valore della suadente parola del re, nella sua ardente e leale natura di uomo d'azione fatto apposta per intendersi con Garibaldi e perciò atto a persuaderlo della necessità di tener conto delle regole di politica che come sovrano egli non poteva trascurare, anche se a malincuore. Garibaldi restò monarchico. Nello stesso proclama del 19 egli scriveva: "Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un'altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della patria, io ritroverò un'arma qualunque ed un posto accanto a' miei prodi commilitoni". Pochi giorni dopo a richiesta del re sciolse la nuova società, La Nazione armata, a programma rivoluzionario, da lui creata dopo aver abbandonato la Società nazionale (4 gennaio 1860). E poi, con l'animo in pena, e per questi avvenimenti e ancora per la penosa conclusione che ebbe il matrimonio celebrato il 24 gennaio con la marchesina Giuseppina Raimondi, si ritirò a Caprera. (Sciolto il 14 gennaio 1880, questo matrimonio, Garibaldi poté sposare il 26 Francesca Armosino, da cui aveva avuto i figli Clelia e Manlio). Ai primi d'aprile presentò alla Camera un'interpellanza sulla cessione di Nizza alla Francia ma ivi gli giunse notizia della rivolta scoppiata in Palermo il 4, e acconsentì subito ad accorrere in aiuto degl'insorti. Dapprima domandò uno o due reggimenti di fanteria al re, che gli furono rifiutati per giuste ragioni di politica estera. Si diede allora a raccogliere un corpo di volontari, che per un momento pensò di dirigere su Nizza per distruggere le urne del plebiscito che avrebbe deciso le sorti della città. Dopo qualche incertezza, determinata dalle notizie contraddittorie che venivano dalla Sicilia - e Garibaldi non intendeva partire senza la sicurezza che nell'isola ardesse la rivoluzione, - non senza almeno il tacito consenso del governo, la spedizione partì da Quarto nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. Meravigliose tappe dell'impresa, la più grande e la più eroica che il Garibaldi compisse mai nei due mondi, furono lo sbarco a Marsala (11 maggio), la battaglia di Calatafimi (15 maggio), la presa di Palermo (27 maggio), la battaglia di Milazzo (20 luglio), il passaggio dello stretto di Messina (19 agosto), la trionfale marcia attraverso le Calabrie, mentre la rivoluzione si propagava in tutta la parte continentale del regno delle Due Sicilie, l'ingresso in Napoli (7 settembre) donde la corte borbonica si era allontanata da poche ore, la decisiva battaglia del Volturno (1-2 ottobre) ove bersaglieri piemontesi combatterono accanto ai garibaldini, a conferma che, fra l'intrecciarsi dei maneggi cavourriani e mazziniani per assicurare alla monarchia o alla repubblica il frutto della conquista quasi miracolosa, Garibaldi aveva mantenuto fede alla monarchia. L'arrivo del re, e a Teano avvenne il famoso suo incontro (26 ottobre) con il vittorioso generale, impedì la marcia dei garibaldini su Roma; il 7 novembre Garibaldi accompagnò il monarca nel suo ingresso in Napoli, il giorno seguente gli consegnò i risultati del plebiscito che approvava l'unione del regno alla monarchia sabauda, e il 9, rifiutati tutti gli onori, parti di nascosto, non portando con sé come ricompensa che poche centinaia di lire, un sacco di legumi, un altro di sementi e un rotolo di merluzzo secco.

Pur dopo le amarezze provate specialmente negli ultimi tempi dell'impresa, Garibaldi si mantenne fedele all'ideale che aveva abbracciato. Appena giunto a Caprera in un proclama agl'Italiani affermava: "Vittorio Emanuele è il solo indispensabile in Italia; colui attorno al quale devono rannodarsi tutti gli uomini della nostra penisola, che ne vogliono il bene". E in nome dell'unità italiana finì per riconciliarsi anche con il Cavour - che, come egli disse, lo aveva fatto straniero all'Italia e che aveva attaccato con terribile violenza in parlamento il 18 aprile 1861 -, riconoscendo tutto quello che aveva fatto per l'Italia e sottomettendosi alla sua volontà: "Sia Vittorio Emanuele il braccio dell'Italia e lei il senno, signor conte" - gli scrisse il 18 maggio, quasi a raddolcirgli quelli che dovevano essere gli ultimi giorni della sua vita - "e formino insieme quell'intero potente che solo manca oggi alla penisola". Ma il grande statista moriva lasciando incompleta l'opera sua; nei mesi seguenti parve che si allontanasse il giorno del compimento dell'unità italiana; e allora Garibaldi tornò a essere rivoluzionario. Ottenuta dal Rattazzi la direzione del Tiro a bersaglio, ne approfittò per preparare in Sarnico un'invasione nel Trentino (maggio 1862) e, posto nell'impossibilità di attuarla per le misure prese dal governo, si recò a Palermo (28 giugno) lanciò un proclama contro la Francia, e, non tenendo nessun conto delle insistenze fatte per indurlo a recedere dal proponimento, al grido di "Roma o morte" mosse verso la città eterna: ad Aspromonte (29 agosto) era fermato e ferito dai soldati italiani comandati dal colonnello E. Pallavicini di Priola. L'impressione fu enorme in tutta Europa, ove il nome di Garibaldi destava entusiasmi popolari ed era simbolo di lotta; e ne fu prova l'accoglienza che gli fece nell'aprile 1864 l'Inghilterra; ma il triste episodio, mentre valse a mostrare quanto tenace fosse la passione italiana, non ruppe i rapporti tra il governo monarchico e Garibaldi, il quale, dal Varignano, dove era prigioniero, in un proclama non solo scusava in nome della disciplina militare l'ufficiale che aveva ordinato il fuoco, ma affermava anche "di non aver egli in nulla alterato l'antico programma e di essere risoluto a non alterarlo a qualunque costo". E infatti, scoppiata la guerra del 1866, accettò il comando dei volontari, con i quali entrò nel Trentino, e che in quella disgraziata campagna condusse alla vittoria (Monte Suello, 3 luglio; Bezzecca, 21 luglio); e poi, fedele alla consegna militare, accolse con la famosa parola: "Obbedisco" (9 agosto) l'ordine di sospendere le operazioni e di abbandonare il territorio occupato, che il sangue versato dai suoi soldati aveva reso doppiamente italiano e che per il momento era negato all'Italia. Ormai soltanto Roma mancava per completare l'unità; e con rinnovellato fervore a Roma rivolse tutta la sua passione, non solo promovendo un'attiva propaganda per costringere il governo all'azione, ma prendendo le armi. Dapprima fermato a Sinalunga (24 settembre 1867) e condotto a Caprera, sfuggendo alla sorveglianza della flotta italiana ritornò poi sul continente, e il 23 ottobre passò il confine; ma a Mentana (3 novembre) invano tentò di vincere le truppe francesi e pontificie e fu costretto alla ritirata. Arrestato a Figline e condotto al Varignano, il 25 novembre fu imbarcato per Caprera. Doveva ritornare nel continente soltanto nel 1870 per prendere le armi in difesa della Francia, alla quale avrebbe regalato con la battaglia di Digione (21-23 gennaio 1871) una delle poche vittorie di quella sua sfortunata guerra contro la Prussia, e l'unica bandiera tolta al nemico.

Negli ultimi anni della sua vita, che si chiuse in Caprera il 2 giugno 1882, fu ripreso dai suoi giovanili sogni di cosmopolitismo e di fratellanza universale, senza per altro riuscire a dare ordine alla sua inquieta attività; e tentò divenire scrittore, aggiornando le sue Memorie autobiografiche, alle quali volle aggiungere una redazione in versi sciolti; compilando tre romanzi 1873-74): Clelia o il governo del Monaco, Cantoni il volontario, I Mille; e componendo versi italiani e francesi. Ma la poesia egli l'aveva nell'anima, e la sua vita era stata il suo vero canzoniere.


