Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di La Motta

7 ottobre 1513

Gli avversari

Bartolomeo d'Alviano (Rocca d'Alviano 1455 - Bergamo, 7 ottobre 1515)

Nato a Rocca d'Alviano (Umbria) nel 1455, della famiglia dei Liviani, imparentato con le altre maggiori stirpi principesche, nelle quali la professione militare era un'arte ereditaria, l'Alaviano fu tra i maggiori capitani del Rinascimento. La sua fortuna politica e militare è strettamente congiunta agli atteggiamenti degli Orsini, che, partecipi e artefici dei turbinosi eventi dell'epoca, avevano in lui un fedele collaboratore. Soltanto agli inizi della carriera, cioè nel 1478, egli, al soldo del papa e del re di Napoli nella guerra contro Lorenzo de' Medici, combatté gli Orsini, che militavano sotto le insegne fiorentine. Poi, direttamente o indirettamente, obbedì alle fortune e alle disavventure della parte orsina, che lo sospinse sui più diversi teatri di lotta, ove quella irrequieta famiglia si gettava, avida di guadagno e di potenza. Già nelle terre del Patrimonio l'Alviano aveva combattuto: specialmente nel 1496, per difendere Bracciano, Anguillara e Trevignano contro papa Alessandro VI e i Colonnesi, e favorire così il risorgere della casa Orsini, momentaneamente in declino. Poi, nel 1497, tentò inutilmente un colpo di mano su Firenze per riporvi Piero de' Medici. Nel 1503 combatteva nel Napoletano al servizio del re di Spagna contro i Francesi; e fu in gran parte merito suo la vittoria riportata dall'esercito spagnolo presso il Garigliano: vittoria che poneva fine alla guerra nel Mezzogiorno. "Bartolommeo fu quello che ci tolse il Regno", ebbe a dire il cardinale d'Amboise, ministro di Luigi XII (Desjardins, Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, II, Parigi 1861, p.119). Fallito, nel 1505, un nuovo tentativo contro Firenze, egli passava definitivamente al soldo di Venezia, insieme con Niccolò Orsini, conte di Pitigliano (1507). Venezia era allora il solo grande stato della penisola (inferiore solo allo Stato della Chiesa), che, per potenza politica e per opulenza di mezzi, potesse offrire, a chi ne aveva capacità, i mezzi per raggiungere alte mete, tanto che i migliori condottieri ricercavano il suo soldo. L'Alviano entrava al suo servizio nel momento in cui la potenza della repubblica toccava l'apice, ma anche nel momento più pericoloso, quando i nemici cominciavano a premere sulla sua temuta preponderanza. Abile soldato, ma non sagace politico (l'arte militare, che egli conosceva, era quella di un tecnico esperto e audace, sprezzante dei pericoli), egli non accoppiava alle doti di combattente, un adeguato acume politico, tanto da diventare, come il grande suo predecessore, il Colleoni, artefice di situazioni politico-militari decisive. Ebbe tuttavia un periodo di grande fortuna nel 1508, anno in cui egli, penetrato in pieno inverno tra le balze del Cadore, sconfiggeva i Tedeschi dell'imperatore Massimiliano (23 febbraio), occupando poi, in seguito alla vittoria, Pordenone, Gorizia, avanzando nell'Istria.

