Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Luceria

320 a.C.

Gli avversari

Lucio Papirio Cursore (L. Papirius Sp. f. L. n. Cursor)

Uomo politico romano e uno dei migliori generali durante la seconda guerra sannitica. Pretore nel 332 a. C., presentò la legge per il conferimento della cittadinanza senza suffragio ad Acerra. Fu cinque volte console, negli anni 326, 320, 319, 315, 313; secondo le testimonianze antiche due volte dittatore, nel 325 e nel 310, tre volte trionfatore, nel 325, nel 320, nel 310, ma i moderni ritengono falsa la seconda dittatura e mettono in dubbio i trionfi. La tradizione, che si presenta molto malsicura anche per gravi divergenze, gli attribuisce una vittoria sui Sanniti nel 325 e, cosa per niente credibile, la rivincita del disastro caudino nel 320; degna di maggior fede appare la conquista e la punizione di Satrico nel 319; certe le sue fortunate operazioni in Apulia nel 315, quando, secondo alcuni, Papirio conquistò Luceria; non del tutto improbabile la vittoria con cui nel 310 vendicò la sconfitta da C. Marcio Rutilo. Durante il consolato del 326 Papirio sarebbe stato, assieme al collega C. Petelio, autore della famosa lex Poetelia-Papiria in favore dei debitori; tale legge però è anche attribuita al dittatore Petelio, nel 313. Per le sue particolari doti Papirio può essere considerato un tipico rappresentante dei romani del buon tempo antico (per il suo conflitto con Fabio v. fabio rulliano). L'annalistica e Livio lo esaltarono come un generale degno di stare alla pari di Alessandro Magno.


Quinto Publìlio Filóne (lat. Q. Publilius Philo)

Console (339 a. C.), sconfisse i Latini ai Campi Fenectani. Primo dittatore plebeo, ottenne alla plebe importanti rivendicazioni; censore (332), console (327), conquistò l'anno successivo Palepoli, il nucleo originario di Napoli, ottenendo il trionfo; nel terzo consolato (320) riportò una vittoria sui Sanniti; fu ancora console (315).


Gaio Pònzio (lat. Gaius Pontius)

Generale sannita, vincitore dei Romani alle Forche Caudine (321 a. C.); fu quindi vinto dal console Quinto Fabio Massimo, deportato a Roma e giustiziato.

La genesi

I Sanniti, che al posto di una pace imposta con arroganza vedevano rinascere una guerra minacciosa, avevano non solo nell'animo ma quasi di fronte agli occhi il presentimento di quello che poi accadde. Ed elogiavano tardi e invano entrambi i suggerimenti dell'anziano Ponzio, perché, caduti com'erano a metà tra l'uno e l'altro, avevano barattato il possesso della vittoria con una pace priva di garanzie. Perduta così l'occasione di danneggiare il nemico o di arrecargli un beneficio, avrebbero dovuto misurarsi con quegli uomini che sarebbe stato loro possibile eliminare una volta per tutte come nemici o rendersi amici per sempre. E anche se non c'era ancora stata una battaglia in cui una delle due parti avesse avuto il sopravvento, dopo la pace di Caudio la condizione psicologica era così cambiata, che tra i Romani Postumio si era guadagnato più gloria dall'essersi consegnato ai nemici, di quanta non ne fosse toccata a Ponzio tra i Sanniti per la vittoria ottenuta senza spargimento di sangue. Per i Romani era già una vittoria sicura poter fare la guerra, mentre i Sanniti ritenevano che la ripresa della guerra fosse per i nemici come aver già avuto la meglio. Nel frattempo gli abitanti di Satrico passarono dalla parte dei Sanniti, e la colonia di Fregelle venne occupata dai Sanniti durante la notte con un'azione a sorpresa (a quanto pare assieme a loro c'erano anche dei Satricani). Così fu il timore reciproco a mantenere tranquille entrambe le parti fino all'alba. Il sorgere del giorno segnò l'inizio dello scontro, sostenuto per parecchio tempo alla pari dagli abitanti di Fregelle, che combattevano per i propri altari e focolari; anche la popolazione inerme collaborava, dai tetti delle case. La battaglia venne poi decisa da un trabocchetto, quando i Sanniti lasciarono risuonare la voce di un araldo che proclamava l'incolumità per chi avesse deposto le armi. Questa speranza smorzò negli animi la voglia di combattere, e da ogni parte iniziarono a gettare a terra le armi. I più ostinati si aprirono la strada con le armi attraverso la porta di fronte al nemico, e per loro l'audacia fu più sicura di quanto non fosse stata la paura per gli altri che si erano incautamente fidati, e che, invocando invano gli dei e il rispetto della parola data, vennero avvolti dalle fiamme e bruciati vivi dai Sanniti. I consoli si divisero le zone di operazione ricorrendo alla sorte: Papirio partì per l'Apulia alla volta di Luceria (dove erano imprigionati i cavalieri romani dati in ostaggio a Caudio), mentre Publio si fermò nel Sannio per fronteggiare le legioni di Caudio. Questa mossa tenne in allarme i Sanniti, che non avevano il coraggio di spingersi fino a Luceria per paura che i nemici li inseguissero alle spalle, né di rimanere lì fermi, nel timore che Luceria finisse nel frattempo in mano ai Romani. L'ipotesi più praticabile sembrò quella di tentare la fortuna e di scontrarsi in campo aperto con Publilio. Per questo schierarono l'esercito in ordine di battaglia.

