Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Custoza

24 giugno 1866

Gli avversari

Alfonso La Maromora

Nato a Torino il 17 novembre 1804, morto a Firenze il 5 gennaio 1878. Entrato fanciullo nell'Accademia militare di Torino, ne uscì sottotenente a 19 anni. Inviato in Prussia per studiarvi l'organizzazione dell'artiglieria leggiera e le questioni relative agli allevamenti equini per l'esercito, ebbe poi da Carlo Alberto, appena salito al trono, l'incarico di riorganizzare l'artiglieria piemontese. In quell'occasione il La Marmora fu animatore appassionato della nuova specialità denominata "artiglieria a cavallo". Riprese all'estero le sue peregrinazioni a scopo di studio, fu in Ungheria, in Francia, in Spagna, in Egitto e finalmente in Algeria. Ritornato in patria svolse un corso di materie artiglieresche ai due principi reali Vittorio Emanuele (duca di Savoia, poi re d'Italia) e Ferdinando (duca di Genova). Col duca di Genova fu, nel 1848, all'assedio di Peschiera, dopo essersi distinto in varî combattimenti precedenti, alla testa di un gruppo di batterie a cavallo. Dopo Custoza, fu al quartiere generale di Carlo Alberto, e quando a Milano la folla si adunò ostilmente innanzi al Palazzo Greppi, momentanea sede del sovrano, il La Marmora ne uscì facendosi largo tra la folla e vi rientrò poco dopo con un buon nerbo di truppe piemontesi. Dopo la campagna fu per breve tempo ministro della Guerra e Marina nel ministero Pinelli e poi di nuovo, e ancora brevemente, nel ministero Gioberti. Nel febbraio del 1849, gli fu affidato il comando di una divisione al confine toscano con una missione politica che fu disapprovata dal parlamento, talché ne conseguì la caduta del Gioberti. Dopo Novara (1849) fu nominato commissario straordinario a Genova, insorta per protestare contro la disgraziata fine della prima guerra d'indipendenza, e dovette aprirsi a forza il passo dopo un combattimento a S. Benigno. Nel novembre 1849, nuovamente chiamato a reggere il Ministero della guerra rimase in tale carica per circa dieci anni e la lunga permanenza gli consentì di compiere radicalì riforme dell'organismo militare. Migliorata la cultura dei quadri, conferita nuova importanza al servizio di Stato Maggiore, data forza giuridica allo stato degli ufficiali e al trattamento di pensione, regolato l'avanzamento, rimodernate le fortificazioni, riformato il codice militare, compilati nuovi regolamenti di disciplina e di esercizi, basata l'intelaiatura dell'esercito piemontese su cinque divisioni (senza corpi d'armata), il La Marmora riuscì a presentare un esercito piccolo, ma vigoroso, che diede ottime prove in guerra. Nel 1855 gli fu conferito il comando in capo della spedizione di Crimea e, al ritorno, riprese il portafoglio della Guerra, col grado di generale d'armata. Durante la campagna del 1859 fece parte del quartier generale del re. Dopo l'ammistizio di Villafranca, ritiratosi il Cavour dal governo, assunse per breve tempo la presidenza del Consiglio dei ministri. Comandò in seguito il dipartimento di Milano (1860), quindi fu inviato a Napoli (1861) con poteri civili e milìtari. Nel 1865 fu nuovamente a capo del governo e, in tale veste, iniziò con la Prussia i negoziati che dovevano condurre all'alleanza. Quando la guerra fu imminente, cedette le redini del governo al Ricasoli, per assumere il comando effettivo dell'esercito in campo, quale capo di Stato Maggiore del re Vittorio Emanuele II. Ma, così nella preparazione strategica della campagna, come nell'infausta giornata di Custoza, il La Marmora non fu all'altezza della sua fama.

E infatti, il piano di guerra, imperniato per riguardi personali verso un altro illustre generale (il Cialdini) su di una separazione dell'esercito in due masse lontane e pressoché indipendenti, fu tra le cause precipue per cui la superiorità numerica degl'Italiani nello scacchiere operativo, si mutò in un'inferiorità sul campo tattico della lotta; e la condotta del La Marmora quando si accese l'impreveduta battaglia, fu determinata da un pessimismo che la tenace resistenza delle truppe non giustificò affatto. Cedendo al preconcetto della sconfitta, girovagò sulle retrovie del campo di battaglia fin dalle prime ore, per assicurare la ritirata alle truppe attraverso il Mincio; ciò lo rese irreperibile e il comando supremo non poté funzionare, mentre un'energica direzione avrebbe corretto le prime incertezze di alcuni subordinati e rinvigorito l'azione sostenuta da altri. Senza assumere la gravità che ebbe, pochi giorni dopo, la condotta del Persano a Lissa, bisogna riconoscere che la condotta del La Marmora a Custoza oscurò la sua fama militare, fino allora indiscussa. Dimesso durante la guerra dalla carica di capo di Stato Maggiore e amareggiato dalle aspre polemiche cui fu fatto segno a guerra finita (e alle quali partecipò con pubblicazioni sue o da lui ispirate) condusse vita privata, da cui uscì per breve tempo dopo l'occupazione di Roma (1870), per assumere quivi la carica di luogotenente generale del re, in attesa del trasporto della capitale. Tra i suoi scritti ricordiamo: Un episodio del risorgimento italiano, Firenze 1875; Un po' più di luce sugli eventi politici e militari dell'anno 1866, 6ª ed., ivi 1879.


