Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Dorylaeum

1 Luglio 1097

Gli avversari

Qilij Arslan I

Figlio e successore di Suleyman I nel 1086, egli divenne ostaggio nelle mani del Sultano selgiuchide Malik Shah I, finendo però con il riacquistare piena libertà di movimenti poco prima della morte nel 1092 di Malik Shah. Qilij Arslan marciò allora, alla testa di contingenti turchi Oghuz Yiva e istituì un proprio dominio in Anatolia, con capitale Nicea (oggi Iznik, sostituendo Amin al-Ghazni, il governatore nominato da Malikshah. A seguito della morte di Malik Shah, le componenti tribali turche dei Danishmendidi, dei Mengugekidi, dei Saltuqidi, di Chaka, dei Bey Tengribirmishidi, degli Artuqidi e degli Akhlat-Shah cominciarono ad organizzarsi autonomamente, con l'idea di ritagliarsi un proprio dominio nei territori a suo tempo conquistati dai Grandi Selgiuchidi. Gli intrighi dell'Imperatore bizantino Alessio Comneno complicarono ulteriormente la situazione. Qilij Arslan sposò intanto la figlia dell'Emiro Chaka, che aveva organizzato una potente flotta con l'aiuto dei greci smirnioti, grazie alla quale aveva creato gravi pericoli a Bisanzio, strappandogli le isole di Chios, Lesbo e Samo. Nel 1094, Qilij Arslan ricevette un messaggio di Alessio in cui questi lo informava che Chaka pensavano di colpirlo per marciare poi contro i Bizantini. Qilij Arslan marciò allora con un esercito su Smirne, capitale di Chaka, e invitò suo suocero a un banchetto nella sua tenda, nel corso del quale lo fece uccidere. La figura di Qilij Arslan è conosciuta nella storia occidentale quasi solo per l'azione di contrasto attuata nei confronti dei Crociati che, dalla lontana Europa latina, si proponevano di conquistare la Siria-Palestina, prendendo di nuovo il controllo del Santo Sepolcro di Gesù a Gerusalemme. Il sultano dovette mettere da parte le sue conflittualità coi danishmendidi e rivolgersi al pericolo proveniente da occidente.

La prima occasione di scontro fu il massacro dei partecipanti alla cosiddetta "crociata dei pezzenti" che, partita senza arte né parte dall'Europa, costituì il preludio alla vera e propria crociata, la prima, guidata da Raimondo IV di Tolosa, Goffredo di Buglione, Boemondo di Taranto e Baldovino delle Fiandre. Qilij Arslan distrusse questo esercito di disperati in due occasioni, appena entrato nei suoi territori in Anatolia centrale, dopo che questi si erano resi responsabili di disordini e saccheggi e avevano osato marciare su Nicea.Alla fine del 1097 una seconda ondata franca investì il suo regno. Stavolta non si trattava solo di pezzenti, ma di diverse schiere occidentali dirette in Palestina. I Franchi, sostenuti dai bizantini, circondarono Nicea, capitale del sultanato, ma un tentativo di liberarla il 21 maggio fu vano e il sultano fu costretto ad abbandonare la città, che non sarebbe stata più turca per altri due secoli. In giugno, presso Dorileo, operò un ulteriore tentativo di contrattacco, ma l'imboscata tesa ai danni dei crociati non riuscì a sortire l'effetto sperato, anzi l'armata selgiuchide fu completamente annientata. Le voci della sconfitta si riverberarono in tutto l'oriente, diffondendo panico e sgomento.


Boemóndo I d'Altavilla principe di Antiochia

Figlio (n. tra il 1051 e il 1058 - m. 1111) di Roberto il Guiscardo e di Alberada di Buonalbergo, dopo aver partecipato alla campagna dell'Epiro contro i Bizantini insieme col padre, alla morte di questo (1085) costrinse il fratello minore Ruggero, erede della contea di Puglia, a cedergli Bari e Taranto. Nell'agosto del 1096 fattosi crociato, si distinse soprattutto nella presa di Antiochia (3 giugno 1098), di cui fu nominato principe dagli altri capi. Dopo che Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, pretendente anch'egli al principato, fu partito per Gerusalemme come capo dell'esercito, difese Antiochia dalle pretese dei Bizantini e poi dagli Arabi di cui subì per due anni la prigionia. Nel 1104, a corto di denaro e di soldati, lasciata la reggenza al nipote Tancredi, rientrò in Italia e, preparato un forte esercito, nel 1107 attaccò l'Impero bizantino, logorando le sue forze nel lungo assedio di Durazzo, finché nel settembre 1108 dovette chieder pace all'imperatore Alessio I e dichiararsi suo vassallo. Preparava in Puglia un secondo esercito quando venne a morte, lasciando il principato al figlio Boemondo, avuto dalla moglie Costanza, figlia di Filippo I re di Francia.