Eppure, se la sua figura primeggia sul campo di battaglia, egli non riuscì ad essere il geniale dominatore del momento politico-militare italiano. La sua opera militare non si riannoda a un piano organico: è fatta di azioni brillanti ed eroiche, ma senza continuità, svolte con la fedeltà e la sagacia dell'esecutore piuttosto che dell'ideatore e del creatore. D'altra parte il governo veneto, dopo l'esperienza del Colleoni, non amava troppo i soldati che pretendessero interferire in materia estranea alla loro competenza. Il patriziato veneto era troppo geloso delle sue prerogative per tollerare estranee inframmettenze che turbassero i lineamenti di quel pensiero politico che era dibattuto nelle aule ducali, con anima e mente puramente veneziane. Il riserbo dell'Alaviano in questa materia lo rese più gradito agli uomini politici, la sola categoria che poteva essere in grado di valutarne e di apprezzarne il valore e la perizia sul campo di battaglia. Questa unilateralità, che diminuiva la stessa efficienza militare veneziana, in quanto subordinava all'azione bellica alle considerazioni politiche (a cui i responsabili della condotta della guerra erano tenuti estranei) costò a Venezia la disfatta disastrosa di Agnadello (14 maggio 1509). L'Alviano, che era stato posto a capo dell'esercito veneziano insieme con Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, e che con la sua impetuosità aveva provocato la battaglia, cadde prigioniero dei Francesi e rimase in prigionia fino al 1513. Quando, nel 1513, egli riprese il suo posto di comando, come capitano generale della Serenissima, la posizione politica e militare della Repubblica veneziana, fatta nuovamente gravitare nell'orbita di quella francese, era altrimenti orientata, e l'azione del comandante delle truppe al servizio di Venezia era vincolata, anche militarmente, dal gioco delle alleanze internazionali, sulle quali il consiglio del soldato non esercitava alcuna influenza. Così l'Alviano fu, tutto sommato, ridotto ad un'attività, che non poteva essere decisiva: nuovamente sconfitto dagli Spagnoli, nella battaglia de La Motta, presso Vicenza (7 ottobre 1513), riportò in seguito alcune vittorie nel Veronese e nel Friuli, contro gli imperiali. Infine, nel 1515, in soccorso di Francesco I re di Francia, le sue schiere, spostate con fulminea rapidità dai campi veronesi ai piani lombardi, determinavano il tracollo definitivo degli Svizzeri nella battaglia di Marignano (14 settembre 1515). Fu il suo ultimo fatto d'armi: la morte lo sorprese poco dopo, a Bergamo, il 7 ottobre 1515.


Raimondo Folch de Cardona (Lérida, 1467 - Napoli, 1522)

Generale spagnolo e viceré di Napoli, nato a Bellpuig (Lérida), appartenente alla famiglia Folch, insignita del titolo ducale di Cardona dai re Cattolici nel 1491. Dopo aver fatto le prime esperienze militari in Italia al seguito del Gran capitano, nella seconda campagna che questi condusse per la conquista del Napoletano, distinguendosi nelle guerre contro i Turchi e i Barbareschi, e, insieme con Diego Fernandez di Cordova, portò a compimento l'occupazione di Mazalquivir (1508). Il re Cattolico lo rimandò allora in Italia come viceré di Napoli. Nella guerra della Lega santa, il Cardona, assunto il comando generale delle milizie ispano-pontificie, si recò in alta Italia e minacciò Bologna, che però dovette lasciare intatta, per l'intervento dei Francesi. Fu poi da questi ultimi sconfitto a Ravenna (11 aprile 1512). Ma, in seguito alla morte di Gastone di Foix, l'esercito alleato condotto dal Cardona prese il sopravvento e Milano aprì ad egli le proprie porte. Successivamente il generale spagnolo si recò in Toscana contro la Repubblica fiorentina: Prato fu occupata e sottoposta ad un orribile saccheggio (29 agosto 1512); a Firenze si intimò che venissero riaccolti i Medici. L'anno dopo (1513) il Cardona si volse contro Venezia. In un primo momento si stanziò nei pressi di Padova senza riuscire a occuparla, quindi iniziò delle scorrerie fino a Mestre, e, spintosi a Malghera sul margine della laguna, tirò alcuni colpi di artiglieria contro la città di S. Marco. Ma, per mancanza di viveri e per l'ostilità dei contadini, dovette ritirarsi. Essendo stato assalito allora da Bartolomeo Alviano nei dintorni di Vicenza, il Cardona lo respinse e riuscì a portare in salvo i suoi (7 ottobre 1513). Dopo questi fatti, il Cardona si ritirò a Napoli a esercitarvi il governo per conto del re di Spagna rivelandosi un ottimo e acuto amministratore. Morì in quella città il 10 marzo 1522.