Quando ormai era sul punto di attaccare battaglia, il console Publilio, pensando fosse opportuno rivolgere un appello ai suoi uomini, fece convocare l'assemblea. E tutti accorsero in massa con grande entusiasmo presso il pretorio, col risultato che il trambusto impedì ai soldati di sentire le parole del comandante: ciascuno era già esortato dalla propria coscienza, memore dell'umiliazione subita. E così si gettarono nella mischia sollecitando i portainsegne e, per non rallentare il combattimento lanciando prima i giavellotti e poi sguainando le spade, come avessero ricevuto un ordine in proposito, deposero a terra i giavellotti, e con le spade in pugno si lanciarono di corsa contro il nemico. In quella circostanza non ebbe alcuna incidenza la perizia strategica del comandante nel disporre i manipoli e le truppe di riserva, perché tutto fece con impeto quasi folle la rabbia dei soldati. Così i nemici non soltanto furono sbaragliati, ma non avendo il coraggio di porre fine alla fuga nemmeno all'interno dell'accampamento, si diressero in disordine verso l'Apulia. Ciò nonostante arrivarono a Luceria con l'esercito di nuovo inquadrato e compatto. La stessa rabbia che aveva spinto i Romani in mezzo alle fila nemiche li trascinò anche all'interno dell'accampamento. Là ci furono sangue e massacri più ancora che nel pieno dello scontro, e la maggior parte del bottino andò distrutta in una mischia rabbiosa. L'altro esercito alla guida di Papirio era arrivato fino ad Arpi seguendo la costa, dopo esser stato accolto in maniera pacifica da tutte le popolazioni incontrate lungo la strada (più per le violenze subite da parte dei Sanniti e per il risentimento nei loro confronti che per aver ricevuto un qualche beneficio dal popolo romano). Infatti i Sanniti, da quel popolo di montanari e contadini che erano, visto che in quel tempo abitavano in villaggi sui monti, disprezzavano gli abitanti delle pianure in quanto più molli e, come di solito succede, simili alle terre nelle quali vivevano. Così molto spesso mettevano a ferro e fuoco le zone della pianura e quelle lungo la costa. Se questa area fosse rimasta fedele ai Sanniti, l'esercito romano non sarebbe stato in grado di arrivare ad Arpi, oppure - impedito di rifornirsi - sarebbe stato messo in ginocchio dalla mancanza di viveri. Eppure, anche così, una volta partiti da Arpi alla volta di Luceria, tanto gli assedianti quanto gli assediati furono afflitti dalla carestia. Ai Romani veniva fornita ogni cosa da Arpi, però soltanto in quantità molto ridotta: i cavalieri che dalla città portavano all'accampamento il frumento in sacchetti ai soldati impegnati nei servizi di guardia e di vigilanza e nei lavori di fortificazione, a volte, quando si imbattevano nel nemico, erano costretti ad abbandonare i viveri per combattere. Gli assediati invece, prima che arrivasse l'altro console con l'esercito vincitore, ricevevano vettovaglie e rinforzi dai monti del Sannio. Ma l'arrivo di Publilio rese tutto più difficile, perché - dopo aver lasciato al collega il compito di occuparsi dell'assedio ed essendo libero di girare per le campagne - il console sbarrò tutti gli accessi ai rifornimenti dei nemici. E così, siccome gli assediati non avevano alcuna speranza di resistere più a lungo alla fame, i Sanniti accampati presso Luceria, dopo aver raccolto forze da ogni parte, furono costretti a scontrarsi in campo aperto con Papirio.