Hermann Kanzler (Weingarten, 28 marzo 1822 - Roma, 6 gennaio 1888)

Kanzler nacque in una cittadina nei pressi di Karlsruhe da Max Anton, un impiegato dell'amministrazione fiscale del Granducato di Baden. Più tardi la famiglia si trasferì a Bruchsal, dove il ragazzo trascorse la sua giovinezza. Cominciò il suo servizio come tenente nel corpo dei Dragoni a Karlsruhe, dopodiché, vista la sua marcata militanza cattolica, entrò nelle file dell'esercito pontificio. Nel dicembre 1843 rassegnò definitivamente le sue dimissioni dall'esercito granducale.Kanzler entrò nell'esercito del Papa nel 1845 col grado di capitano; combatté nel 1848 contro l'impero austriaco nel corso della I guerra d'indipendenza e nel 1859 fu nominato colonnello del primo reggimento dell'esercito pontificio; in seguito, l'anno successivo, fu promosso generale dall'allora comandante in capo Lamoricière, in riconoscimento delle sue audaci azioni a Pesaro ed Ancona contro l'esercito piemontese nel corso della II guerra d'indipendenza. Nell'ottobre 1865 divenne comandante supremo delle forze armate pontificie e proministro delle armi. Il 3 novembre 1867 comandò l'esercito papale a Mentana e sovrintese alla difesa di Roma nel settembre 1870. Dopo la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, Kanzler continuò ad essere nominalmente proministro fino al 1888 e rimase ad esercitare le sue funzioni di comandante in capo delle truppe e le armi papali, anche se solo simbolicamente. Al generale fu conferito anche il titolo nobiliare di barone von Kanzler. Sposò una donna dell'antica famiglia comitale romana dei Vannutelli, che di lì a poco avrebbe dato alla Chiesa due cardinali. Fu a lungo nel consiglio del Campo Santo Teutonico e fu amico del direttore dell'ente, Anton de Waal. Il figlio di Kanzler, il barone Rudolf von Kanzler (nato il 7 maggio 1864) fu l'archeologo capo della Santa Sede e, fin dal 1896, fu membro della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra; considerato il "più abile conoscitore della topografia di Roma antica", ebbe una parte di primo piano negli scavi effettuati sotto la Basilica di San Pietro e nelle catacombe.

La genesi

La campagna dell'Agro Romano del 1867, finita dolorosamente con la rotta dei garibaldini a Mentana il 3 novembre, potrebbe forse essere esclusa da una trattazione dello sforzo che i patrioti italiani fecero per ottenere che, attraverso un'azione rivoluzionaria appoggiata da volontari, fosse data all'Italia la sua naturale capitale. La questione di Roma era una questione internazionale e non poteva venire risolta che sul terreno diplomatico, oppure grazie a qualche grande avvenimento della politica europea che togliesse gli ostacoli a un'azione contro Roma; e in questo caso questa sarebbe stata fatta dalle forze regolari. Tuttavia essa presenta caratteristiche proprie, sebbene sia da vedere in essa soprattutto il declino dello spirito rivoluzionario italiano, mal sostenuto o addirittura ora avversato dal governo e dalla monarchia; e minato pure dal dissidio fra elemento garibaldino ed elemento mazziniano. Ottenuto bene o male il Veneto, rimaneva Roma. In base alla Convenzione di settembre del 1864, l'11 dicembre 1866 Roma sarebbe stata libera da truppe francesi. Tale convenzione impegnava il governo italiano «a non attaccare il territorio attuale del Santo Padre», non solo, ma ad «impedire anche con la forza qualunque attacco esterno contro quel territorio». In compenso la Francia avrebbe sgomberato Roma e il territorio pontificio. Ma fino dal settembre '64, vale a dire appena stipulata la famosa Convenzione, il governo di Francia aveva pensato ad eluderne i patti con la costituzione di un grosso corpo di volontari cattolici francesi, la famosa Legione di Antibes, dal luogo della sua costituzione, Antibes, fra Nizza e Cannes. Proprio nei primi giorni del '67 la legione era definitivamente costituita, ricca di tutti i maggiori rappresentanti del clericalismo e del legittimismo francese. Non solo, ma erano stati chiamati a farne parte anche soldati dell'esercito francese, che figuravano come volontari aventi terminata la ferma, ma che conservavano nei loro libretti personali persine il numero del loro reggimento; gli ufficiali erano poi tutti francesi e indossavano la divisa dell'esercito imperiale. I democratici italiani ne erano indignati, ma una scappatoia si presentava anche a loro per risolvere ugualmente la questione: la Convenzione di settembre prevedeva l'intervento italiano contro un attacco esterno, ma non il caso in cui si fosse prodotta una sollevazione all'interno dello Stato pontificio e che le popolazioni di Roma e del Lazio avessero di conseguenza con un plebiscito proclamato di volersi annettere al regno d'Italia.

Nel febbraio del '67 il governo Ricasoli ha sciolto la Camera, e i democratici sperano con le nuove elezioni d'avere un governo di sinistra; ed ecco Garibaldi lasciare il suo romitorio per recarsi a sostenere la lotta elettorale. Egli si reca a Firenze, a Bologna, a Ferrara, quindi a Venezia e nel Veneto, poi in Lombardia e in Piemonte; ovunque l'eroe riceve accoglienze festosissime, deliranti; e i suoi discorsi, nel criticare la politica dei moderati, finiscono col scivolare sempre sulla questione romana. A Roma del resto ci sono due comitati clandestini: il Comitato nazionale dei moderati e il Centro d'insurrezione, sostanzialmente repubblicano. La questione dell'insurrezione romana è minata dal dissidio fra moderati e democratici. Infatti gli elementi più animosi e capaci nel campo rivoluzionario sono certamente i democratici e i repubblicani; ma dopo il cattivo esito della campagna del 1866 Mazzini torna a sperare in un'iniziativa popolare che non solo liberi Roma, ma faccia veramente della terza Roma, la Roma del popolo, il centro della missione della nuova Italia. L'insurrezione dei democratici ha un carattere dunque prevalentemente repubblicano, e il Comitato nazionale sembra a volte aver soprattutto la funzione di freno: la rivoluzione dei moderati andrà preparata lentamente con un'azione educatrice e persuasiva fra la popolazione e solo come extrema ratio nel caso che le trattative diplomatiche debbano mostrarsi assolutamente inefficaci. Il Centro d'insurrezione non intendeva andare tanto per le lunghe e si rivolgeva a Garibaldi che dal governo della Repubblica romana del 1849 aveva avuto il grado di generale e, al momento di abbandonare Roma il 4 luglio, i pieni poteri nelle zone ove avesse ritenuto opportuno fermarsi e riaccendere la lotta. Il governo della Repubblica romana era ai suoi occhi il solo governo legale e legittimo, perché emanazione della volontà popolare liberamente espressa con un plebiscito. Il Centro d'insurrezione invitava dunque il generale ad assumere la direzione dei moti popolari e della guerra di volontari per la liberazione dì Roma; e lo invitava a farsi appoggiare da un comitato di emigrati romani.

Garibaldi allora dalla pianura lombarda, ov'era ospite del grande patriota Giorgio Pallavicino, rispondeva il 22 marzo accettando l'incarico, e senz'altro disponeva perché in Firenze si formasse il centro dell'emigrazione romana, destinato ad agire sotto la sua «immediata direzione»; quindi creava in altre parti d'Italia dei subcentri con l'incarico precipuo di raccogliere denaro per l'impresa. Il 1° aprile il Centro d'insurrezione diffondeva nello Stato pontificio un proclama eccitante all'insurrezione ed emetteva dei buoni a prestito, apparentemente solo per aiutare la popolazione bisognosa, in realtà per raccogliere denaro per la vicina lotta. E Garibaldi a sua volta scriveva ad associazioni operaie e a giornali. Il movimento per la liberazione di Roma sembra farsi sempre più intenso, tanto che il Comitato nazionale romano - quello dei moderati - per non lasciarsi sopravanzare troppo dagli altri decide di fondersi col Centro d'insurrezione in modo da creare una Giunta nazionale e romana che riunisca i patrioti di tutte le tendenze, col solo immediato scopo di provocare l'insurrezione della Città Eterna. Intanto però le elezioni non hanno dato quei risultati che i democratici si aspettavano, e il 10 aprile al posto del ministero Ricasoli si ha il ministero Rattazzi, con una coloritura un po' meno conservatrice ma non certo di sinistra. Il Rattazzi che pur proviene dalle file della democrazia e dell'opposizione è stato il ministro di Aspromonte, l'uomo che colla sua politica tortuosa e oscillante ha illuso per troppo tempo Garibaldi fino a condurlo al doloroso episodio. E l'uomo politico piemontese continua sostanzialmente nella vecchia politica. Pel momento anzi sembra voler frenare il movimento. Napoleone, infatti, ha elevato una regolare protesta a Firenze per tramite del suo ambasciatore, e il Rattazzi gli ha risposto che la convenzione di settembre sarà rispettata. E realmente, cessato il pretesto delle elezioni politiche, svanita la speranza d'un governo nettamente democratico, visti i timori del Rattazzi di fronte alle proteste francesi, l'agitazione per Roma si attenua. Tuttavia non mancano gli elementi impazienti d'agire. A Terni un gruppo di 106 giovani si raccoglie nell'ex convento di San Martino, in un podere del vecchio cospiratore Pietro Faustini, e, armatisi con armi raccolte fin dai tempi di Aspromonte, tentano di penetrare negli Stati pontifici. Ma Rattazzi informato della cosa ha mandato contro di loro un reparto di granatieri, e i volontari allora si sciolgono, meno una trentina che vengono arrestati il 18 giugno. Intanto Garibaldi, indignato contro il governo, con la scusa di sperimentare le acque di Monsummano, si reca in Toscana continuando la sua propaganda. Alla fine, da Siena, annunzia l'insurrezione e la lotta decisiva per il prossimo autunno e dice le famose parole: «Alla rinfrescata, muoveremo». Nel frattempo egli ha inviato Francesco Cucchi a Roma per dirigere il moto popolare, il figlio Menotti nel Mezzogiorno per iniziare l'arruolamento dei volontari, e Giovanni Acerbi alla frontiera tosco-umbra perché analogamente raccolga i giovani che affluiscono dal Nord. Intende poi agitare la quistione romana profittando del congresso della Lega della pace e della libertà al quale intervengono numerosi campioni della democrazia e del socialismo, fra cui lo storico rivoluzionario Quinet, il sansirnonista Pierre Leroux e il socialista-anarchico Bakunin. In quella assise altamente democratica egli, invitato a parteciparvi, intende esporre i diritti di Roma alla libertà, e avere così l'appoggio di gran parte degli elementi di sinistra di tutta Europa. L'accoglienza nella città svizzera è quanto mai calorosa; l'eroe è nominato presidente onorario del congresso, e senz'altro presenta una serie di proposte che cominciano colla dichiarazione che tutte le nazioni sono sorelle e che tutte le querele fra loro dovranno essere sottoposte al giudizio arbitrale del congresso, per finire affermando che «lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno; è il solo caso in cui la guerra è permessa »; il che vorrebbe dire che i romani hanno diritto d'insorgere contro la tirannide e che in questo caso l'azione loro è giustificata e va anzi appoggiata. La conclusione spaventa troppa gente; Garibaldi non aspetta nemmeno la fine della discussione col prevedibile rigetto della sua proposta, e l'11 settembre abbandona la città e se ne torna in Italia preparandosi all'azione. Ora la Giunta nazionale romana lo assicurava che, qualora fossero giunti denaro e armi, l'insurrezione non sarebbe mancata; e Garibaldi, come del resto aveva inteso fare nel '60 - e ora motivi più complessi lo spingevano ad agire in tal modo - dichiarava che si sarebbe mosso a sostegno degli insorti.

Ma il ministro Rattazzi manda ora a dire a Garibaldi di tornarsene almeno per qualche tempo a Caprera. L'eroe al contrario non si muove e continua i preparativi nella speranza che quanto più i romani vedranno certo l'aiuto in caso d'insurrezione tanto piu' saranno spinti ad agire. Manda perciò di nuovo a Roma il bergamasco Cucchi, e il figlio Menotti a Terni, perché di là muova su Passo Corese e Monterotondo; e l'Acerbi a Orvieto, perché proceda a sua volta verso Viterbo, e il Nicotera dalla parte opposta col compito di puntare su Frosinone. Egli dichiara poi che scopo del movimento è di rovesciare il governo dei preti, proclamare Roma capitale d'Italia e lasciare il popolo romano in piena libertà sulle proprie condizioni di plebiscito. Da rilevarsi che Garibaldi non usa più la formula del '60, e anche del '62, prima d'Aspromonte; «Italia e Vittorio Emanuele», pur non prendendo un atteggiamento nettamente repubblicano. È da notare poi che nelle istruzioni diramate ora c'è anche questa: «Fra le eventualità possibili, vi è quella di essere io arrestato. In quel caso il movimento deve continuare colla stessa impavidezza, come se fossi libero. E deve pur continuare anche se arrestassero la maggior parte dei capi». Via via il piano si fa più complesso: Menotti da Terni, Acerbi da Orvieto su Monterotondo, il Nicotera dall'Aquila e il Salomone da Pontecorvo su Velletri; Stefano Canzio dovrà preparare una spedizione marittima che sbarchi fra Montalto di Castro e Corneto (oggi Tarquinia), a nord di Civitavecchia. Punto di concentramento delle colonne è Viterbo, il che significa che lo sforzo va fatto soprattutto dal territorio toscano e da Orvieto; ma è una vera azione concentrica che si profila verso Roma, soprattutto dal Lazio settentrionale. Sembra però che Garibaldi tema ora d'essere arrestato, parte quindi da Firenze e si porta ad Arezzo dichiarando che procederà per Perugia; invece procede dalla parte opposta, e la sera del 23 è a Sinalunga ai confini del Senese, ospite dell'ingegner Angelucci. Ma è appena arrivato che una compagnia di soldati e di carabinieri invade il paese e circuisce la casa; e alle quattro di notte un tenente dei carabinieri si presenta a Garibaldi dichiarandolo in arresto. Di lì con un barroccio è condotto alla stazione di Luciniano, quindi, in treno speciale, portato ad Alessandria e rinchiuso nella fortezza. La notizia provoca dimostrazioni e proteste in molte città d'Italia. Ad Alessandria gli stessi soldati del presidio si affollano sotto le finestre della cittadella, dove l'eroe è rinchiuso, gridando: «A Roma! A Roma!» I deputati di sinistra sono fuori di sé, perché oltre a tutto Garibaldi deputato è stato arrestato con aperta violazione dell'immunità parlamentare. Il Rattazzi manda allora ad Alessandria il ministro della Marina, generale Pescetto, per indurre Garibaldi a ritornare a Caprera, promettendo di non abbandonare l'isola; il che significa restarvi al confino, ed egli rifiuta nettamente. Intanto nuove dimostrazioni, e allora Rattazzi decide di far tornare Garibaldi a Caprera con una nave della regia marina; e qui lo fa sorvegliare da ben nove navi da guerra oltre che da numerose imbarcazioni minori. Ad onta di ciò l'accorrere di volontari, lungi dall'arrestarsi, s'intensifica. L'eroe nel passare in stato d'arresto da Pistoia ha potuto affidare a persona devota un biglietto scritto a matita: «24 settembre. I romani hanno il diritto degli schiavi, insorgere contro i loro tiranni: i preti. Gli Italiani hanno il dovere di aiutarli - e spero lo faranno - a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi. Avanti dunque nelle vostre belle risoluzioni, romani e Italiani...» E il 27 settembre, da Genova, anzi dalla nave che lo trasportava a Caprera, Garibaldi aveva scritto al Crispi, che aveva molta influenza sul Rattazzi e che aveva servito talvolta da tramite fra i due, dicendogli di non vedere altra soluzione per la questione romana, oltre quella dell'insurrezione, che nell'azione del governo italiano coll'esercito italiano. Ossia, Roma andava comunque liberata e Garibaldi era pronto a rinunzìare all'onere e all'onore di liberarla purché la liberazione comunque avesse luogo. E il Crispi telegrafava al generale a Caprera: «Ottime disposizioni, e spero non tarderete a vederne conseguenze. Impossibile precipitare avvenimenti a vista d'interessi internazionali impegnati. State tranquillo ». E ancora il 4 e il 5 l'esorta ad avere pazienza e a bene sperare. Il patriota siciliano ha frequenti colloqui col Rattazzi, e il 6 ottobre annota nel diario. «Rattazzi entra nel sistema». In verità il Fabrizi e il Guastalla vanno a Caprera, d'accordo con Rattazzi, per parlare con Garibaldi; e a quanto sembra il Rattazzi, vista l'impossibilità di frenare la volontà popolare per Roma, sembra che si afferri egli pure alla scappatoia di provocare una sollevazione in Roma, con successiva invocazione al governo italiano, e intervento di questo. Soluzione ch'era stata, come s'è visto, accettata dallo stesso Garibaldi.

A questo punto, però, vi è fra gli stessi garibaldini chi ritiene, come il Menotti, il Canzio, l'Acerbi e il Nicotera, che Roma non si solleverà sul serio se prima non si sarà sollevata la campagna, e che questa non insorgerà se non accorreranno i volontari. In conclusione costoro, a differenza del Crispi, del Fabrizi, del Cairoli, del Cucchi, del Guastalla, del Guerzoni, non credono che i romani, pur col sussidio di denaro e di armi, faranno subito per i primi una grande insurrezione, tale che possa trionfare o almeno sostenersi per vari giorni; e in questo caso la scappatoia per eludere la Convenzione di settembre verrebbe meno. E intanto mentre Garibaldi, dietro gli incitamenti del Crispi, pareva doversi alla fine adattare ad aspettare, gli giungevano notizie che una banda dei soliti elementi irrequieti e impazienti forte di 150 uomini, al comando del maggiore Ravina, aveva occupato Acquapendente, a nord del lago di Bolsena, costringendo 36 gendarmi pontefici alla resa, e s'era poi spinta avanti, e il 3 ottobre aveva battuto i pontifici che avevano lasciato 80 prigionieri. In base alle istruzioni emanate da Garibaldi nel settembre, il 7 ottobre Menotti era partito da Terni e con 600 uomini aveva occupato Nerola e Monte Libretti, ad est del Passo Corese, in territorio pontificio. E ora anche l'Acerbi da Torre Alfine, fra Orvieto e Acquapendente, si disponeva a marciare a sostegno del maggiore Ravina. Dall'altro lato il Nicotera con 800 uomini sconfinava presso Frosinone, e altre bande pure penetravano nel territorio pontificio. Gli elementi più ardenti avevano preso in mano e trascinavano all'azione la massa dei volontari. E allora il Rattazzi si adoperava per creare una legione romana, fatta di sudditi del territorio pontificio e guidati da un certo Ghirelli, al quale perveniva denaro pel tramite di Crispi. In questo modo il Rattazzi sperava di poter mostrare all'estero che anche i volontari erano soprattutto romani che si ribellavano alla tirannide. Ma il Ghirelli non volle sottostare ad alcuna autorità e agì in modo così scorretto e disonesto da far persine sospettare che fosse un agente provocatore governativo con l'incarico di screditare l'azione di tutti i volontari. Garibaldi, dal canto suo, ormai fremeva di non potersi trovare a dirigere le mosse dei volontari. Ma nove navi da guerra e numerose imbarcazioni vigilavano attorno alla piccola isola. L'8 ottobre aveva tentato di evadere imbarcandosi sul vapore postale giunto alla Maddalena; ma il postale era stato fermato e l'eroe ricondotto alla sua dimora. Allora però Stefano Canzio muoveva al suo soccorso e con una paranza in compagnia di un esperto marinaio da Livorno riusciva a giungere alla Maddalena e per mezzo della signora Collins, che in passato gli aveva ceduto l'isola e che abitava alla Maddalena, faceva avvertire Garibaldi, il quale mandava la figlia Teresina e il Basso a prendere accordi. La sera del 14 ottobre Garibaldi lasciava la casetta di Caprera e giungeva a un porticciolo ov'era una piccola barca con una falla, mezza piena d'acqua in stato d'abbandono dietro una pianta di lentisco. Garibaldi vi montava e la guidava stando sdraiato e maneggiando un solo remo; l'imbarcazione usciva d'un palmo alla superficie del mare e le tenebre e le stesse ondate favorivano l'evasione. Garibaldi poteva così passare senza essere visto da tre navi da guerra che li vigilavano. Giungeva a un isolotto e faceva a guado l'ultimo tratto fino alla Maddalena. Udì grida e spari di fucile, ma proseguì il suo cammino, e così giunse alla Maddalena. Presso la signora Collins rimaneva l'intera giornata del 15 ottobre, la sera con un amico traversava l'isola della Maddalena e lì il capitano Cuneo e un marinaio lo aspettavano con una barca; traversavano poi lo stretto e passavano la notte e il giorno successivo in una grotta, quindi il 16 a buio traversavano a cavallo i monti della Gallura e al mattino del 17 erano al porto di San Paolo, ove li aspettava la paranza di Stefano Canzio.

Il 19 ottobre Garibaldi e Canzio sbarcano a Vada poco sopra Cecina donde con due biroccini proseguono per Livorno. La mattina del 20 sono a Firenze; la popolazione, alla quale non si è potuto nascondere il suo arrivo, gli tributa dimostrazioni di gioia. In verità la fuga del sessantenne Garibaldi dallo scoglio di Caprera rimane un'impresa di straordinaria abilità. Ma accanto ai festeggiamenti notizie gravi. Il 17 ottobre il governo francese ha deciso d'intervenire a Roma poiché il governo italiano è impotente ad impedire l'invasione del territorio pontificio. La politica francese ha avuto dei notevoli insuccessi: la guerra del '66, che ha dato il Veneto all'Italia, ha segnato il trionfo della Prussia e il trionfo prussiano è stato così fulmineo e decisivo che Napoleone non ha potuto svolgere quella mediazione armata dalla quale sperava di poter ottenere territori verso il Reno dalla Prussia. Questa si avvia a compiere l'unità germanica dopo aver cacciato l'Austria e non intende per di più dare compensi di sorta; l'impresa del Messìco dove Napoleone sperava di creare un grande impero latino sotto l'influenza francese si è risolta in un disastro, con la fucilazione del disgraziato Massimiliano d'Austria che aveva accettato d'essere imperatore; il regime napoleonico ha bisogno di successi, e ora s'illude di riparare al suo declinante prestigio con un'umiliazione inferta all'Italia e a Garibaldi. Di fronte alla arrogante minaccia del governo francese prontissimo a muovere guerra, il 19 il ministero Rattrazzi ha rassegnato le dimissioni. Invano 12.000 cittadini di Roma firmano un indirizzo al sindaco della città per invitarlo a pregare il papa di chiamare in Roma le truppe italiane a mantenere l'ordine! Ma Vittorio Emanuele aveva promesso, a quanto sembra, a Napoleone III che l'esercito italiano non sarebbe intervenuto in Roma. Il 22 il generale Cialdini incaricato dal re di formare il nuovo ministero tenta d'indurre Garibaldi a desistere dall'azione, ma ormai l'eroe è inflessibile e lancia un proclama col motto: « redimere l'Italia o morire », E in un successivo proclama, dichiarando che già a Roma i fratelli innalzano barricate e dalla sera prima si battono cogli sgherri papali, conclude: «L'Italia spera da noi che ognuno faccia il suo dovere». Arringa dall'albergo il popolo fiorentino e nel pomeriggio parte in treno speciale per Terni. In quello stesso 22 ottobre a Roma dovrebbe realmente essere scoppiata l'insurrezione che il Cucchi preparava da tempo. Già circolano false o esagerate notizie: che la Città Eterna è piena di barricate, che l'insurrezione trionfa, che la popolazione si batte da due giorni. In realtà l'insurrezione doveva scoppiare la sera del 22 ottobre, ma essa miseramente falliva. Troppo complicata e complessa si presentava l'azione e troppo s'era parlato; la polizia era ormai in stato d'allarme. Una grossa schiera, quella del Cucchi, doveva assalire il Campidoglio; un'altra assalire il corpo di guardia di piazza Colonna; il Guerzoni con 100 uomini doveva forzare Porta San Paolo, introdurre in città un carico d'armi e distribuirle; il muratore Giuseppe Monti doveva minare la caserma Serristori; Francesco Zoffetti e altri sette cannonieri avrebbero dovuto inchiodare le artiglierie di Sant'Angelo, così che non potessero funzionare; inoltre i fratelli Enrico e Giovanni Caìroli (che in verità non agivano d'accordo con il comitato romano), dovevano scendere pel Tevere con 75 compagni fino a Ripetta con un carico d'armi. Intanto il generale Zappi, governatore di Roma, aveva fatto murare 6 delle 12 porte della città; il Guerzoni, che in luogo dei 100 compagni promessi si trovò ad averne solo 7, veniva sorpreso e assalito da zuavi, gendarmi e dragoni pontifici, e dopo breve lotta doveva abbandonare al nemico il carico d'armi. L'assalto al Campidoglio falliva, quello a piazza Colonna, dispersi i congiurati già prima dell'ora fissata, non poteva nemmeno esser tentato; la caserma Serristori veniva minata dai due muratori Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, guidati dagli ex emigrati Ansiglioni e Silvestri, e rimaneva in parte rovinata; e vi furono vari feriti; ma il grosso degli zuavi era già uscito per correre contro la colonna del Guerzoni; i Cairoli, infine, del cui arrivo presso Roma né il Cucchi né altri era stato avvertito in tempo, pervenuti nella notte all'altezza di ponte Molle e udito il fallimento della sollevazione, si erano nascosti fra i canneti della riva e all'alba si avviavano a Villa Glori sui monti Parioli; nel pomeriggio del 23 ottobre la schiera era assalita da un nemico triplo di numero. Giovanni Cairoli era crivellato da ben dieci ferite e il fratello Enrico colpito a morte; e gli altri valorosi che si erano difesi disperatamente erano morti oppure feriti e prigionieri. Un ultimo strascico si aveva il 25 ottobre, alla Lungaretta, nel lanificio Ajani, ed era il solo che valeva a salvare l'onore del popolo romano. Quivi si lavorava a preparare cartucce da una schiera di ardenti repubblicani. All'avanzare di una schiera di gendarmi pare che partisse per errore un colpo d'arma da fuoco, e allora senz'altro i pontifici assalivano l'edifizio dove trovarono una resistenza accanita: anima di essa erano i patrioti Francesco Arquati con l'eroica moglie Giuditta Tavani e i tre figli. I pontifici riuscivano tuttavia a penetrare; una bomba all'Orsini cagionava gravi perdite mentre i pochi difensori rincuorati dall'eroica donna continuavano a resistere; alla fine più che mai inferociti avanzavano i pontifici e cadevano massacrati l'Arquati con la moglie e i tre figli, e altri quattro patrioti. I pontifici pare che avessero un morto e 18 feriti. In questo modo si spegneva l'insurrezione romana su cui i patrioti di tutta Italia avevano tanto calcolato: la popolazione romana aveva mostrato nell'insieme un ben diverso spirito dai tempi di Ciceruacchio, della giornata del 30 aprile '48 e delle prime settimane della difesa di Roma! E come non s'era mossa Roma, così neppure s'era mossa la popolazione della campagna.

Ad onta di ciò Garibaldi decideva l'avanzata generale su Roma: Acerbi a destra, Menotti al centro, Nicotera a sinistra. In tutti non sono più di 8000 uomini, male armati, quasi senza artiglierie e quasi senza cavalleria. Il 23 ottobre Garibaldi raggiunge il figlio Menotti al passo di Corese, e di lì nella notte sul 24 si dirige verso Monterotondo. La cittadina giace sopra un'altura ed è cinta di grosse mura nelle quali si aprono tre porte, e nel mezzo c'è un solido castello. I pontifici ne hanno fatto una fortezza con feritoie, minacciante sul fianco chi da passo Corese, per la via Salaria, muovesse contro Roma. Garibaldi decìde d'impadronirsi della terra forte per aver libera e sicura la via per Roma. Egli dispone del grosso delle sue forze, 5000 uomini, e in Monterotondo non ci sono che 400 uomini scarsi con 2 cannoni. Ma i papalini sono in una posizione fortissima con mura inaccessibili, bene armati, mentre i garibaldini sono allo scoperto, male armati con 2 piccole vecchie colubrine quale unica artiglieria. Garibaldi spera d'impadronirsi del posto con un colpo di mano notturno, fatto dal Caldesi e dal Valzania, due intrepidi; ma l'azione fallisce. All'alba del 25 si tenta un'azione di viva forza contro le tre porte, ma anche questa non ha buon risultato. Alle tre pomeridiane nuovo attacco generale e nuovo scacco. Allora l'eroe ordina che nella notte sì senti' d'incendiare le porte. E così i volontari in attesa dell'azione notturna, «nudi, affamati e con le poche vesti bagnate, - narra Garibaldi, - si erano sdraiati sull'orlo delle strade che le dirotte pioggie dei giorni antecedenti avevano colmate di fango e rese quasi impraticabili ». Pure alle tre di notte i volontari si disponevano bravamente all'attacco definitivo. Una porta viene incendiata e poi battuta dal fuoco delle due colubrine, cosicché si riduce a un mucchio di rovine ardenti; e i garibaldini aspettano il momento d'avanzare. I pontifici, dietro, stanno tuttavia improvvisando una barricata, ma allora i garibaldini avanzano risolutamente e non li arrestano né i rottami ardenti ammonticchiati sulla soglia, né un carro messo di traverso come inizio della barricata né la grandine di fucilate. I garibaldini penetrano a furia in Monterotondo e i pontifici dopo breve resistenza si arrendono. Gli Antiboini però, rinchiusi nel castello, non vogliono cedere, ma appiccato anche qui il fuoco alla porta si arrendono a discrezione. Così l'antemurale di Roma è nelle mani dei garibaldini, i quali s'impossessano di 2 cannoni con 70 cariche; bottino prezioso in quel momento. Garibaldi era sereno e il suo cuore si apriva alla speranza.

Garibaldi rimane il 26-27-28 a Monterotondo per riordinare le sue forze e coordinare l'azione sua con quella dell'Acerbi dal territorio di Viterbo, del Pianciani verso Tivoli e del Nicotera da Prosinone verso Velletri. La mattina del 29, quando da poche ore il Pianciani è entrato a Tivoli festosamente accolto dalla popolazione, l'eroe muove verso Marcigliana, lungo la via Salaria; e qui sosta ponendo i suoi avamposti a Castel Giubileo e a Villa Spada. Il 30 avanza ancora occupando Castel Giubileo e spingendosi fino al ponte Nomentano e al Monte Sacro. Egli spera sempre che al suo avvicinarsi i romani insorgano, e aspetta un segnale che glielo indichi, ma tutto il 30 ottobre passa senza che nulla si oda dì rumor di combattimento e senza nemmeno che qualche avviso giunga dagli amici della città. In Roma è concentrato quasi tutto l'esercito papale, circa 15.000 uomini! La situazione va sempre peggiorando. Il governo italiano ha chiuso la frontiera, cosicché ai volontari non possono più giungere né viveri né armi né rinforzi (il numero dei volontari oscillò durante la campagna, perché essi spesso andavano e venivano, o nuovi volontari sopraggiungevano, mentre altri se ne tornavano a casa loro: non pare che Garibaldi abbia mai avuto più di 8000 uomini complessivi). Il 27, fallito il tentativo del generale Cìaldini di comporre un nuovo ministero, è divenuto presidente del Consiglio il generale L. F. Menabrea, savoiardo e conservatore, il quale ha assunto su di sé anche il ministero degli Esteri. Un proclama del re sulla «Gazzetta Ufficiale» sconfessa la spedizione: « Schiere di volontari, eccitati e sedotti dall'opera di un partito, senza autorizzazione mia né del mio Governo, hanno violato le frontiere dello Stato...; depositario del diritto della pace e della guerra, non posso tollerare l'usurpazione». Non solo, ma a Civitavecchia è sbarcato il generale De Failly, il quale ha annunziato al popolo romano con un proclama l'arrivo di un corpo di spedizione francese mandato da Napoleone III per «proteggere contro gli attacchi di bande rivoluzionarie il Santo Padre e il Trono Pontificio». E il 30 e 31 sbarca la prima delle due divisioni francesi. Scarso compenso a tutto questo l'arrivo del Nicotera colla sua colonna a Velletri. Il 31 Garibaldi da Castel Giubileo spinge una ricognizione verso ponte Nomentano, occupando Casale dei Pazzi e la tenuta della Cecchina. Due reparti pontifici in ricognizione fanno saltare il ponte Salario, e rientrano tosto in città. Anche ora però nessun accenno a movimenti insurrezionali in Roma, e Garibaldi decide allora la ritirata su Monterotondo. Ma numerosi volontari protestano: essi si erano mossi per andare contro Roma! Durante la marcia sono numerose le diserzioni. Al mattino dopo Garibaldi deve constatare che dei suoi 5000 più di 2000 mancano all'appello; e dalla popolazione dell'Agro Romano non sono giunti rinforzi. Si è discusso molto circa questa defezione; chi ne fece responsabile gli emissari regi, chi invece gli emissari di Mazzini. Costui ebbe a scrivere a Garibaldi: «Voi sapete ch'io non credevo nel successo ed ero convinto essere meglio concentrare tutti i mezzi sopra un forte movimento in Roma che non rompere nella provincia; ma una volta l'impresa iniziata giovai quanto potei». E l'eroe finì col ritenere che, se non il Mazzìni in persona, certo molti suoi seguaci agirono ora in modo disfattista. Senza dubbio il Mazzini voleva l'insurrezione in Roma, sperando di darle un carattere repubblicano; ma mancata quella e dato l'atteggiamento deciso di Napoleone III, ormai l'impresa poteva considerarsi fallita. Pure Garibaldi non sa adattarsi all'idea di ritirarsi dopo aver concluso tanto poco. Decide allora di spostarsi in altro luogo e precisamente a Tivoli, situata in posizione forte, dove la popolazione si è mostrata molto patriottica, coll'Appennino alle spalle, colla possibilità di comunicare colle province meridionali dove potrebbe trovare maggiori entusiasmi ed aiuti. Da Tivoli potrebbe iniziare, favorito dal terreno montano, una energica guerriglia per stancare il nemico e guadagnar tempo, il famoso beneficio del tempo, l'imprevisto che tanta parte ha nelle guerre e più che mai nelle rivoluzioni: forse Roma potrebbe insorgere, forse il popolo italiano potrebbe sollevarsi e non lasciarlo in olocausto coi suoi! Perciò ordina al colonnello Paggi di occupare Sant'Angelo, Montecelio e Monteporzio in modo d'aver assicurata la marcia da Monterotondo a Tivoli. Marcia ch'egli dispone con precise istruzioni scritte al figlio Menotti, che dovrà comandare la colonna. Alle quattro e mezzo del mattino, ossia ancora a buio, questa dovrà mettersi in movimento.

Ma in quello stesso giorno a Roma si è tenuto un consiglio di guerra tra il generale svizzero Kanzler, comandante delle truppe pontifice, e il generale francese De Failly; e si decide che il 3 novembre, alle quattro di notte, truppe pontificie e parte di quelle francesi muovano da Roma per attaccare Garibaldi a Monterotondo; circuirlo e catturarlo coi suoi se è possibile, e comunque rigettarlo energicamente oltre il confine di passo Corese. Garibaldi iniziava dunque una pericolosa marcia di fianco durante la quale si poteva essere assaliti sia di fronte che di fianco. Ma Garibaldi si decideva a muoversi dopo due giorni dacché aveva pensato a tale soluzione, quando ebbe notizia, nel pomeriggio del 2, che truppe nemiche sì disponevano a muovere da Roma contro di lui. Perché questo ritardo? I motivi non sono chiari: sperava in un movimento dell'opinione pubblica italiana o nell'appoggio di una parte almeno dell'esercito mandato a sbaragliare i volontari e i patrioti? Per di più l'ordine di marcia fu sospeso fino alle undici e mezzo, vale a dire fu ritardato di ben sette ore, e ciò perché il Menotti attendeva l'arrivo di scarpe, di cui i volontari avevano estremo bisogno prima d'iniziare una marcia, e voleva anche riordinare tutta la colonna, dopo le diserzioni, i mormorii, le lamentele, l'indisciplina degli ultimissimi giorni. Cosicché il piccolo esercito finì col muoversi a mezzogiorno. Garibaldi si mosse senza dire verbo, pensieroso e triste; a cavallo passò rapido e silenzioso davanti ai battaglioni schierati. Il servizio di esplorazione e di fiancheggiamento che tanto era stato prezioso, come sappiamo, nel '49, era ora affidato a un manipolo di guide mal montate e a uno smilzo battaglione di bersaglieri genovesi. Per di più questa avanguardia non precede abbastanza il grosso, restando distaccata da esso, e venne così meno in parte al suo importante ufficio. In conclusione, gli ordini chiari, accurati e precisi dati da Garibaldi non furono che imperfettamente eseguiti e mal sorvegliati. Nel piccolo esercito, accanto a elementi vecchi, buoni od ottimi, c'erano molti elementi scadenti che non avevano avuto il tempo di formarsi e migliorarsi, o d'essere selezionati.

La battaglia

Garibaldi collo Stato Maggiore aveva appena percorso circa tre chilometri di strada, quando in Mentana le guide annunziavano la comparsa dei pontifici, e presto s'intese il rumore della fucileria. A differenza di Monterotondo, Mentana si trovava in un avvallamento dominato dai poggi circostanti: bisognava dunque occupare le posizioni avanti al villaggio o portarsi dietro; e questa parve sulle prime l'opinione dominante; ma Menotti assicuro di poter tenere la posizione avanzata. Garibaldi subito dispose perché i volontari sì spiegassero alla destra, e quivi infatti l'avversario attaccava sulle prime; ma poi l'azione si andò estendendo al centro e alla sinistra, e da questa parte s'andò intensificando Io sforzo del nemico. La sinistra fini col cedere e Mentana parve per un momento perduta: «l'onda dei nemici, - scrisse il Guerzoni, - invadeva e sospingeva innanzi a sé l'onda non meno rapida dei fuggenti»; ma Garibaldi correva in persona a spostare e puntare contro il nemico i due cannoni conquistati a Monterotondo: i papalini tosto sì fermavano, i volontari riprendevano animo e allora Garibaldi lanciava quanta gente aveva intorno a una magnifica carica alla baionetta; e il nemico era respinto e inseguito di siepe in siepe e di dosso in dosso. Erano le due pomeridiane: ancora uno sforzo e la Villa Santucci, dominante alla sinistra garibaldina i poggi fuori Mentana, e già perduta, sarebbe stata ripresa. Ma all'improvviso un fuoco intenso partiva dalle file nemiche; ad onta di ciò la linea garibaldina avanzava e il fuoco nemico parve rallentare, ma purtroppo non era che una sostituzione di reparti. Entravano in linea, alla sinistra dei garibaldini, due Treschi battaglioni francesi; però l'uniformità delle divise e la somiglianzà di linguaggio e di comandi, li facevano confondere cogli Anti-boini. Comunque i nuovi nemici trovarono sulle prime una forte resistenza. Ma il fuoco nemico era sempre più micidiale (facevano meraviglie, com'ebbe a scrivere il generale francese De Faìlly, i famosi fucili a retrocarica chasse-pots!), Garibaldi correva a puntare i due cannoni, ma i 70 colpi di ciascuno erano già quasi esauriti; ad onta di ciò, la resistenza continuò e il retrocedere fu questa volta lento, ma la giornata, vinta alle due pomeridiane, alle quattro poteva dirsi perduta. Dopo due ore di lotta tenace, cominciava di nuovo lo sbandamento: «Garibaldi pallido, rauco, cupo, invecchiato di vent'anni, seguito dall'indivisibile Canzio, urlava ai fuggenti: "sedetevi che vincerete!"» Ma invano; pure i francesi avanzavano con la massima cautela profittando della più lunga gittata dei loro fucili; ma non una carica alla baionetta, non una mossa risoluta: la loro manovra avviluppante contro la sinistra garibaldina si arrestò presto; per dirla col Guerzoni «era un combattimento fra gente che fuggiva e gente che non avanzava», e i franco-papalini erano ormai 9000 contro 4000. La battaglia era perduta, ma il generale non si rassegnava al doloroso rovescio; a cavallo, alla testa di 200 valorosi, affrontava nuovamente il nemico, gridando disperatamente «Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?» E allora, ancora una volta, i garibaldini si stringono attorno a lui, e la carica impetuosa riesce ad arrestare il nemico. Esso però continua il fuoco intenso e anche i garibaldini devono sostare. Garibaldi vorrebbe trascinarli ancora avanti, ma Stefano Canzio gli si pone davanti, afferra le reclini del cavallo e grida: «Per chi vuole farsi ammazzare generale, per chi?» Per di più le munizioni sono quasi finite; e Garibaldi da l'ordine della ritirata. Sono le cinque pomeridiane; Ì resti dei tre battaglioni Burlando, Missori e Frigyesi, un insieme di 1500 uomini, rimangono asserragliati in Mentana per coprire la ritirata, e vi si mantengono tenacemente fino al mattino successivo, allorché devono capitolare. Intanto il grosso s'è ritirato a Monterotondo, e alle otto di sera la colonna riordinatasi proseguiva per Passo Corese. Scrisse Alberto Mario: «Garibaldi cavalcava in testa della lugubre processione, taciturno e solo. Nessuno parlava; non udivasi che la cadenza di passi lenti, e cielo color di piombo formava l'aria appropriata di questo quadro meritevole del pennello d'Induno». Arrivato al Passo Corese Garibaldi trovò il colonnello Caravà, già suo soldato, e gli disse: «Colonnello, siamo stati battuti, ma potete assicurare i nostri fratelli dell'esercito che l'onore delle armi italiane fu salvo». I volontari avevano avuto a Monterotondo circa 200 fra morti e feriti, e a Mentana 150 morti e 240 feriti e inoltre 1600 prigionieri; i pontifici avevano 30 morti e 103 feriti, e i francesi, parrebbe, 2 morti in tutto: essi avevano combattuto a distanza con armi superiori senza poter essere controbattuti. È ben noto come il giorno appresso, salito Garibaldi in ferrovia col proposito di tornarsene a Caprera, giunto a Figline, fra Arezzo e Firenze, il convoglio fosse fatto arrestare; e l'eroe fatto ripartire in stato d'arresto col solo Canzio, suo genero; molti vagoni di bersaglieri precedevano e seguivano il treno. Condotto al Varignano, presso La Spezia, vi rimaneva per tre settimane, e la sera del 26 novembre era imbarcato per Caprera. Nell'uscire dal suo secondo carcere aveva scritto: «Addio Roma, addio Campidoglio. Chissà chi e quando a te penserà!».

Le conseguenze

La cosiddetta campagna dell'Agro Romano era durata dodici giorni in tutto, ed era terminata col duplice doloroso insuccesso dell'insurrezione di Roma e della sconfitta di Garibaldi di fronte alle armi collegate pontifìcie e francesi. Essa in verità era stata preceduta e accompagnata dall'azione di 200 emigrati romani alla fine del settembre, che colla loro impazienza avevano mandato a male il piano già preparato dai vari capi. Tuttavia questi a Bagnorea avevano fugato i papalini facendo dei prigionieri ad Acquapendente e a Bagnorea, e assaliti da 1200 papalini si erano battuti con disperato valore, provocando nel nemico gravi perdite; ma avevano dovuto poi retrocedere. E anche l'Acerbi era stato costretto ad abbandonare Viterbo. Il Menotti, obbligato anch'egli come l'Acerbi a intervenire prima del previsto, giunto a Montelibretti con 600 uomini era stato attaccato vivamente dai pontifici e li aveva respinti in sanguinoso combattimento; aveva però dovuto retrocedere. Il Nicotera, spintosi in seguito con 700 uomini verso Frosinone, aveva preso Monte San Giovanni, poi l'aveva abbandonato, e infine aveva il 25 ottobre mandato il battaglione Raffaele De Benedetto a riprenderlo. L'attacco era fallito di fronte ai papalini spalleggiati da elementi reazionari della popolazione; tuttavia si era avuto un episodio eroico: 37 garibaldini, col capitano Bernardi e il maggiore De Benedetto, rimasti tagliati fuori e contrattaccati si erano riparati in una casa difendendosi eroicamente. Dato fuoco al Pedifizio i difensori si gettavano alla fine sopra una tettoia sottostante, e sprofondata questa si aprivano il passo combattendo disperatamente. Di 37 uomini, 17 caddero morti e feriti e gli altri poterono ricongiungersi al grosso. E fulgido soprattutto fu l'episodio dei 75 garibaldini guidati da Enrico Cairoli, veterano del '59 e del '60, ove era stato ferito a Calatafimi, d'Aspromonte e del '66, e da Giovanni, capitano del genio nell'esercito regolare. Enrico Cairoli dispose la difesa dello sprone dei monti Parioli al confluente dell'Aniene nel Tevere con consumata abilità e la diresse poi con grande eroismo e tutti i suoi sì batterono egregiamente. Ma furono sopraffatti dal numero soverchiante di un nemico armato di ottime carabine. Le colonne che agirono, pur con azione non coordinata, mostrarono tuttavia valore e slancio. Le schiere che combatterono agli ordini diretti di Garibaldi nelle azioni contro Monterotondo si erano bravamente battute, ma la ritirata da Roma insieme colla notizia dello sbarco dei francesi a Civitavecchia e col proclama del re, in uno con la persuasione che, fallita ormai l'insurrezione romana, non rimanesse più speranza che il tentativo potesse rinnovarsi, tutto ciò portava a impressionanti diserzioni. D'altra parte non solo Roma, ma quasi tutto il Lazio aveva mostrato scarsa volontà d'insorgere e i plebisciti fatti fare in ultimo e a furia in alcune terre occupate dai garibaldini, non indicavano da sé soli che la popolazione fosse disposta davvero a battersi. Si comprende quindi la crisi di sfiducia nei volontari e l'inizio dello sbandamento. Oltre a ciò, conoscendo l'animo di Garibaldi ci si spiega come egli, che nel '48 da Castelletto Ticino era tornato in Lombardia a riprendere la lotta, non si rassegnasse ora a cedere senza aver tentato un supremo sforzo. Ma certo solo nel '60 in Sicilia egli aveva veramente potuto coordinare la sua azione con quella dell'insorgenza delle campagne e della conseguente guerra di bande. Parve ai detrattori dì Garibaldi di vedere ora un declino dell'uomo ormai sessantenne, e un declino della sua popolarità e del grande suo fascino di trascinatore di uomini. Ma in realtà la cosa è molto discutibile; c'è sempre un limite al genio strategico, limite dato dalla sproporzione delle forze e dal contegno ostile, o semplicemente passivo o nettamente sfavorevole, della popolazione della zona in cui si opera. Certo egli iniziò le operazioni il 23 quando il tentativo d'insurrezione romana, elemento indispensabile dell'impresa, era fallito la sera prima; e perse due giorni attorno a Monterotondo, ove non erano che 400 uomini che avrebbero potuto facilmente esser bloccati; ma egli desiderava probabilmente affermarsi con un successo, e in fondo, pur con tanta inferiorità d'armi, lo ottenne. Ma poi indugiava ancora a muovere su Roma. È evidente qui che Garibaldi non poteva con 7 o 8000 uomini prendere una città murata e con lavori di rafforzamento in vari punti esterni, e presidiata da oltre 10.000 soldati regolari, senza un'insurrezione della città e senza un vigoroso appoggio delle campagne, rimaste passive, o senza un movimento d'opinione in Italia che trascinasse parte dell'esercito. Ma nulla di questo avveniva e il governo e il re prendevano anzi un atteggiamento nettamente ostile all'impresa ormai fallita.