La genesi

La battaglia di La Motta, conosciuta anche come la Battaglia di Schio o Battaglia di Vicenza, ha avuto luogo presso Schio, nel territorio della Repubblica di Venezia, il 7 ottobre 1513, tra le forze della Repubblica di Venezia e una forza combinata di Spagna e del Sacro Romano Impero. Si tratta di una battaglia significativa nella guerra della Lega di Cambrai, la quale, inizialmente creata dallo Stato Pontificio con lo scopo di arrestare l'espansione della potentissima Repubblica di Venezia in terraferma. Fu una guerra di vastissima portata per il tempo, in cui tutti i principali stati europei dell'epoca si coalizzarono contro la Repubblica di Venezia nel tentativo di distruggerla e spartirsi le ricchissime spoglie. Il papa, Giulio II, intenzionato a frenare l'espansione della Serenissima nell'Italia settentrionale, spinse i principali stati europei a muovere guerra allo Stato veneto. Dopo una lunga trattativa, si incontrarono il 10 dicembre 1508 a Cambrai, nel nord-est della Francia, i rappresentanti del Sacro Romano Impero, della Spagna, della Francia, dei duchi di Ferrara, di Mantova e di Savoia per stipulare un accordo preliminare segreto per la formazione di una grande lega anti-veneziana. Ma crescenti contrasti tra il papa e il sovrano francese, nonché il pericolo che la presenza delle armate straniere rappresentava per l'intera Italia, portarono il 24 febbraio 1510 allo scioglimento della Lega di Cambrai: Giulio II ritirata la scomunica a Venezia, si alleò con questa contro i francesi. L'alleanza veneto-papale venne rafforzata il 20 gennaio 1511 dalla creazione di una Lega Santa anti-francese. Vi confluirono, oltre al Papato e alla Serenissima, la Spagna, l'Impero, l'Inghilterra e i cantoni svizzeri. L'accordo prevedeva la restituzione dei territori veneziani. Ma la notte tra il 20 e il 21 febbraio 1513 Giulio II si spense. Gli successe l'11 marzo Giovanni de' Medici, papa Leone X, il quale cercò immediatamente di svincolarsi dalla guerra. Venezia rovesciò nuovamente le alleanze unendosi ai francesi, con l'intenzione di cacciare i tedeschi dai propri territori ed entrando quindi in conflitto con la Lega Santa. I francesi entrarono quindi in Milano, rovesciando il potere dello Sforza, mentre i tedeschi avanzarono nel territorio veneto, arrivando fino a Mestre prima di essere respinti: a Venezia, per far fronte alle spese militari, si giunse a tassare perfino prostitute e cortigiane.

In questo contesto, il comandante veneziano, Bartolomeo d'Alviano, inaspettatamente lasciato senza sostegno francese, si ritirò nella regione del Veneto, inseguito da vicino dall'esercito spagnolo sotto Ramón de Cardona. Mentre gli spagnoli non furono in grado di catturare Padova, penetrarono in profondità nel territorio veneziano e in settembre erano in vista di Venezia stessa. Il viceré spagnolo di Napoli, Ramón de Cardona, tentò un bombardamento della città che si rivelò in gran parte inefficace. In seguito, non avendo navi con cui attraversare la laguna, si voltò indietro per puntare alla Lombardia. L'armata dell'Alviano, essendo stata rafforzata da centinaia di soldati e volontari della nobiltà veneziana, nonché cannoni e altre forniture, prese l'iniziativa e si mise all'inseguimento dell'esercito di Cardona, con l'intenzione di non permettere agli spagnoli di uscire vivi dal Veneto.

Nella 'Storia documentata di Venezia' di S. Romanin (Vol.5, Venezia, 1856) è così riportato: «Il Cardona già trovavasi a pessimo partito; mancanti le vettovaglie, stretti e difficili i luoghi per cui avea a passare, grossi i presidi veneziani da combattere e respingere. Nella sua condizione, disperatamente risolvendo, decise aprirsi colla spada il passaggio attraverso il campo dell'Alviano. E benché già buona parte del giorno fosse passata, disposte le sue truppe in ordinanza, mandò innanzi la cavalleria e alcune compagnie di fanti spagnuoli, che con grande impeto si gettarono sulle guardie del campo veneziano. Ma accolte da un fuoco tremendo di artiglieria, rincularono e precipitosamente tornarono al loro[campo]. Intanto il Cardona erasi approssimato col resto dell'esercito, ma sopraggiunta la notte, ordinò ai soldati che non si partissero quella notte le armi e la passassero sereni tenendosi distesi in terra senza lume e in silenzio, mentre altrettanto facevasi nel campo veneziano. Una mossa del capitano veneziano Gian Paolo Baglione che coll'artiglieria venne ad occupare l'altra parte della valle, posta all'incontro del campo dell'Alviano, tolse agli Spagnoli ogni speranza di aprirsi il varco da quella parte, ond'essi, mutato il loro pensiero, si diressero ai monti di Schio, divisi in tre schiere e lasciando dietro a sé ogni impedimento».