Lo scontro a Caudio

In quel momento, mentre i due schieramenti si preparavano allo scontro, da Taranto arrivarono degli ambasciatori che intimarono a Romani e Sanniti di rinunciare alla guerra: qualunque delle due parti si fosse opposta alla cessazione delle ostilità avrebbe dovuto combattere contro i Tarentini, schierati a fianco dell'altra. Udite le parole degli inviati, Papirio, fingendo di esserne rimasto turbato, rispose che si sarebbe consultato con il collega. Dopo averlo fatto convocare, avendo trascorso con lui tutto il tempo nei preparativi della battaglia e aver passato in esame con lui una cosa già decisa, diede il segnale di battaglia. Mentre i consoli erano impegnati nei sacrifici e nei preparativi che di solito precedono uno scontro campale, gli ambasciatori di Taranto si fecero loro incontro aspettando una risposta. Papirio replicò con queste parole: "O Tarentini, il sacerdote ci fa sapere che gli auspici sono favorevoli. E poi, i sacrifici sono stati propizi. Come potete ben vedere, ci buttiamo nella mischia sotto la guida degli dei". Diede così ordine di avanzare e si mise alla testa delle truppe, biasimando la superficialità di quelle genti che, incapaci com'erano di governarsi a causa delle discordie e dei sommovimenti interni, avevano l'ardire di dettare legge agli altri in materia di guerra e di pace. Dalla parte opposta i Sanniti, che avevano tralasciato ogni preparativo bellico - vuoi perché davvero volevano la pace, vuoi perché conveniva loro il fingerlo per assicurarsi l'appoggio dei Tarentini -, quando videro che i Romani si erano schierati in tutta fretta pronti a dare battaglia, urlarono di voler restare agli ordini dei Tarentini e di non avere intenzione di scendere in campo né di portare le armi al di là della trincea: anche se raggirati, avrebbero sopportato qualunque tipo di sciagura, pur di non dare l'impressione di disprezzare le proposte di pace dei Tarentini. I consoli dissero di accogliere quelle dichiarazioni come un augurio, e di pregare gli dei affinché ispirassero ai nemici il proposito di non difendere nemmeno la trincea. Dopo essersi divisi le truppe tra di loro, si avvicinano ai dispositivi di difesa del nemico e li assalgono contemporaneamente da ogni punto: e mentre alcuni riempivano il fossato e altri sradicavano la trincea fortificata gettandola nel fossato, poiché non solo il valore innato ma anche il risentimento stimolava gli animi esacerbati dall'umiliazione, i Romani irruppero all'interno del campo nemico. Ciascuno ricordava di non avere di fronte a sé né le Forche né le gole impraticabili di Caudio, dove cioè l'inganno aveva avuto superbamente la meglio sull'errore, ma solo il valore romano che né la trincea né il fossato riuscivano a trattenere: massacrarono senza distinzione chi opponeva resistenza e chi si dava alla fuga, inermi e armati, schiavi e liberi, bambini e adolescenti, uomini e bestie. E non sarebbe sopravvissuto nessun essere vivente, se i consoli non avessero fatto suonare la ritirata, e non avessero spinto via a forza, con ordini carichi di minacce, gli uomini assetati di sangue. E ai soldati inferociti per l'interruzione imposta al piacere della vendetta i consoli tennero immediatamente un discorso, per ricordare loro che essi non erano né sarebbero stati secondi a nessuno dei soldati quanto a odio nei confronti dei nemici: anzi, come li avevano guidati in guerra, così li avrebbero portati a una vendetta senza pietà, se il pensiero dei 600 cavalieri tenuti in ostaggio a Luceria non avesse frenato la loro animosità, per paura che i nemici, non avendo più speranze di poter essere perdonati, si lasciassero trascinare ciecamente a uccidere i prigionieri, scegliendo così di annientare prima di essere annientati. I soldati salutarono queste parole con un applauso, soddisfatti che i loro animi impetuosi avessero trovato un freno, e si dissero pronti ad affrontare qualunque tipo di sofferenza, pur di evitare che venisse compromessa la salvezza di tanti nobili giovani romani.