Alberto Federico Rodolfo d'Asburgo, arciduca d'Austria, duca di Teschen

Figlio primogenito dell'arciduca Carlo e della principessa Enrichetta di Nassau-Weilburg, nacque a Vienna il 3 agosto 1817. Entrò nell'esercito imperiale col grado di colonnello nel 1837 e divenne maggior generale nel 1840. Nel 1845, nominato luogotenente-feldmaresciallo, assunse il comando delle truppe in Bassa e Alta Austria: durante i moti di Vienna del marzo 1848, diede ordine alle truppe di tirare sui rivoltosi, si rese così impopolare e dovette lasciare il suo posto. Si recò come volontario nell'esercito d'Italia sotto Radetzky e partecipò ai combattimenti di Pastrengo, S. Lucia e Custoza. Nel 1849 prese il comando di una divisione ed ebbe una parte importante alla battaglia di Novara. Dopo la pace andò in Boemia: fu poi governatore della fortezza federale di Magonza, dal 1851 al 1860, comandante generale in Ungheria, posto che lasciò a sua richiesta. Nell'aprile 1859, inviato in missione diplomatica e militare a Berlino, propose al principe reggente di Prussia di allearsi con Francesco Giuseppe e di far marciare sul Reno un esercito, a cui si sarebbero uniti 200.000 austriaci; la Prussia respinse la proposta. Nel 1860-61 fu comandante generale in Italia. All'inizio della guerra del 1866, assunse il comando dell'esercito d'Italia e fu il vincitore di Custoza. Il 10 luglio, dopo Königgrätz, prese il comando supremo delle forze che dovevano difendere Vienna; ma sopraggiunse subito la pace. Da allora in poi, con vari titoli, presiedette al riordinamento dell'esercito, di cui fu l'ispettore generale. Fu il capo di quello che si chiamava il partito militare, con tutta l'autorità che gli derivava dall'appartenenza alla Casa imperiale, dalle sue eminenti qualità personali e dai successi riportati. Dopo la guerra del 1866 fu dominato dal risentimento contro la Prussia; influì su Francesco Giuseppe per far chiamare Beust al potere; nel marzo 1870 si recò a Parigi per proporre un piano di guerra comune franco-austro-italiano contro la Prussia e sembra che le sue impressioni piuttosto ottimiste circa le condizioni dell'esercito francese abbiano contribuito a stimolare gli spiriti bellicosi della corte delle Tuileries. Dopo la guerra del 1870-71 fu favorevole a un'intesa con la Russia e contrario a un ravvicinamento con la Germania, ma verso quest'ultima le sue disposizioni si modificarono dopo un convegno che nell'estate del 1875 ebbe ad Ems con l'imperatore Guglielmo I. Fu malcontento del compromesso austro-ungarico del 1867, perché riteneva che intaccasse la compagine dell'impero e dell'esercito e si oppose all'incorporazione all'Ungheria dei cosiddetti "confini militari", di cui insieme alla Croazia, alla Dalmazia e alla Bosnia-Erzegovina, avrebbe voluto fare un baluardo per tenere in scacco i Magiari. Dopo l'occupazione della Bosnia-Erzegovina (1878) avrebbe voluto che la monarchia continuasse la sua avanzata nei Balcani verso Salonicco.

Ebbe avversità familiari. La moglie, principessa Ildegarda di Baviera, che aveva sposato nel 1844, morì nel 1864 a soli trentanove anni; il suo unico figlio maschio morì in infanzia; la figlia Matilde perì tragicamente nel 1867. Ciò lo concentrò più che mai nel suo lavoro, che continuò tenacemente fino all'estremo, benché divenuto quasi cieco. Morì il 18 febbraio 1895 ad Arco. Di lui come generale, il Pollio ha lasciato scritto: "Uno dei pochi che poteva dirsi dotto in materia militare.... Formato dallo studio delle campagne del suo genitore e dall'esperienza, diede prova sia contro di noi, sia più tardi nel Comando supremo delle forze militari dell'impero, di talento strategico e di fermezza di carattere degna del padre". Si è detto che alla vittoria di Custoza avesse avuto gran parte il capo di Stato maggiore, generale von John: a tale proposito sarà utile riferire il seguente giudizio del generale von Scudier: "Per vedute strategiche e per la condotta delle operazioni l'arciduca Alberto era superiore al suo capo di Stato maggiore, il generale von John. Per la parte tattica, a causa della sua grande miopia, doveva necessariamente rimettersi a quelli che lo circondavano". Lasciò alcuni scritti di argomenti militari, quali Come deve essere ordinato l'esercito austriaco; Considerazioni sullo spirito militare; Sul comando supremo in guerra; Osservazioni critiche sulla campagna d'Italia nel 1866.

La genesi

La terza guerra d'indipendenza si presenta con caratteri suoi peculiari che molto la distinguono dalle due precedenti. Non è più infatti la guerra del piccolo e saldo esercito piemontese, rafforzato da contingenti degli altri Stati italiani, come nel '48, o da volontari di tutta Italia incorporati in esso ed alleato del grande esercito francese, come nel '59; ma è la guerra dell'esercito italiano, dell'esercito del nuovo giovane regno d'Italia, costituito rapidamente sul saldo tronco piemontese e quadruplicato di forza: non più infatti le vecchie 5 divisioni, ma 20 divisioni. Non solo, ma l'esercito italiano ha ora a lato ben 40 000 volontari, guidati, come nel '59, da Giuseppe Garibaldi. Il quale nel '60, al Volturno, aveva mostrato di saper guidare e vincere mirabilmente una difficile battaglia ove erano impegnate forti masse di combattenti. Le operazioni terrestri si accompagnano poi a quelle di mare, e per la prima volta una grande flotta italiana entra veramente in lizza, e le operazioni navali sembrano dover assumere importanza rilevante. La guerra, purtroppo, non ebbe l'esito sperato; e nell'insieme sembrò mostrare più le vecchie deficienze italiane e le conseguenze di rapide improvvisazioni, che non i brillanti frutti della miracolosa unificazione. Pure non mancarono episodi gloriosi, e se la guerra non fosse stata troncata troppo presto dall'accordo della Prussia, fulmineamente vittoriosa, coll'Austria, la imprevista rotta di Custoza avrebbe potuto essere vendicata e la fortuna delle nostre armi risollevarsi decisamente. Con la riforma del 1854, come sappiamo, l'esercito piemontese era stato trasformato sul modello francese, ossìa da esercito numero in esercito qualità, con ferma di 5 anni per una piccola aliquota di 5 classi, una seconda categoria accanto ad esse, e 6 classi nominali di riservisti. L'esercito del '59 apparve dunque come un esercito d'elite, poco numeroso e all'atto pratico quasi senza riserve; dopo San Martino e Villafranca non sarebbe stato in grado di continuare da sé la guerra regolare, né d'essere il fulcro d'una grande guerra insurrezionale contro l'Austria, sfruttando e inquadrando innanzi tutto le grandi risorse d'uomini del regno sardo, dell'Emilia e della Toscana. Rimaneva tuttavia il fulcro cui si aggregavano tosto i soldati lombardi già dell'esercito austriaco, le formazioni militari dei ducati e delle Romagne, nonché quelle della Toscana; ma l'esercito pontificio e soprattutto quello toscano erano stati oggetto, nel decennio precedente, di notevoli cure; cosicché l'incorporazione era avvenuta senza gravi difficoltà. Garibaldi aveva inteso, dopo l'epica sua impresa del 1860, che l'esercito della rivoluzione, ossia l'esercito garibaldino, rimanesse accanto a quello regio, per liberare insieme Roma e la Venezia; ma dobbiamo riconoscere che nemmeno l'esercito meridionale garibaldino, con tutte le sue benemerenze, era tale da formare veramente il fulcro d'un grande esercito popolare; già il grosso dei contadini siciliani, delusi nelle loro aspirazioni circa il possesso delle terre e nelle speranze d'una vita meno grama, aveva mostrato di non volerne sapere d'una leva in massa, e la rivolta contadina dell'Italia meridionale espressa, dato il grado d'estrema arretratezza delle plebi agricole, nella forma del brigantaggio, aveva mostrato come mancassero le basi sia d'una guerra popolare di tipo spagnolo contro lo straniero, sìa del tipo della guerra prussiana di liberazione del 1813. L'esercito italiano restò dunque sul modello piemontese, senza che né l'esercito meridionale, né il vecchio esercito napoletano contribuissero sensibilmente alla sua organizzazione. D'altra parte, con la riforma del febbraio 1860, anche la struttura dell'esercito prussiano era stata sensibilmente modificata, in quanto la Landwehr cessava d'essere un contraltare dell'esercito regolare, ma passava alle dirette dipendenze di questo come sua milizia mobile; non solo, ma le erano tolte la 2a categoria e le 2 prime classi di riservisti che andavano ad aumentare la riserva, portata da 2 a 4 anni dopo il servizio di leva triennale, e i quadri erano in gran parte di carriera, più che raddoppiati negli ufficiali e nei sottufficiali. Circa il nuovo esercito italiano, si ricordi il giudizio già citato 1 dello scrittore militare prussiano Guglielmo Rustow sul Piemonte e l'esercito sardo.

Non si può tuttavia negare che sotto certi rispetti l'opera compiuta in sei anni fu veramente grandiosa. Le 5 divisioni dell'esercito piemontese salirono a 20 dello stesso tipo (quasi una per ogni milione d'abitanti, secondo la norma d'allora), ciascuna con 2 brigate di fanteria, 2 battaglioni di bersaglieri, 3 batterie d'artiglieria. Solo la cavalleria ebbe uno sviluppo minore: da 36 squadroni a 100, anziché a 144. Ma dato il sempre minore impiego, anche se poco confessato, di quest'arma, specialmente sul campo di battaglia, il male non poteva dirsi davvero grave. Erano stati invece adeguatamente sviluppati il genio e i servizi. Restarono tuttavia alcune deficienze del vecchio esercito: l'artiglieria poco numerosa, sebbene di calibro piuttosto grosso, ma appunto perciò anche un po' meno mobile; la cavalleria scarsa, non solo, ma per sei decimi pesante, mentre la riforma del '59 aveva mirato a renderla per sei decimi leggera. Ma soprattutto una deficienza parve grave, e più che mai in un esercito qualità con ufficiali tutti di carriera: quella dei quadri. Nelle 3 nuove divisioni lombarde, pochissimi ufficiali passarono dal servizio austriaco a quello sardo; perciò si provvide con molte promozioni nei sottufficiali, e immettendo in esse, dopo un breve corso presso la scuola militare d'Ivrea, molti volontari che nei mesi precedenti avevano combattuto nelle file dell'esercito piemontese. Quanto all'esercito dell'Italia centrale, le 7 divisioni entrarono da pari a pari, coi loro ufficiali, nell'esercito sardo: i toscani erano per lo più ufficiali in regola, sebbene non mancasse un certo numero di sottufficiali e volontari promossi in fretta ufficiali. Nelle schiere emiliane il guaio era maggiore: gradi spesso improvvisati e dati in larga misura a reduci del Veneto e di Roma del '48-49, oppure a sottufficiali. Erano venuti infine anche ufficiali dell'esercito borbonico, e circa 2000 ufficiali garibaldini dell'esercito meridionale; nell'insieme, dunque, quadri molto eterogenei, di diverso e inuguale valore. Ma più grave era l'inconveniente nei quadri superiori dove era ancor meno facile avere dei buoni comandanti di battaglione e di reggimento. Il Fanti, come si è visto, aveva voluto rimediarvi riducendo il numero dei battaglioni da 4 a 3 per reggimento, ma portandoli in pari tempo da 4 a 6 compagnie; cosicché ci sarebbe stato un minor bisogno di maggiori, tenenti colonnelli e colonnelli, ma il La Marmora aveva protestato con una violenza appena credibile, come se si fosse trattato della rovina dell'esercito italiano, e con lui i suoi seguaci; e presto si era tornati al battaglione di 4 compagnie, mentre il problema degli ufficiali superiori rimaneva insoluto. Quanto ai generali, fra i comandanti di brigata molti brillavano per coraggio personale già ben provato e per minuto zelo, ma non certo per qualità d'intelletto e di cultura sebbene si fosse cercato di lasciare nei depositi e nei presidi gli elementi meno intelligenti e capaci. Fra i comandanti di divisione, al contrario, v'era una serie di ufficiali di valore: Covone, Cugia, Ricotti-Magnani, Cadorna, Brignone, Angioletti, Carlo Mezzacapo, Pianell, Cosenz, Medici, Bixio, Sirtori, e altri ancora; uomini ricchi d'esperienza e di meriti, sia che provenissero dalle file dell'esercito piemontese o dell'esercito toscano, come l'Angioletti, o da quello borbonico o dalle schiere garibaldine.