La battaglia

Era il 7 ottobre, un giorno nebbioso, e favorevole alla ritirata del nemico, quando, racconta il Romanin: «appena di questa accortosi l'Alviano, che aveva ordinato i suoi in tre corpi di battaglia, mescolando in alcune parti i vecchi coi nuovi soldati raccolti allor allora dalla campagna alla bisogna, pose i più valorosi nello squadrone di mezzo che era il maggiore e più fermo, e nel quale trovavansi oltre all'Alviano stesso, Guido di Rangone, Giulio Manfrone, Giovanni Battista da Fano, Gian Paolo da s. Angelo ed altri condottieri: si sommavano in tutto le genti a circa dieci mila fanti italiani, mille cinquecento uomini d'arme e mille cavalli leggeri. Aveva il comando dell'ala sinistra Antonio de Pii, mentre alla destra il comandò andò al Baglioni. A quest'ultimo l'Alviano ordinò che si rimanesse aspettando i suoi ordini; al Baglione che per più larga via trapassando l'ultimo squadrone de' nemici, gli urtasse vigorosamente di fianco tostochè vedesse ingaggiata la battaglia, della quale Andrea Loredano provveditore scriveva al Senato ripromettersi luminoso evento. Così disposta ogni cosa, i Veneziani mossero dietro al nemico. Il quale vedendo che ormai altra via di salute non gli rimaneva se non di rimettere il proprio caso all'esito d'una battaglia, deliberò di affrontarla, e rivolta (voltata indietro, così da attaccare frontalmente la prima schiera veneziana) l'ultima sua squadra fece che quella incominciasse ad investire (attacare), il che avvenne con tanto impeto che la prima schiera veneziana già volgeva a ritirarsi. Accorse l'Alviano e cominciò una terribile ed acerrima zuffa. Pareva la sorte piegare infine a favore dei Veneziani, quando sopraggiunto il Cardona e dando addosso primamente a gran turba di contadini accorsi a predare, questi cominciarono disperatamente a fuggire, scorando coi loro gridi "volta volta" e portando la confusione nel campo veneziano, il quale sgominato e più non obbedendo agli ordini de' capitani, ma solo a salvarsi, disperdevasi qua e colà, e in parte indirizzatosi a Vicenza, ove sperava trovar rifugio, fu sopraggiunto da spagnuoli dinanzi alle mure stesse della città e barbaramente sterminato. Nè il Baglione poté secondo gli ordini dell'Alviano dar dentro alla prima schiera, intricato e impedito nei luoghi paludosi della valle, anzi circondato egli stesso dai nemici, cadde con buona parte dei loro cavalli (400 uomini d'arme e oltre 4.000 vittime veneziane). Il provveditore Loredano catturato dai tedeschi fu ammazzato, altri capitani morirono, altri furono fatti prigionieri».

Le conseguenze

Anche se i Veneziani furono decisamente sconfitti dagli spagnoli, la Lega Santa non riuscì a dar seguito a questa vittoria. «La sconfitta de' Veneziani non ebbe quelle pessime conseguenze che erano ad aspettarsene, poiché gli Spagnuoli stanchi e dilacerati anch'essi, sopraggiunti dalle pioggie invernali e sopra terreni melmosi, entrarono agli alloggiamenti in Este e Montagnana». Le forze dei due comandanti continuarono con varie schermaglie in Friuli Giulia per il resto del 1513 e ancora nel 1514.

La morte del re di Francia, Luigi XII, il 1° gennaio 1515, portò Francesco I al trono. Dopo aver assunto il titolo di duca di Milano alla sua incoronazione, Francesco iniziò immediatamente a reclamare i suoi possedimenti in Italia. Una forza svizzera-papale combinata si mosse da Milano verso nord per bloccare i passi alpini contro di lui, ma Francesco evitò i passi principali e marciò invece attraverso la valle Stura. L'avanguardia francese sorprese la cavalleria milanese a Villafranca, catturando Prospero Colonna. Nel frattempo, Francesco stesso con il corpo principale francese affrontò gli svizzero-papali nella battaglia di Marignano il 13 settembre, ottenendo la vittoria finale sulle forze della Lega. Nel 1516 anche la Confederazione Elvetica si ritirò dal conflitto, stipulando una pace perpetua con la Francia.