Già la mattina del 31 ottobre vari amici venuti da Firenze per parlare con Garibaldi avevano insistito perché egli desistesse dalla lotta, ormai senza speranza. E la decisione di continuare non era tuttavia frutto solo di caparbia e cieca ostinazione, ma rientrava nella vecchia dottrina mazziniana delle minoranze virtuose, del sacrificio che non è mai sterile. Una città, Tivoli, era in mano dei garibaldini e sembrava animata da ardente patriottismo, e l'idea di marciare su di essa e farne una nuova base d'operazione al posto di quella di Monterotondo, aveva una sua logica. Monterotondo, vicina al Passo Corese, ossia al confine, non si prestava più per ricevere aiuti, bensì quale incentivo alle diserzioni, così come era stato il confine svizzero nel '48. Non solo, ma la posizione di Monterotondo per quanto forte si prestava ad essere aggirata e circondata da un nemico superiore di numero. Tivoli, al contrario, in posizione ancora più forte con un fiume davanti, con catena di contrafforti ai fianchi e diverse strade di ritirata in caso di rovescio, ampia, popolosa, fornita di vettovaglie, assai meglio si prestava quale nuova linea d'operazione. Se non che, presa la decisione, Garibaldi anche ora tardava due giorni a mandarla ad effetto, e si decise soltanto nel pomeriggio del 2 a dare gli ordini per la marcia del giorno successivo, quando seppe che truppe nemiche si disponevano a muovere da Roma contro di lui. Anche ora il fattore politico influiva molto sulle sue decisioni; e la sua decisione lo portava a fare una marcia di fianco assai pericolosa, durante la quale avrebbe potuto essere assalito sia di fronte che di fianco. Bisogna però tener presente che fin dal 1° novembre Garibaldi aveva disposto per l'occupazione dei poggi che da Tivoli si stendono verso Monterotondo, da parte di un migliaio d'uomini del colonnello Pianciani, e che egli aveva disposto la marcia per la mattina alle quattro e mezzo, prima dell'alba, cosicché il generale Kanzler e il generale De Failly, che ignoravano l'intenzione di Garibaldi di portarsi a Tivoli, avevano disposto di puntare, sia pure con una duplice colonna, dalla via Salaria e dalla via Nomentana su Monterotondo, e di far partire alla stessa ora, quattro e mezzo del mattino, le loro truppe; in tal modo senza il ritardo di ben sette ore, provocato dal Menotti che voleva attendere l'arrivo delle scarpe, di cui i volontari avevano è vero molto bisogno ma non stretta impellente necessità, i franco-papalini avrebbero fatto una puntata nel vuoto.

Certo Garibaldi consenti' a questo ritardo, e, come capo dell'impresa, la responsabilità di esso ricade soprattutto su di lui; pare certo però che egli non ritenesse d'aver contro anche i francesi e che non giungesse a capacitarsi che i soldati di Solferino, i liberatori del 1859, muovessero ora contro gli italiani che volevano la loro capitale. Eppure gli stessi soldati italiani lo avevano fermato e ferito ad Aspromonte, mentre egli mirava a Roma e si affannava a gridare ai suoi di non fare fuoco per evitare la lotta fratricida! Comunque le disposizioni da lui date per l'avanguardia e il fiancheggiamento erano ottime, ma furono attuate solo in parte e tardivamente; e Garibaldi, l'uomo avvezzo a sorprendere il nemico e a ingannarlo circa le proprie intenzioni, si trovò questa volta a subire la sorpresa. Al solito la responsabilità della cattiva esecuzione dei propri ordini finisce sempre col ricadere sul capo. Ma se l'abilità e la tempra d'un grande condottiero si rivelano soprattutto nella capacità di far fronte e di rimediare a situazioni nuove, impreviste o mal previste e di conseguenza difficili, bisogna pur riconoscere che Garibaldi seppe fronteggiare bravamente la situazione, pur con forze inferiori. L'azione pontificia contro la sinistra garibaldina era logica perché mirava a tagliare a Garibaldi la ritirata su Monterotondo e Passo Corese, anche se tatticamente più difficile, e fu condotta non senza abilità dai papalini, che avevano chiesto, sembra, di marciare in prima linea tenendo i francesi come riserva. Che la perdita di Villa Santucci, il caposaldo della sinistra garibaldina, debba imputarsi a diminuito spirito dei garibaldini, può darsi; comunque Garibaldi seppe fronteggiare la situazione, fermare il nemico avanzante coll'artiglieria e contrattaccarlo poi alla baionetta: la decisione ultima veniva lasciata al «freddo acciaio », secondo l'espressione cara a Garibaldi. E la battaglia stava per volgersi favorevolmente a Garibaldi, quando, chiamata d'urgenza, interveniva una brigata francese e qui la superiorità dei nuovo fucile a retrocarica con assai maggiore celerità di tiro e conseguente potenza di fuoco delle schiere e la maggiore gittata dell'arma, davano una superiorità incontrastabile ài francesi. Si riaffacciava in tutta la sua crudezza l'antico problema della reale efficienza dell'azione tattica risolutiva all'arma bianca di fronte a quella dell'azione tattica distruttiva dell'arma da getto o da fuoco; principio e contrasto antico quanto la guerra e riapparso nel secolo XVIII nel contrasto tra i fuochi di fila e la carica alla baionetta. Garibaldi era stato un vivace e tenace assertore del principio della superiorità dell'azione tattica risolutiva all'arma bianca, e l'applicazione del principio aveva permesso tante volte di rimediare all'inferiorità delle armi da fuoco di cui i garibaldini disponevano. Ma già nella campagna del Trentino egli aveva dovuto sperimentare come di fronte alle carabine dei cacciatori tirolesi, sostenute per di più dal vantaggio del terreno, l'azione tattica risolutiva non desse sempre i risultati desiderati. E ora più che mai la cosa si faceva manifesta. Le cariche alla baionetta si arrestavano, e falliva anche l'ultima disperata carica da lui tentata; d'altra parte i francesi, paghi di poter colpire senza essere colpiti dalle pallottole dei «catenacci» garibaldini né raggiunti dai loro disperati attacchi alla baionetta, si contentavano di seguire facendo fuoco a distanza, e Garibaldi, anche per il sacrificio della sua retroguardia, poteva proseguire indisturbato la ritirata. Garibaldi era uomo del resto da rimediare come tutti i grandi capitani ai propri errori; ma di fronte a un accumularsi di situazioni politiche avverse e d'una condizione di numero e d'armi troppo inferiore doveva cedere all'avverso destino. Nell'errore dei grandi uomini e delle grandi coscienze però vi e' sempre un elemento di verità e un'aura di futuri successi. La tragedia di Mentana sanciva nel modo più decisivo la volontà italiana e il diritto della nazione su Roma, svincolava l'Italia dal debito di gratitudine verso un paese dominato da una fazione retrograda e liberticida, e preparava l'immancabile ritorno di Roma nella grande famiglia italiana.



Tratto da:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962