Il guaio si faceva di nuovo manifesto quando si saliva ai comandanti di corpo d'armata, o anche più in alto. Quanto allo Stato Maggiore, esso era rimasto allo stato embrionale; e solo dopo l'amara esperienza del '66 si pensò, con la creazione, l'anno dopo, della scuola di guerra, di rinnovarlo sul serio. Per quel che riguarda l'addestramento delle truppe, esso malgrado i buoni propositi di non pochi generali, era ostinatamente rimasto soprattutto quello di piazza d'armi, senza sufficienti esercitazioni collettive in campagna che cercassero veramente d'accostarsi alla realtà della guerra, al combattimento in ordine sparso. Nell'insieme, l'esercito italiano era stato oggetto di grandi cure, e pur fra le strettezze del bilancio, con la crisi finanziaria sempre incombente, si può dire che la precedenza nelle spese sia sempre stata data alle forze armate; pure, ad onta di ciò, non poteva rappresentare, a detta del generale Corsi, una potenza militare proporzionata ai fondi stanziati, di fronte a un vecchio e solido esercito quale l'austriaco, e costituiva un corpo «assai più bello che robusto». Ma rappresentava tuttavia uno strumento di guerra pur sempre notevole, animato da un alto spirito patriottico e suscettibile di miglioramenti e d'irrobustimento; se non che, trattandosi d'un esercito giovane e alquanto inuguale andava adoperato con avvedutezza, cosi da lasciarlo allenarsi ed esercitarsi, prima della prova suprema, e non già da gettarsi subito a cuor leggero allo sbaraglio.

Da parte austriaca, si era cercato con una certa cura di sanare le deficienze apparse nella guerra del '59. L'artiglieria era stata resa sempre più mobile; la cavallerìa sempre meglio preparata al servizio d'esplorazione e grandi cure erano state dedicate ai servizi. L'addestramento tattico della fanteria era pure stato riveduto e nella guerra del 1864 contro la Danimarca questa era parsa nell'insieme superiore ai danesi e forse anche agli alleati prussiani. Nella guerra del '66 il suo addestramento doveva invece rivelarsi notevolmente inferiore a quello della fanteria prussiana, ma nel suo insieme superiore a quello della fanteria italiana. Questa volta però l'esercito italiano si sarebbe trovato notevolmente superiore di numero e anche d'artiglieria all'esercito austriaco; che l'Austria intendeva, in un primo tempo almeno, concentrare lo sforzo contro la Prussia, tanto più avendo da questo lato l'appoggio delle forze federali germaniche, per liquidare cosi l'avversario principale; perciò, dei suoi 10 corpi d'armata, 3 soltanto si trovavano, quale armata d'operazione, sul teatro di guerra italiano. E delle sue 5 divisioni di cavalleria, solo una brigata si trovava in Italia. A queste forze bisognava però aggiungere i presidi del Quadrilatero, quelli di Borgoforte, Rovigo, Venezia, Palmanova, Osoppo, le forze a difesa del litorale Veneto, istriano e dalmatico, le forze della difesa del Tirolo, in parte regolari in parte di volontari e una brigata mobile per il mantenimento dell'ordine nel Veneto; cosicché le forze che l'Italia vincolava sommavano a circa 190.000 uomini. Ma in campo gli austriaci ponevano veramente 61.000 combattenti, con 152 cannoni e 3000 cavalieri riuniti in 3 corpi d'armata; cui si dovevano aggiungere altri 11.000 combattenti della divisione di riserva, creata all'ultimo racimolando forze dai presidi delle fortezze.

Di fronte a queste truppe l'Italia schierava ben 20 divisioni, ossia la forza di 10 corpi d'armata normali, riuniti però in 3 grossi corpi d'armata di 4 divisioni ciascuno, schierati dal lato del Mincio, e un mastodontico corpo d'armata di ben 8 divisioni, sul basso Po. Nominalmente 230.000 presenti, in realtà da 190.000 a 200.000 combattenti di fanteria con 10.500 cavalieri e 462 cannoni; cosicché la forza combattente saliva a 220.000 uomini circa, il triplo di quella austriaca. Numerose erano poi anche le forze complementari; infatti, oltre le 5 classi di leva sotto le armi (1841-45) e le loro rispettive seconde categorie, erano stati chiamati i contingenti di 5 classi di riservisti (contingenti che nella concezione dei fautori dell'esercito qualità avrebbero dovuto restare sulla carta); e poi 28.000 guardie nazionali mobili, cui si dovevano aggiungere 38.000 volontari garibaldini e 20.000 carabinieri: in totale 565.000 uomini, di cui nominalmente 293.000 combattenti, stando alla relazione ufficiale. I combattenti effettivi erano in realtà 220.000 al più, e 258.000 coi volontari; cifra tuttavia pur sempre assai notevole; ma l'esercito italiano si trovava in una posizione strategicamente cattiva, di fronte agli austrìaci che possedevano il Quadrilatero; non solo, ma pure nel Polesine disponevano d'una zona protetta dal corso del Po e quindi dell'Adige, e tutta rotta da fossi, canali, paludi. Ed era a loro relativamente facile l'agire per linee interne. Da parte italiana era dunque impresa difficile non solo l'affrontare direttamente il sistema fortificato nemico, ma anche l'aggirarlo, per avanzare poi verso l'Isonzo. Nel 1848, e anche nel 1859, le proposte di aggirare il Quadrilatero da sud, mirando a Padova e a Venezia, erano state subito scartate, come abbiamo visto, come troppo audaci e pericolose; e Napoleone III aveva predisposto un duplice assedio di Peschiera e di Verona, come necessaria premessa d'un'ulteriore avanzata verso l'Isonzo. Comunque, opinione generale nell'esercito era che un doppio attacco simultaneo, a tanaglia, dal Mincio e dal Po, fosse da scartarsi, data la lontananza delle due masse operanti e le difficoltà molteplici che si presentavano da entrambi i lati, Ma come abbiamo ripetutamente rilevato, la condotta di guerra, ossia la strategia intesa nel suo più ampio significato, non può scindersi dalla pòlitica che l'ha generata. E il generale La Marmora aveva condotto le trattative per l'alleanza con la Prussia, persuaso nel fondo che la questione del Veneto si sarebbe potuta risolvere per vie pacifiche. Di conseguenza, la sua prudente e sospettosa politica si legava innanzi tutto a una circospetta campagna oltre il Mincio, attorno al Quadrilatero; una grande politica come quella del Bismarck si appoggiava invece a una grande strategia, molto rischiose entrambe, ma di grandi risultati in caso di successo. Alla fine di febbraio nel Consiglio della corona prussiano si manifesta il desiderio d'avere a Berlino un generale italiano per trattarvi la quistione militare; la Prussia manderebbe anch'essa a Firenze un generale e magari lo stesso capo di Stato Maggiore, Von Moltke. Ma il La Marmora, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri dal settembre 1864, aveva mandato nella capitale prussiana il generale Covone, con «poche e generiche» istruzioni scritte, e all'atto della stipulazione dell'alleanza aveva respinto la proposta, avanzata dallo stesso Covone, d'una convenzione militare. Il nostro presidente del Consiglio, e massima autorità in Italia nel campo militare, si riserbava piena indipendenza nella sua azione di comando in caso di guerra! Sembrava voler dimenticare che non solo la strategia, ma una qualsiasi condotta di guerra appena degna del nome è innanzi tutto un coordinamento di sforzi! Il 21 maggio il Moltke aveva esposto al Covone il piano di guerra prussiano, con evidente incitamento ad esporre quello italiano; e il La Marmora s'era affrettato a raccomandare al suo inviato di non mescolarsi troppo nelle faccende prussiane! La questione per dì più si complicava, che il 3 giugno cominciavano le trattative dell'imperatore Napoleone III con Vienna, per un accordo segreto di benevola neutralità dietro la cessione del Veneto in Italia ed eventuali compensi in Germania; l'accordo fu concluso il 15 giugno e in quello stesso giorno Napoleone III, a Parigi, diceva all'ambasciatore Costantino Nigra che « durante la campagna potrebbe accadere che fosse utile che PItalia non facesse guerra con troppo vigore»! Il La Marmora era sempre rimasto silenzioso, come se tali trattative non avessero direttamente riguardato l'Italia, ma notizie di questi occulti maneggi erano trapelate, e Bismarck riprendeva a diffidare dell'Italia e a temere sempre più che si volesse fare una lenta e fiacca guerra attorno alle fortezze. Aveva però il torto di valersi presso il La Marmora, per incitarlo a una condotta di guerra energica, non di uno sperimentato generale, ma dapprima di uno scrittore e studioso, dilettante anche di cose militari, il Von Bernhard, e poi del ministro prussiano a Firenze, conte Usedom. Il primo rilasciava al La Marmora una memoria militare sul piano di campagna comune, secondo le idee del gabinetto militare del re di Prussia: guerra vigorosa mirante a colpire al cuore l'avversario, trascurando le operazioni secondarie. A questo scopo la Prussia ha concentrato verso la Boemia quasi i tre quarti delle sue forze e si propone d'agire con azione concentrica, rapida e decisa, senza preoccuparsi delle fortezze nemiche sul fianco, puntando verso il Danubio e su Vienna. Analogamente occorre che gli italiani aggirino il gruppo di fortezze del Quadrilatero, avanzando dal Polesine o passando dal Mincio attraverso ad esse, e giungessero comunque col grosso delle loro forze a Padova. Di qui dovrebbero proseguire risolutamente verso l'Isonzo e il cuore dell'Impero asburgico, di concerto con la flotta e sostenuti sul fianco destro da una spedizione di Garibaldi in Dalmazia, a Fiume, e a Trieste, e dall'insurrezione ungherese che sarebbe opportuno provocare.

Da parte di Berlino s'era agito in verità con poca delicatezza; ma le proposte in sé erano degne d'attenta considerazione. Quanto alle operazioni complementari in Dalmazia e a Trieste, nonché in Ungheria, sarebbe stata per prima cosa necessaria la padronanza del mare; e purtroppo il Persano già cominciava a tergiversare, e tale dominio, date le magnifiche basi navali austriache a Pola e in Dalmazia e i notevoli miglioramenti della flotta, cominciava a profilarsi aleatorio. Ma per prima cosa sarebbe stata necessaria l'unità di comando; quell'unità che era mancata completamente nel 1848 e 1849 e non s'era ottenuta interamente neppure nel '59. Comandante supremo era il re e suo capo di Stato Maggiore il La Marmora; ma l'esercito veniva diviso in due masse per agire dal Mincio e dal Basso Po. Fautore dell'azione dal Basso Po era il generale Caldini, il quale era designato per tale impresa; ma esigeva la massima autonomia. Cosicché si era finito col dargli 8 divisioni, con grandi equipaggi da ponte, mentre il La Marmora, fautore dell'azione dal Mincio, comandava di fatto le altre 12. In realtà il La Marmora non aveva un suo preciso piano di guerra da attuare con chiari intenti e ferma volontà: cattivo politico, era di conseguenza anche cattivo stratega. La direzione di politica e guerra da parte d'una solamente, ritenuta cosa opportunissima e talora necessaria, cumulava anzi moltìplicava le due deficienze se la persona investita di cosi alto compito si mostrava ad esso inferiore. Il generale e statista piemontese avrebbe dovuto ora uguagliare il genio politico di un Bismarck e il genio strategico di un Moltke, che si trovavano strettamente all'unisono e s'integravano a vicenda.

Il 16 giugno 1866 la Prussia apre le ostilità contro la Sassonia, l'Hannover e l'Assia-Cassel; gli italiani, al contrario, tardano ad aprirle fino al 23. Il 17 il La Marmora lascia Firenze per recarsi a Cremona quale capo di Stato Maggiore dell'esercito, ma si ferma a Bologna per conferire col Cialdini. Che cosa conclusero dal loro dialogo? Non sappiamo con precisione: pare che si promettessero scambievole aiuto, ma nell'ambito della reciproca maggiore autonomia. Dato il terreno, i due generali furono, sembra, di nuovo d'accordo che troppo difficile sarebbe stato ottenere il sincronismo delle due masse operanti concentricamente. Di conseguenza, l'una avrebbe fatto una semplice azione dimostrativa, per quanto vivace, e l'altra quella risolutiva. Ma quale dei due avrebbe assunto su di sé l'azione risolutiva? Non pare che su questo punto essenziale si venisse a una chiarificazione. Ma, il 21 giugno, il Cialdini da Bologna telegrafa d'aver bisogno per passare il Po d'una « seria dimostrazione », che per prima cosa richiami le forze austriache verso il Mincio; il che vuoi dire che riserva a sé l'azione principale. Il capo di Stato Maggiore risponde che agirà energicamente per attrarre su di sé il nemico. Non si parla nella risposta di «dimostrazione»; e ciò significa che l'azione principale passa al La Marmorà, il quale non si adatta a fare la parte secondaria.Il Cialdini annunzia pure che non potrà iniziare il passaggio del Po che nella notte sul 26, dieci giorni dopo l'inìzio delle ostilità da parte dei prussiani, e chiede che la vigorosa azione dimostrativa abbia luogo il 24. Di conseguenza, solo il 23 l'esercito del Mincio si mette in moto e inizia il passaggio del fiume a Valeggìo e a Goito: la cavalleria sì spinge nella pianura fino a Villafranca, e il generale De Sonnaz, figlio del vincitore di Pastrengo, annunzia che il Quadrilatero è sgombro dagli austriaci; si ritiene che l'esercito d'operazione nemico sìa tutto dietro l'Adige. E invece nel pomeriggio di questo stesso giorno, l'esercito austriaco, già concentrato in Verona e colla divisione di riserva spinta a nord-ovest fino a Pastrengo, manda avanti questa fino a Castelnuovo, a sei chilometri da Peschiera, sulla strada di Verona, e il V Corpo nella zona fra Castelnuovo e Sona, fino alla strada ferrata, mentre gli altri due corpi si portano due o tre chilometri fuori Verona. Dalle notizie pervenutegli, l'arciduca Alberto, capo delle forze austriache in Italia, s'è persuaso che gli italiani tendano per Valeggio e Villafranca al medio Adige, per collegarsi col Cialdini e prendere alle spalle il Quadrilatero, il che sarebbe stato logico. Di conseguenza ha pensato d'occupare l'anfiteatro morenico sulla sinistra del Mincio, per poi attaccare l'esercito italiano sul fianco sinistro. Il figlio dell'arciduca Carlo agisce veramente per linee interne, lasciando di fronte al Cialdini un solo battaglione di jaeger e quattro squadroni di cavalleria, mentre a Rovigo si trovano di presidio due battaglioni scarsi; la lezione del 1859 ha servito a chi era in grado d'intenderla; l'arciduca Alberto non soffre di psicosi di fronte al pericolo rivoluzionario! In realtà, però, se il La Marmora s'ingannava in pieno, anche il suo avversario errava nell'interpretare in modo cosi intelligente l'operazione italiana; ma il suo errore era senza paragone più lieve. Comunque, egli disponeva che il giorno 24 tutto l'esercito dovesse portarsi nella zona collinosa e avanzare verso sud, fino alla linea Sommacampagna-Zerbare-San Rocco-Oliosi, a metà circa della zona morenica a partire dalla strada Verona-Peschiera. Due brigate di cavalleria (15 squadroni) dovevano coprire il fianco sinistro dell'esercito dal lato della pianura.

Da parte italiana si era notato un grande polverio sullo stradone da Verona a Peschiera, e si erano anche avute notizie di movimenti di truppe da Verona; ma esse non erano state neppure trasmesse al Comando supremo: tutti erano persuasi che gli austriaci si tenessero sulla difensiva dietro l'Adige. Per il 24, inizio dell'energica azione, il La Marmora dispone che una divisione del I Corpo, comandato da Giovanni Durando (il difensore di Vicenza, il vinto di Mortara, il combattente della Madonna della Scoperta, sempre valoroso e sempre poco o mediocremente fortunato), resti al di qua del Mincio in osservazione verso Peschiera, e le altre tre avanzino oltre il fiume in modo che una di esse abbia a circuire Peschiera dalla riva sinistra, mentre le altre due dovranno occupare le colline fin oltre la strada Peschiera-Verona, presidiando Santa Giustina e Sona, fronte verso Verona. Al centro il III Corpo (agli ordini del generale Della Rocca, già capo di Stato Maggiore della divisione di riserva nel '48 e dell'esercito sardo nel 1859), dovrà colle sue 4 divisioni occupare il restante orlo collinare da Sommacampagna a Custoza, e la sottostante piana di Villafranca, Alla destra il II Corpo (comandato dal generale Cucchiari, già a capo della 5a divisione a San Martino nel '59) dovrà passare con due divisioni il Mincio occupando Marmirolo e Roverbella, in modo da circondare Mantova da nord, ma da poter pure all'occorrenza muovere a sostegno del II Corpo a Villafranca, mentre le altre due, rimaste al di qua del Mincio, dovranno distendersi da Curtatone a Borgoforte sul Po, tredici chilometri a sud di Mantova. La divisione di cavalleria di riserva dovrà stabilire il collegamento fra il III e il II Corpo. Queste disposizioni sono state molto criticate; più che un dispositivo per la battaglia sembrano un dispositivo di marcia: la riserva d'artiglieria d'armata rimane dietro il Mincio; non è detto dove si collocherà il Comando supremo. Le truppe dovrebbero disporsi a cordone, con ampia soluzione di continuità e scarsissime riserve, sopra una fronte troppo ampia, come nel luglio 1848, e spinte troppo in avanti, alcune a solo dieci o quindici chilometri da Verona. Il La Marmora ritiene di potersi interporre tranquillamente fra le fortezze del Quadrilatero, così da richiamare su di sé notevoli forze nemiche e respingerle bravamente dalle forti posizioni del margine dell'anfiteatro morenico. Ma delle sue 12 divisioni, le 4 del II Corpo sono in realtà sperperate attorno a Mantova, ove gli austriaci hanno in tutto, compresa Borgoforte, 7 battaglioni; e 2 divisioni del I Corpo sono attorno a Peschiera, di fronte a 4 battaglioni austriaci; restano 6 divisioni, una forza effettiva da 8 a 10.000 uomini: 50.000 uomini in tutto contro 70-75.000 dell'arciduca Alberto, molto più concentrati e meglio diretti. A questi guai si aggiungeva l'insufficienza dei comandanti in sottordine, a cominciare dai due comandanti di corpo, Durando e Della Rocca; cosicché le truppe partirono spesso senza aver mangiato e non mangiarono per tutta la giornata di combattimento: l'esplorazione e i collegamenti lasciarono molto a desiderare e il traino borghese mescolato alle colonne di fanteria marciami non poteva non produrre in momenti critici che grandissima confusione. Fra le sei e le otto di mattina del 24 giugno i due eserciti avversari venivano a contatto, ma, dice il generale Pollio, «l'azione fu da parte nostra così slegata che il racconto della battaglia è un racconto di combattimenti isolati ».

La battaglia

Alla nostra sinistra la divisione Cerale (che, come sì è detto, doveva circondare Peschiera dalla sinistra del Mincio) è preceduta per errore dall'avanguardia della divisione Sirtori, che marcia senza collegamento alla sua destra. L'avanguardia urta, poco dopo le sei, in elementi avversari e avanza fino a Oliosi, dove s'accende un aspro combattimento. Interviene la divisione Cerale, gli austriaci sono respinti e gli italiani avanzano oltre Oliosi. Ma il nemico contrattacca con forze sempre più numerose; da parte italiana muore il generale Di Villarey ed è ferito gravemente anche il generale Cerale; dopo quattro ore d'attacchi e contrattacchi, alle dieci del mattino la divisione Cerale è in rotta, mentre gruppi isolati ancora si difendono valorosamente. Il generale Durando, comandante del I Corpo d'armata, ha però fatto occupare Monte Vento, al margine collinare, dalla sua riserva di 4 battaglioni bersaglieri e 24 cannoni, e il nemico è qui arrestato. La contigua divisione Sirtori, rimasta senza riserva, è avanzata per conto suo verso Santa Lucia del Tione, ha respinto alle sei e mezzo il nemico e ha varcato il vallone avanzando ancora. Ma anche qui i nemici si fanno sempre più numerosi e si susseguono attacchi e contrattacchi: le due divisioni, che combattono del tutto separate, dispongono complessivamente di 16.000 uomini e 24 cannoni contro 32.000 uomini e 64 pezzi del V Corpo e della divisione austriaca di riserva. Alle dieci il Sirtori deve ripassare il vallone e metà della sua divisione finisce collo sfasciarsi; ma gli austriaci sostano. In quattro ore di duri combattimenti hanno subito gravi perdite. Al centro dell'intero schieramento italiano, che si estende come una grande S maiuscola dai pressi di Peschiera a Borgoforte sul Po, sono avanzate al margine della pianura per prime le divisioni Principe Umberto e Bixio, che fra le sei e mezzo e le sette si sono spinte fuori di Villafranca. Si sono appena dispiegate che vengono assalite ripetutamente dalla brigata di cavalleria Pulz. L'azione si prolunga fino alle nove e mezzo e il nemico è definitivamente respinto con gravi perdite, e a volte contrattaccato da alcuni squadroni d'Alessandria. Alla loro sinistra la divisione Granatieri Brignone del I Corpo, diretta a Sona alla destra della divisione Sirtori, è fatta salire dal La Marmora in persona, verso le sette e mezzo, su Monte Torre e Monte Croce, fronte verso Villafranca, ma si vede presa d'infilata dal tiro dell'artiglieria nemica, mentre sì profila una minaccia anche sul fianco sinistro dal lato di Custoza. Allora da quel lato si schiera la brigata Granatieri di Lombardia, mentre i Granatieri di Sardegna tengono saldamente Monte Croce e Monte Torre. Verso le nove un violento attacco austriaco è respinto con perdite gravissime pel nemico; e comincia la serie degli attacchi e contrattacchi: il giovane principe Amedeo che comanda i Granatieri di Lombardia rimane ferito. Ma anche qui il solito aumentare delle forze nemiche: dopo due ore di lotta accanita, alle dieci la divisione Brignone è sfasciata; anche qui nuclei di valorosi guidati dai loro ufficiali continuano a resistere a gruppi isolati. Senonché dopo il successo gli austriaci retrocedono lasciando due soli battaglioni a Monte Torre e a Monte Croce. E allora elementi della divisione Cugia, del III Corpo, appena sopraggiunti, riconquistano brillantemente, verso le dieci e mezzo, le due colline. La battaglia, iniziatasi verso le sei e mezzo alla sinistra contro le divisioni Cerale e Sirtori, accesasi alla destra verso le sette e un quarto contro le divisioni Bixio e Principe Umberto, e divampata al centro contro la divisione Granatieri del generale Brignone e parte della divisione del generale Cugia, alle dieci e mezzo aveva una sosta. Alla sinistra gli austriaci erano stati fermati davanti a Monte Vento e al ciglione di Santa Lucia sul Tione (da non confondersi colla Santa Lucia davanti a Verona della battaglia del 1848); e dal Mincio il generale Pianell, rimasto in osservazione al di qua del fiume presso Peschiera, si preparava di sua iniziativa ad entrare in azione con parte della sua divisione; al centro, le posizioni della zona di Custoza erano state riconquistate e nuove truppe stavano per entrare in azione; alla destra gli attacchi della cavalleria austriaca erano stati energicamente respinti. Non solo, la battaglia d'incontro, ad onta della sorpresa, non era perduta; ma sarebbe stato possibile volgerla a nostro favore solo che i due comandi di corpo d'armata, e soprattutto il Comando supremo, fossero stati all'altezza della situazione.