La genesi

Compito era l'anno dacché i Crociati eransi partiti d'occidente; conseguita la sopra narrata vittoria riposaronsi alquanto tempo nei contorni dì Nicea e fecero lor provvisioni per rimettersi in cammino verso la Siria e la Palestina, le provincie dell'Asia Minore per le quali avevano a passare erano in balìa de'Turchi, fieramente per le recenti disventure, concitati a fanatismo e a disperazione, e che avevano più sembianza di esercito sempre parato a combattere e a mutar sede secondo l'occorrenza, che di nazione in regolare civiltà stabilita. Per quei paesi, da ferocissime guerre devastati, trovavansi appena vestigia di quelle che erano strade, e fra città e città non esisteva più veruna comunicazione. Le gole dei monti, e i torrenti e i precipizii opponevano frequentissimi ostacoli a un grande esercito nel suo viaggio per luoghi montani. Per le pianure poi, quasi tutte incolte e diserte, la mancanza di viveri ed acque e gli eccessivi ardori del clima, presentavano mali gravissimi e senza rimedio. I Crociati, immaginandosi di aver superato tutti i loro inimici in Nicea, non provvedendosi in nulla contro le venture difficoltà, né pigliando con sé altre guide che i Greci malfidi e di cui dolevansi, procedevano oltre, in regioni a loro sconosciute e per l'istessa loro ignoranza estimandosi omai sicuri.

L'esercito, partitosi da Nicea il dì vigesimoquinto di giugno, camminò per due giorni, e la sera del secondo giunse a un ponte dove si accampò. Quel ponte, che esiste ancora a' dì nostri, è costrutto nel luogo medesimo ove il fiume Gallo si gitta nel Sangario, turchescamente appellato Sachariè. In quelle vicinanze era l'antica Leuca e precisamente ove oggi è il villaggio di Lefche, il quale dista da Nicea non più che sei ore di cammino, ma allora le strade erano tanto difficoltose e impraticabili, massime per quella straordinaria moltitudine di uomini conducenti seco loro tante bagaglie e cariaggi, che non deve recar meraviglia se l'esercito cristiano impiegò due giorni per sì piccolo tragitto. Allettati dall'abbondanza dell'acque e delle pastorizie, i Crociati soprastettero due giorni sul confluente del Gallo col Sangario; e perché stavano per inoltrarsi in regioni deserte e prive di acqua, fecero di sé due corpi, non potendo bastare un solo spazio unito di terreno a tanti uomini, a tanti cavalli e a tanto bestiame. Furono preposti al maggiore degli detti due corpi, Goffredo, Raimondo, Ademaro, Ugo il Grande e il Conte di Fiandra: al minore, Boemondo, Tancredi e il duca di Normandia. Fu stabilito però che nessuno de' due corpi si discostasse troppo dall'altro: tenendo la destra parte il primo, e la manca il secondo. Il primo adunque dopo tre giorni di cammino, e cominciando il quarto pervenne nella valle, sotto tre diversi nomi menzionata, cioè Dogorganhi, Gorgoni e Ozellis distante da Lefché venti leghe, corrispondenti per l'appunto alle giornate già citate, dietro l'autorità di Roberto il Monaco, testimonio oculare. Da questi si trae argomento per convincere di errore alcuni cronisti e specialmente Guglielmo Tirense, che vogliono questo tragitto compito in un sol giorno, e ciò per non aver veduto i luoghi; particolare essenzialissimo in uno istorico che abbia a coscienza la rigorosa esattezza delle sue narrative. Il corpo guidato da Boemondo, partendosi dal ponte ove erasi fermato l'esercito, mosse lungo il Sangario per circa tre ore di cammino; e lasciandosi dipoi a manca il fiume, s'innoltrò in una valle, appellata dai Turchi Visir Chan, e rigata nella sua lunghezza da piccola riviera presentemente detta Chara Su, la quale valle facea capo a quella di Gorgoni. Questa il cui nome alla memoria d'una grande battaglia è congiunto, ha termine con la valle di Dorilta detta in turchesco Eschi Scer, distante quattro ore a maestrale di quella città. Una riviera che oggi nomasi Sarech Su, cioè Acqua Gialla e che gli antichi dissero Beti, irriga la valle ricca di bei prati, e mette capo nel Timbrio. Da Settentrione avvi un villaggio turco detto Dogorganleh, uome desunto da Dogorganhi che è l'antico usato dai cronisti. La valle in cui fu combattuta la famosa giornata che decise le sorti della prima Crociata, presentemente è detta Jneu Nu, cioè Le Caverne, per esservi moltissime grotte sepolcrali scavate ne' fianchi delle vicine colline.

Nel mattino del dì primo di luglio, giungendo il corpo di Boemondo nella valle di Gorgoni, scoperse improvvisamente immensa moltitudine di Mussulmani, cioè l'esercito nuovamente raccolto da Chilidge Arslan, dopo la sua rotta di Nicea; e che secondo i cronisti latini era di trecentomila combattenti; con i quali il detronizzato Sultano teneva dietro ai pellegrini, spiando l'occasione propizia per assaltarli, al che gli parve molto acconcia la divisione del cristiano esercito negli detti due corpi, perché se poteva prima assaltare e rompere il minore, stimava dipoi agevole la vittoria anco contro il maggiore. Aveva il Sultano occupato con le sue genti le colline di Gorgoni, il che veduto dai Crociati, tenneli dapprima sospesi, né poco titubanti di quello s'avessero a risolvere; ma Boemondo e il duca di Normandia comandarono a tutti i cavalieri di smontare dai loro cavalli e piantar le tende sulla sponda della piccola riviera che irriga la valle, in luogo che, da un lato la detta riviera serviva di riparo al campo e dall'altro era difeso da grande stagno fitto di canneti: circondandolo oltre ciò con gli cariaggi e con palizzate. Furono collocati nel centro le donne, i fanciulli e gli infermi, e Boemondo distribuì ai fanti ed ai cavalieri i posti da difendere, mentre un grosso corpo di cavalli diviso in tre drappelli ponsi sulla fronte del campo per impedire al nimico il guado del fiume. Ad uno di que' drappelli, furono preposti Tancredi e il di lui fratello Guglielmo; ad un altro il duca di Normandia e il conte di Carnosa; a Boemondo fu dato il terzo di riserva che prese una collina per ispecolare da quel luogo le vicende della pugna.

La battaglia

Non ancora erano poste tutte le tende, che una frotta di Mussulmani discesa dalle montagne saettò su i Crociati un nembo di freccie. Questo primo assalto fu vigorosamente sostenuto e frattanto i cavalieri latini avventaronsi contro i Turchi che volsersi in fuga, ma con poco frutto, perché a salvarsi dovendo correr per l'erta, erano agevolmente dai persecutori sopraggiunti ed uccisi senza che in tale estremità potessero degli archi e delle freccie loro valersi. Roberto Monaco a tal proposito ha una sua esclamazione degna d'esser registrata; egli dice adunque: "Oh; quanti corpi caddero privi della testa; quanti corpi caddero in varie guise mutilati e tronchi! I nimici che erano addietro, spingevano quelli avevano davanti sotto le spade sterminatrici de'nostri." L'infortunio degli sconfitti, non distolse però il corpo dell'esercito mussulmano dallo scendere al piano, ove, passato il fiume, assaltarono con altissime grida il campo Cristiano in cui non trovavansi altri che donne, fanciulli, vecchi e infermi; de'quali diedersi a far carneficina i Turchi, non perdonando la vita che ai giovinetti più belli de' due sessi quali destinavano ai servigi dei serragli. Alberto Aquense con ingenua sincerità confessa che in sì grave caso le figliuole e le mogli de' baroni e de' cavalieri preferendo la schiavitù alla morte, in mezzo a quello spaventevole tumulto, vestivansi quanto più sapevano adornatamente per presentarsi ai Turchi, studiandosi con gli adescamenti di loro grazie di commuovere a tenerezza i cuori de' nemici. Circostanza molto naturale e vera, se si considera la tempera degli animi femminili, sempre cupidi di novità e di piacere, e incapaci di aver per paurosa qualunque cosa non minacci distruzione alla corporal bellezza e alla sete della voluttà.