L'assedio finale

Tolta l'assemblea, venne convocato un consiglio per stabilire se si dovesse aggredire Luceria con tutte le forze, oppure inviare nei dintorni uno degli eserciti consolari col comandante al fine di sondare le intenzioni degli Apuli, la cui posizione era ancora incerta. Il console Publilio, partito per una missione di perlustrazione attraverso l'Apulia, con una sola spedizione sottomise alcune popolazioni con l'uso della forza, mentre altre le accolse con patti all'interno della coalizione romana. Anche per Papirio, che si era fermato ad assediare Luceria, l'esito degli eventi fu in breve commisurato alle speranze. Infatti, dato che tutte le strade attraverso le quali arrivavano i rifornimenti dal Sannio erano bloccate, i Sanniti che erano di guarnigione a Luceria, vinti dalla fame, inviarono degli ambasciatori al console romano, invitandolo ad abbandonare l'assedio, una volta riavuti i cavalieri che erano la causa del conflitto.

Le conseguenze

Papirio rispose loro che, circa il trattamento da riservarsi agli sconfitti, avrebbero dovuto andare a consultarsi con Ponzio figlio di Erennio, l'uomo che li aveva convinti a far passare i Romani sotto il giogo. Ma visto che preferivano farsi imporre delle condizioni giuste dai nemici piuttosto che proporne essi stessi, ordinò di comunicare a Luceria che venissero lasciati all'interno delle mura le armi, i bagagli, le bestie da trasporto e l'intera popolazione civile. Quanto ai soldati, li avrebbe fatti passare sotto il giogo con un solo indumento addosso, più per vendicare l'umiliazione subita che per infliggerne una nuova. Non venne respinta alcuna delle condizioni. A passare sotto il giogo furono in 7.000 soldati, mentre a Luceria venne rastrellato un ingente bottino. Tutte le insegne e le armi perdute a Caudio vennero riprese, e - gioia questa superiore a ogni altra - furono recuperati i cavalieri consegnati dai Sanniti affinché venissero custoditi a Luceria come pegno di pace. Con quell'improvviso ribaltamento di fatti, nessuna vittoria del popolo romano fu più splendida, e ancor di più se poi è vero quanto ho trovato presso alcuni annalisti, e cioè che Ponzio figlio di Erennio, comandante in capo dei Sanniti, venne fatto passare sotto il giogo insieme agli altri, affinché espiasse l'umiliazione inflitta ai consoli. Il fatto che non sia certo se anche il comandante nemico sia stato consegnato e fatto passare sotto il giogo non mi sorprende troppo: è molto strano invece che persistano incertezze se quella campagna a Caudio e quindi a Luceria l'abbia condotta il dittatore Lucio Cornelio con Lucio Papirio Cursore in qualità di maestro di cavalleria, e Lucio Cornelio abbia trionfato, unico vendicatore dell'ignominia inflitta ai Romani, con il trionfo che ritengo probabilmente il più giusto fino a quei giorni dai tempi di Furio Camillo, oppure se quell'onore sia da ascrivere ai consoli e in particolare a Papirio. Ma a questo dubbio ne tiene dietro un altro: se cioè nelle successive elezioni sia stato eletto console per la terza volta Papirio Cursore (insieme a Quinto Aulo Cerretano console per la seconda volta), a seguito di un rinnovamento della carica per la vittoria ottenuta a Luceria, oppure Lucio Papirio Mugillano, e l'errore si sia verificato nella trascrizione del nome.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX