Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia dell'Aquila

2 Giugno 1424

Gli avversari

Braccio da Montone (Montone 1368 - l'Aquila 1424)

Braccio da Montone è il nome con cui è noto il condottiero Andrea Fortebracci; di nobile famiglia perugina (nacque da Oddo Fortebracci probabilmente nel Castello di Montone), militò sotto Alberico da Barbiano. Fautore di Giovanni XXIII contro Ladislao, ne ebbe in compenso il comando su Bologna, e nel 1416 prese Perugia divenendone signore. Approfittando di una congiura tramata a Roma per la sede pontificia, occupò la città, ma fu cacciato dallo Sforza, che batté poi nel 1420, obbligando alla pace Martino V, dal quale fu nominato vicario di alcuni territori pontifici. Ma non era che una tregua per l'ambizione di Braccio: dopo un fortunato intervento nel Napoletano e una rinnovata pacificazione col papa, si diresse contro l'Aquila, posizione chiave del dominio pontificio. Martino V riuscì a coalizzargli contro buona parte d'Italia, e, nonostante la morte improvvisa dello Sforza, la guerra fu perduta da Braccio, mortalmente ferito (2 giugno 1424) sotto le mura della città. La sua opera politica si dissolse con la morte, ma sopravvisse la sua scuola militare con i bracceschi.


Jacopo Caldora (Castel del Giudice 1369 - nei pressi di Colle Sannita 1439)

Proveniente da una nobile famiglia abruzzese, fra le più potenti del regno di Napoli nel periodo che intercorre tra la fine del sec. XIV e la prima metà del sec. XV, Jacopo venne addestrato alle armi nella famosa compagnia di Braccio da Montone. Facoltoso per l'estensione dei possessi familiari specialmente nella valle del Sangro e in altre parti d'Abruzzo e, nei momenti di maggior splendore, anche in Terra di Bari, costituì una compagnia sua, composta quasi esclusivamente di forti montanari delle sue terre, non per vendersi, per avidità di lucro, al primo potentato, ma per rendersi temuto a tutti, per formare entro il reame uno stato suo. Con grande abilità ed energia riuscì nell'intento; i suoi familiari e aderenti formarono il solo partito veramente saldo fra le case baronali, e il Caldora ricevette lauti stipendi dai potenti vicini, semplicemente perché le sue bande non li molestassero. Quando strinse legami di parentela con il Caracciolo, corse voce che i due e il principe di Taranto volessero dividersi il regno come vicari della Chiesa. Il Caldora prese parte attiva nella guerra fra Angioini ed Aragonesi, militando a favore di questi ultimi; rinchiuso in Napoli con Don Pietro d'Aragona (1424), privo di mezzi per pagare gli stipendi alle truppe, venne a trattative con gli Angioini, aprì loro le porte della città e passò dalla loro parte, col grado di contestabile, al fianco di Francesco Sforza. Marciò sull'Aquila, assediata da Braccio da Montone, e nella battaglia campale, con il concorso di fortunate circostanze, vinse completamente il suo antico maestro d'armi (2 giugno 1424). Si mantenne da allora fedele al servizio di Renato d'Angiò, spesso resistendo, quasi con le sue sole forze, all'impeto degli Aragonesi. Morì improvvisamente il 18 dicembre 1439, mentre stava assediando un castello.

Uomo di tempra eccezionale, lasciava una scuola di condottieri che da lui prendeva il nome, e gran fama come capitano ardito e geniale, idolatrato dai suoi soldati, tanto orgoglio di sé, da rifiutare sdegnosamente ogni altro titolo che quello, semplice, della sua famiglia della quale assunse sempre il motto: Coelum coeli Domino, terram dedit filiis hominum ("Il Cielo al Signore del Cielo, ma la terra fu data ai figli degli uomini").

La genesi

La vittoria nella battaglia di Sant'Egidio, rese Braccio da Montone non solo padrone di Perugia e di molte delle città vicine, ma il protagonista militare dell'intera penisola italiana. Così si era creato uno stato proprio, al cui reggimento dedicò poi sempre parte dell'anno per il resto della sua vita. A Perugia fece erigere molti edifici e impiegò i suoi soldati per rescavazione di un canale che servì a drenare parte della piana umbra liberandola dalle acque stagnanti, convogliate nel Trasimeno. Ovvio, tuttavia, che in cima ai suoi pensieri stessero le difese militari. A tal fine riorganizzò la milìzia perugina, indisse tornei e le tradizionali «sassaiole» che i perugini praticavano per le strade: l'obiettivo era di tenere alto lo spirito militare dei suoi sudditi. La sua compagnia fu sempre più costituita di soli umbri e così prese l'aspetto di una forza armata nazionale. La compagnia non fu mai lasciata infiacchire nell'ozio, perché Braccio ogni anno scese in campo o per difendersi dalle insistenti pressioni di papa Martino V o per partecipare alle guerre intestine del regno di Napoli contro lo Sforza. Braccio seppe mantenere intatto il suo posto, nonostante l'azione del papa per toglierlo di mezzo. Da ultimo, tuttavia, furono proprio forze pontificie e napoletane congiunte ad avere ragione di lui nel giugno del 1424 nei pressi dell'Aquila.

A causare la caduta definitiva di Braccio furono la sua ostinata indipendenza e la fiducia in se stesso. Rimasto isolato nel tentativo di conquistare gli Abruzzi e di aggiungerli al suo stato, Braccio non ne volle sapere di battere l'esercito nemico con piccoli attacchi mentre era ancora in via di formazione, confidando di potere infliggergli una sola sconfitta tale da lasciarlo poi arbitro di sistemare stabilmente a suo vantaggio la situazione nell'Italia centrale. Quando Braccio si trovò di fronte l'esercito congiunto dei pontifici e dei napoletani (un esercito numericamente più forte del suo) nella piana dell'Aquila era, anche quella volta, una torrida giornata estiva. I suoi avversari, quel giorno non furono solo le squadre della cavalleria sforzesca, guidate da Francesco Sforza e da suo cugino Micheletto Attendolo, ma anche le forze napoletane guidate dal nuovo capitano generale del regno, Jacopo Caldora. In passato il Caldora aveva militato sotto Braccio e molto aveva appreso da lui e anche lui aveva ai suoi ordini una compagnia formata in gran parte di abruzzesi che gli erano personalmente devoti.Il Caldora schierava sul campo circa 4000 cavalieri poco meno di 2000 fanti, ai quali si aggiunse un numeroso contingente proveniente dalla città dell'Aquila (probabilmente più di 5000 armati); Braccio poteva dislocare sul campo un contingente di 4800 cavalieri pesanti divisi in 24 squadre.

La battaglia

La tattica di Francesco Sforza e del Caldora risultò, come era naturale, una combinazione di due scuole militari. L'esercito era diviso in grandi squadroni e il Caldora si atteneva al metodo braccesco della continua rotazione degli squadroni, sì da avere sempre truppe fresche di riserva. Braccio, sapendo di avere un esercito meno numeroso, pensò di bloccare sulla destra la spinta metodica degli sforzeschi e intanto sgominare il Caldora al centro e sulla sinistra. Aveva però sottovalutato la padronanza che il Caldora aveva acquisito della sua tattica e così, pur avendo riportato inizialmente un certo vantaggio su di lui, dovette accorgersi che era il Caldora ad avere riserve più consistenti da gettare nella battaglia. Il Caldora, infatti, fu in grado dì contrattaccare con effetti dìsastrosi per Braccio.

Nel frattempo la destra di Braccio non riusciva a trattenere gli sforzeschi che cominciarono a sfondare. Per colmo di sventura il comandante in seconda di Braccio, Niccolo Piccinino, cui era stato affidato il compito di proteggere le spalle dei combattenti da una eventuale sortita degli assediati entro le mura dell'Aquila, abbandonò la posizione per raddrizzare le sorti della battaglia. Il che non solo non gli riuscì, ma, avendo lasciate scoperte le spalle dei bracceschi, li espose all'assalto fulmineo degli aquilani che così presero a saccheggiare il campo di Braccio. Per Braccio la sconfitta fu totale. Sgominato il suo esercito, anch'egli rimase ferito e fu fatto prigioniero. I cronisti raccontano che, mentre era curato per le ferite alla testa da un medico del Caldera, una mano ignota fece fare un movimento brusco al braccio del chirurgo che piantò i ferri nel cranio del malcapitato Braccio. Da questa ferita e dalla disperazione non si sarebbe riavuto. Braccio si spense tre giorni dopo, dopo avere sempre ricusato ogni cibo e senza avere mai scambiato parola con chi lo aveva catturato.