Frattanto Boemondo accortosi che il campo era preso, si volse a quella parte e ne cacciò i nimici ritogliendo loro la preda; ma poscia nel considerare i tanti cadaveri che giacevano sulla terra (così narra una cronica), il principe di Taranto comincio a lamentarsi e a pregar Dio per la salute de' vivi e de' morti. Lasciata una buona guardia al campo, Boemondo si rivolse ove ferveva più feroce la mischia. Già i Cristiani sopraffatti dal numero cominciavano a piegare. Il duca dì Normandia, avendosi lasciato addietro Boemondo con cui ritornava alla pugna, tolto di mano all'alfiere il vessillo bianco orlato di oro, erasi avventato nel mezzo de' Mussulmani gridando: Dio lo vuole! a me Normandia! La presenza di questi due capi, gli sforzi di Tancredi, di Riccardo principe di Salerno, e di Stefano conte di Bloase, rianimarono il coraggio de' guerrieri latini, sicchè la pugna fu instaurata e l'audacia dei Campioni della Croce, sostenne valorosamente il grande e poderoso esercito di Chilige Arslan. I gran nembi degli strali turcheschi erano per lo più dalle buone corazze, dagli scudi e dagli elmetti de' cavalieri, fatti impotenti a nuocere; ma ferendo però i cavalli che non avevano armatura che li difendesse, cagionavano non piccoli disordini nelle schiere cristiane, massimamente perchè non erano ancora pratiche della turchestra strategia. I cronisti non hanno trapassato sotto silenzio la stizza e il furor de' Crociati per non potersi difendere contro avversari che combattevano da lontano. Quanto più i Latini ingegnavansi di accostarsi a' Turchi e stringerli a giusta battaglia di lande e spade, tanto più i Turchi, saettando però sempre, in quel modo che nel deserto far sogliono i vortici delle sabbie, gli causavano, rompendo i loro ordini, quando vedevansi dai nimici sopraggiunti, e roteando in isparsi drappelli, andavansi nuovamente riaccozzando in altra lontana parte; in ciò mirabilmente giovati dalla velocità ed agilità de' cavalli a sì fatte scorribande e roteamenti bene addestrati. Nonostante l'ineguaglianza della pugna, il valore de' compagni di Boemondo, operò prodigi. Non essendosi potuti eseguire i divisamenti fatti prima di venir alle mani, ogni capo ed ogni guerriero combatteva a suo senno solo seguendo gli impulsi del suo ardore. Le donne liberate dalla schiavitù, s'aggiravano per le schiere, recando rinfreschi ai soldati riarsi per i cocenti raggi del Sole, e gli esortavano a non perdersi d'animo e a preservarle dalle mani de' loro immanissimi nimici. Tutti menavano le mani a piò potere ( dicesi in una vecchia cronica ), i cavalieri, e tutti quanti erano sani delle membra, combattevano; gli ecclesiastici piangevano e pregavano; delle donne quelle che non portavano l'acqua ai combattenti, lamentandosi forte, traevano sotto le tende morti e morenti. Ma finalmente la moltitudine innumerevole de' Mussulmani aveva circondato il cristiano esercito, precludendogli ogni adito alla fuga, e secondo che s'esprime Raolo Caeno, trovavasi come in un circo a guisa delle feroci belve imprigionato. Orribile era la strage e lo strazio degli uni e degli altri. Roberto da Parigi, quello istesso che osò assidersi sul trono d'Alessio, fu mortalmente ferito in mezzo ai quaranta de' suoi compagni che erangli caduti morti a' piedi; Guglielmo, fratello di Tancredi, giovinetto di avventato coraggio e di gran bellezza, cadde di strali trafitto; lo stesso Tancredi, avendo spezzata la lancia e ridottosi a difendersi con la spada, sarebbe pur morto nella valle di Gorgoni, se non veniva da Boemondo soccorso. La maravigliosa virtù de' guerrieri cristiani, sebben da forze molto maggiori sopraffatti, teneva ancora la vittoria incerta; ma tanti generosi sforzi erano per riescire inutili, non potendo omai più i soldati, vinti da lassezza contrastare a nimico che avendo rinforzi gli assaltava sempre con nuova gente. Quando ad un tratto, mille grida di gioia annunziano Goffredo che si avvicinava col secondo corpo dell'esercito cristiano. Nel cominciamento della zuffa Boemondo ne lo aveva avvertito per Arnaldo cappellano del duca di Normandia, il quale trovò la gente del duca di Lorena due miglia distante dalla valle di Gorgoni. I fedeli accorsero alla pugna ( dice Alberto Aqueuse ) come sarebbero andati a delizioso festino. Era il sole asceso alla metà del suo corso diurno, quando Goffredo, il Vennandese, e il conte di Fiandra seguitati dalle loro schiere, dimostraronsi sulle montagne; e i vivi raggi percotendo negli scudi, negli elmi e nelle ignude spade, faceano più terribile la vista del soccorrente esercito. Ventilavano all'aura le insegne; da lontano rimbombava il suono delle trombe e de' tamburi e quarantamila guerrieri in ordinanza si avanzavano, il che arrecò inestimabil gioia alle genti di Boemondo, che per cinque ore avendo già combattuto con grande disavvantaggio, non poteano più sostenere il nimico; e recò insieme spavento agli infedeli che essendosi più volte rifatti per oppressare un nimico inferiore, vedevansi ora esposti a certa perdita. Goffredo, Ugo, Baldovino ed Eustachio seguitati dai quarantamila cavalieri eletti, muovono verso il campo cristiano circondato dai nimici; comparati poeticamente dal monaco Roberto all'Aquila che stimolata dalle strida de' suoi digiuni aquilotti, s'avventa precipitosa sulla preda. Simili a impetuoso turbine, i soldati di Goffredo urtarono negli ordini mussulmani; la terra ingombravasi di cadaveri; la valle e i monti risonavano dei gemiti de' morenti, delle grida de' feriti e de' clamori de' Latini. Sventurati quelli in cui i Franchi primamente s'imbatterono ( dice il monaco Roberto testimonio oculare )! Quasi in un punto vidersi uomini e cadaveri; inutili difese divennero lo scudo e la corazza, e le freccie e gli archi rimasersi inoperosi. Gemevano i moribondi percotendo nelle mortali agitazioni con le calcagna la terra; e quelli, che bocconi cadevano, rabbiosamente co' denti l'erba e le pietre afferravano.

In questo mentre che le schiere di Goffredo e di Boemondo avevano già scompigliati i Turchi, non poco conferì alla vittoria delle armi cristiane l'apparire dalle montagne il retroguardo di diecimila uomini condotti da Raimondo e dal legato Ademaro, la presenza de' quali, secondo il precitato monaco Roberto, atterrì la moltitudine degli infedeli, che immaginandosi, piovessero guerrieri dal cielo, o sbucassero dalle viscere de' monti contro di loro, da assalitori, erano assaliti divenuti ; e anco molto nelle difese rallentavano. Il Sultano Chilidge Arslan erasi ritirato ai monti con l'eletta de' suoi, sperandosi che i Crociati non osassero inseguirvelo, ma Goffredo, Ugo, Raimondo, Ademaro, Tancredi, Boemondo e i due Roberti avendolo circondato, sì fieramente il combatterono che uon meno là che nel piano la strage fu spaventevole. In ogni luogo la terra era di cadaveri ingombra, sì che un fuggente cavallo appena trovava tanto spazio da porvi il piede. Fino a notte si prolungò la pugna la quale verso sera non più pugna polevasi appellare, ma crudelissima beccheria. Il campo mussulmano, posto nella parte settentrionale della valle di Gorgoni, cadde in poter de' Crociati, che vi trovarono gran copia di vettovaglie, ricchissime ed ornatissime tende, ogni genere bestie da soma e grandissimo numero di cammelli, la vista dei quali animali, non mai veduti in Europa, arrecò loro maraviglia e gioia a un tempo. I Cristiani ascesero subito su i cavalli del nemico per inseguirlo; e già s'addensavano le tenebre della notte, allorchè ritornarono al campo carichi di preda e preceduti dai sacerdoti che emutavano inni e cantici a Dio in rendimento di grazie. Questa famosa giornata nella quale i capi e i soldati meritaronsi somma lode di valore, accadde il dì primo luglio del 1097. E' stata fatta menzione soltanto dei capi principali , ma i Cronisti ne annoverano alcuni altri, fra i quali Baldovino di Bòve, Galone di Gaimone, Gastone da Berna, Gherardo da Cherisì, tutti rinomati per egregie prodezze che, secondo Guglielmo Tirense, meriteranno perpetua lama. Il numero de' Mussulmani uccisi sul campo e nella fuga, è per i Cronisti portato a meglio che ventimila. I Crociati perdettero in tutto quattromila compagni.