Le leggende sulla battaglia dell'Aquila e la fine di Braccio

I cronisti arricchirono la descrizione degli scontri con particolari che poi entrarono nella leggenda popolare. Jacopo, che partecipava in prima persona alla lotta corpo a corpo, pare sia stato disarcionato due volte da cavallo (e la seconda volta proprio ad opera di Braccio) sfuggendo fortunosamente alla cattura prima di riprendere il controllo dello scontro. Braccio, a sua volta ferito alla testa, avrebbe deciso di arrendersi a Jacopo, ma mentre si recava da lui per chiudere la partita sarebbe stato affrontato da Armaleone Brancaleoni, Ludovico e Lionello Michelotti ed altri cavalieri che lo avrebbero ridotto in fin di vita. Secondo alcuni Braccio sarebbe stato portato, dopo tre giorni di digiuno, davanti al Caldora che lo avrebbe finito. Secondo altri Francesco Sforza, per farlo morire subito, avrebbe spostato la mano di un chirurgo che lo stava operando alla testa. Altri ancora raccontarono che ad ucciderlo fosse stato Andreasso Castelli che voleva vendicarsi perché Braccio gli aveva sterminato la famiglia. A Perugia, invece, si raccontò che Jacopo avesse ammazzato Braccio perché prigioniero si rifiutava di rispondere alle sue domande.

Le conseguenze

La vittoria riportata presso L'Aquila accrebbe il potere del Caldora nel Regno e gli procurò fama di grande condottiero. A Napoli egli si legò ancora più saldamente al Caracciolo (nel 1428 il figlio, Antonio, sposerà Isabella Caracciolo figlia di Sergianni) e insieme con lui, e con il principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini, impose la propria preminenza nella corte napoletana. Milano, Venezia e Firenze si contesero i suoi servizi: il Caldora era ora l'uomo del momento.

Ma l'elenco dei capi militari presenti nei due eserciti che si batterono nei pressi dell'Aquila si potrebbe usare in certo senso come una matricola dei grandi uomini d'arme che si illustrarono nella generazione seguente. Nelle file dei bracceschi stavano il perugino Niccolo Piccinino che doveva poi comandare l'esercito di Milano per un ventennio, il Gattamelata che fu poi comandante in capo dell'esercito veneto dal 1434 al 1441, e Niccolo Fortebraccio della Stella, che nei primi anni Trenta del secolo comandò l'esercito fiorentino. Nell'esercito degli alleati c'erano, oltre il Caldora e Francesco Sforza, Micheletto Sforza, Bartolomeo Colleoni, futuro comandante in capo delle forze veneziane dal 1455 al 1475, Niccolo Mauruzzi da Tolentino, capostipite di una delle più celebri dinastie di condottieri del Quattrocento, e Luigi da Sanseverino, la cui famiglia doveva diventare sempre più famosa negli annali militari italiani. «Sforza» e «Braccio» restarono nomi di battaglia per quasi tutto il secolo e ancora nel 1478-1479, al tempo della guerra seguita alla congiura dei Pazzi, molti reparti fiorentini e veneziani marciavano ancora sotto il vessillo del montone nero in campo giallo. In quel momento il nipote di Braccio, Bernardino, era a capo delle forze venete, mentre nell'esercito di Milano combattevano parecchi esponenti della famiglia Sforza. In verità quegli antichi gridi di battaglia e le antiche affiliazioni ai bracceschi o agli sforzeschi contraddistinsero non solo la progenie delle famiglie di Braccio e dello Sforza, ma una cerchia più ampia di capi militari del tardo Quattrocento.

Ma se è vero che tali tradizioni continuavano a vivere, le condizioni politiche italiane che avevano così fortemente inciso sull'attività militare e sulle istituzioni che la riguardavano, nel 1424 entrarono in una fase nuova. Milano, Firenze e Venezia stavano ormai per impegnarsi in guerre diuturne, durate un trentennio, dalle quali risultarono strutture militari permanenti. Martino V si era già messo chiaramente all'opera per riportare l'ordine nei domini della Chiesa e per creare un esercito pontificio. Alfonso d'Aragona aveva già iniziato la lunga campagna per la conquista del trono di Napoli, che sarebbe terminata con un successo e con l'insediamento a Napoli nel 1442 di una dinastia nuova e più potente. D'ora in poi, più che di capi militari, per i quali andavano scomparendo velocemente le possibilità di un'azione indipendente, bisognerà occuparsi di eserciti stabili, di istituzioni militari, di amministrazione della guerra. Con questo non si vuoi dire che la figura del condottiere scomparisse. I condottieri rimasero, ma furono del tipo di uno Jacopo Dal Verme più che di un Braccio da Montone.