Le conseguenze

Il giorno seguente i Cristiani andarono sul campo per seppellire i morti: furono loro resi gli ultimi onori, cantando gli ecclesiastici le solite preghiere, piangendo le madri i loro figliuoli e gli amici i loro amici. Il monaco Roberto afferma che gli uomini capaci di sanamente giudicare delle cose onorano tutti quelli uccisi, quali martiri di Cristo. Ma perché anco tutte le sventure umane hanno la loro parte dilettevole, alle funebri cerimonie e ai pianti, successero subito gli esaltamenti di pazza gioia per la conseguita vittoria. Spogliandosi i cadaveri de' Turchi, nascevano fiere contese sulle spoglie sanguinose; i soldati nel loro militare tripudio, ora vestivansi le arme nemiche e le larghe tuniche mussulmane; ora assidevansi nelle loro tende, schernendo alle usanze e all'asiatico lusso; quelli che erano rimasti senz'armi impadronivansi delle spade e delle ricurve sciabole de' Turchi; e gli arcieri riempirono i turcassi con le freccie di cui era disseminata la terra. Nondimeno l'ebbrezza della vittoria non gli accecò tanto da non render giustizia al valore de' vinti che vantavano comune l'origine con i Franchi. Gli storici contemporanei che hanno encomiato il valore de' Turchi dicono non mancasse loro altro che essere Cristiani per aver perfetta eguaglianza di merito con i Crociati: sopra che dice molto piacevolmente il cronista Tudebodo: "Se i Mussulmani avessero seguitata la fede del Cristo, se avessero riconosciuto che una delle tre persone della Trinità era nata da una vergine, che aveva subita la passione, che era risuscitata che regnando egualmente nel cielo e sulla terra, ci aveva mandata la consolazione dello Spirito Santo, sarebbero stati valorosissimi, prudentissimi e abilissimi nella guerra sopra tutte le genti, nè alcun popolo sarebbe stato degno di essere a loro comparato." Quello oltre ciò che prova l'alta opinione s'erano formata i Crociati de' loro nemici era, aver attribuita la vittoria a miracolo, sopra cui, dice il monaco Roberto: "Colui che vorrà, con retto intendimento, far giudicio di tal successo, dovrà in esso riconoscere e altamente lodare Dio sempre ammirabile nelle sue opere." Alberto Aqueuse narra che due giorni dopo il fatto d'arme, gl'infedeli fuggivano ancora senza essere inseguiti da alcuno, se non forse dallo sdegno di Dio, al qual proposito correva voce fra i Cristiani, che si fossero veduti San Giorgio e San Demetrio combattere ne' oro ordini. Nè i Mussulmani ammirarono meno, il valore de' Latini; anzi il sultano Chilidge Arslano, agli Arabi che lo rimproveravano della sua fuga, soleva rispondere: "Voi non conoscete i Franchi, nè avete fatta esperienza del loro coraggio; la loro forza non è umana, ma celeste o diabolica." Mentre che i Crociati si rallegravano della vittoria per la quale si aprivano a loro le strade dell'Asia Minore; il sultano di Nicea non osando più affrontarli, si volse all'espediente di devastare il paese che non poteva difendere. Con le reliquie del suo esercito e con diecimila Arabi accorsi in suo aiuto, corse nelle provincie per le quali doveva passare l'esercito cristiano e dette il guasto ad ogni cosa, bruciando le case, saccheggiando le città, i borghi e le chiese e portandone seco le donne e i figliuoli de' Greci come ostaggi. In brevissimo tempo, il fuoco e gli umani furori cangiarono quelle regioni in isquallidi diserti. Il terzo dì del luglio i Crociati ripresero il loro cammino avendo prima disposto che più non si partisse l'esercito ma procedesse unito in un sol corpo; la qual deliberazione comecchè fosse opportuna e prudente contro gli assalti de' nemici, esponeva però il troppo grande numero dei pellegrini a perire di fame per il paese già corso e spogliato dai Turchi.



Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842