Il La Marmora, capo dello Stato Maggiore generale, aveva lasciato alle tre e mezzo di notte il Quartier Generale di Cerlongo a nord-ovest di Goito, e poco dopo le cinque e mezzo era a Valeggio. Credeva cosi poco a una giornata di battaglia che nemmeno aveva avvertito il re, ed era accompagnato da un ufficiale d'ordinanza e da due cavalleggeri soltanto. Vide alle sei il Durando, comandante del I Corpo, e gli raccomandò di sorvegliare specialmente la divisione Cerale, estrema sinistra dell'esercito marciante (il Pianell, al di qua del Mincio avrebbe dovuto unicamente restare in osservazione verso Peschiera), procede poscia verso Villafranca e s'imbatté nella divisione Granatieri Brignone avviata a Sona per la via interna del margine collinoso, e la fece deviare, come abbiamo visto, a destra, col compito d'occupare, ma con fronte verso Villafranca, Monte Torre e Monte Croce. Saliva anzi su quest'ultima posizione, precedendo i soldati. Già al basso si sentiva il rumore del combattimento presso Villafranca (e perciò la divisione Granatieri era stata collocata colla fronte da questo lato, come se la minaccia nemica fosse solo dalla pianura), ma un grande polverone copriva tutto. Sopraggiungeva il re, e le prime cannonate nemìche prendevano d'infilata le due colline. Volto al La Marmora, gli disse: «Glielo avevo pur detto io! » e il capo di Stato Maggiore: «Vostra Maestà ha giusto il dire, ma bisognerebbe saper tutto»! Dopo di che gli chiedeva di poter rafforzare il generale Brignone con altre 2 divisioni del III Corpo (Della Rocca), e ne aveva l'assenso. Scendeva allora al piano, per affrettarne l'invio e per vedere la situazione a Villafranca. Quivi alle nove parlava col Della Rocca, metteva a sua disposizione la divisione di cavalleria pesante del Comando supremo (che alla destra dal lato di Mantova faceva da collegamento, come abbiamo visto, col II Corpo Cucchiari) e soprattutto gli raccomandava di «tener fermo» sulle sue posizioni davanti a Villafranca. Davanti al paese l'azione non era ancora finita del tutto e l'ostinazione della cavalleria austriaca contro le divisioni Bixio e Principe Umberto doveva avergli fatto una certa impressione; egli ancora nulla sapeva di quanto era avvenuto alle divisioni Cerale e Sirtori; e pensava che lo sforzo nemico convergesse su Custoza e Villafranca, mentre in realtà convergeva contro Custoza, con azione vigorosa anche dal lato del Mincio, e l'azione di cavalleria contro Villafranca, del tutto complementare sebbene vigorosa e ostinata, ormai volgeva al termine. Nell'uscire da Villafranca, infine, il La Marmora incontrava il re e lo pregava di recarsi a Valeggio, ove egli pure si sarebbe recato per trasferirvi da Cerlongo il Quartier Generale e dirigervi la battaglia. Il La Marmora tornava poi verso Custoza, alla ricerca ora delle divisioni Cugia del I Corpo, e Covone del III. Trovava il Cugia, ordinava che le 2 divisioni entrassero in azione al piu' presto, quindi saliva di nuovo a Monte Croce, proprio nel momento in cui la divisione Brignone, sopraffatta, si ritraeva ormai sfasciata; e invano cercava di riordinare le truppe in rotta; dopo di che ridiscendeva al piano per recarsi a Valeggio. Frattanto Vittorio Emanuele conferiva col Della Rocca e lo esortava a contrattaccare il nemico per la pianura, ai piedi dell'orlo collinoso: il comandante del III Corpo disponeva delle 2 divisioni Bixio e Principe Umberto, pressoché intatte, e della divisione di cavalleria di riserva. Ma il Della Rocca gli obbiettava la precedente calda raccomandazione del La Marmora di « tener fermo » davanti a Villafranca, e la necessità di potergli parlare di nuovo. Cosicché tale indovinatissima azione controffensiva non aveva luogo! E il La Marmora intanto, nel tornarsene a Valeggio, vedeva via via altre truppe che si dirigevano in disordine verso il Mincio, quelle delle divisioni Sirtori e Cerale, e carreggio che ingombrava, e riceveva l'impressione d'una rotta sempre più grave; a Valeggio poi la confusione era al colmo. Lo si udiva mormorare: «Che disfatta! Che catastrofe! Nemmeno nel '49! » Cercava invano d'avviarsi per la strada d'Oliosi, ma essa era più che mai ingombra; retrocedeva ed esclamava: «Bisogna che mi rechi a Goito ad assicurare la ritirata»; e così si allontanava dal teatro della lotta senza lasciare alcun ordine, e giungeva a Goito fra l'una e mezzo e le due pomeridiane. E qui finiva di fatto l'opera sua di comandante dell'esercito del Mincio.

Dal canto suo il re, dopo il colloquio poco fruttuoso col Della Rocca, era tornato anch'egli verso Custoza. Imbattutosi nel generale Covone, gli aveva ordinato di salire al villaggio, quindi aveva proseguito verso Valeggio. E tosto al ponte del Tione sulla strada Villafranca-Valeggio ebbe lo spettacolo degli sbandati e dei fuggiaschi; cercava di porre qualche ordine in quelle truppe, e una compagnia di granatieri ancora ben ordinata e disciplinata gli faceva scorta lungo il cammino, e così Vittorio Emanuele giungeva a Veleggio. Ma il La Marmora s'era portato sulla strada di Goito, e senza lasciare disposizioni. E il re, dopo averlo atteso invano, proseguiva per Cerlongo ove giungeva alle quindici. Osserva il Pollio che il La Marmora, anche se sorpreso, avrebbe ben potuto far fronte alla situazione imprevista. Vista impegnata la battaglia, egli doveva crearsi subito un nuovo comando, e porsi in posizione centrale ed elevata a Monte Vento o a Monte Mamaor; richiamare subito verso Valeggio o Custoza le divisioni Covone e Cugia, mandare a chiamare a Cerlongo gli ufficiali del Comando supremo, e poi collegarsi col Durando e col Della Rocca e far stabilire i collegamenti fra Pianell e Cerale, fra Cerale e Sirtori, fra Sirtori e Brignone, nonché fra il I e il III Corpo, mettere in movimento la divisione di cavalleria; insomma, comandare, esercitare la sua funzione direttiva e coordinatrice. Invece andò alla ricerca delle divisioni Cugia e Covone, poi del Della Rocca, senza sapere ancora quanto avveniva alla sinistra, e senza la sensazione delle numerose forze tuttora efficienti malgrado i parziali rovesci; poi si trovò in mezzo alla turba degli sbandati e dei fuggiaschi, ed ebbe la sensazione del tutto errata d'un vero disastro, e non pensò che a salvare il ponte di Coito per la ritirata del III Corpo e delle 2 divisioni del II Soltanto per coprire e assicurare la ritirata delle truppe ancora efficienti; non per adoperarle nel contrattacco! D'altra parte, il Durando non guidava per nulla il suo I Corpo, né il Della Rocca guidava il III.

Quanto al re, egli ebbe dapprima l'idea felice di contrattaccare dal lato dì Villafranca; ma aveva solo l'alto comando nominale e non poteva dare che dei consigli. Poi si trovò anch'eglì fra la turba dei fuggiaschi, ma si mostrò assai più calmo e, giunto a Cerlongo senza più aver trovato il La Marmora, mandava subito a Valeggio l'ordine che la posizione andava tenuta ad ogni costo. E alle quattro e mezzo pensava alla rivincita nel giorno successivo dicendo: «Domani daremo agli austriaci una buona raclée». Alla sinistra, dunque, fra il Mincio e Monte Vento, gli austriaci sono fermati. Il Pianell fa retrocedere con un'azione sul fianco forze austriache che cercavano avanzare su Monzambano e verso Valeggio, mentre la riserva del I Corpo e resti della divisione Cerale fronteggiano bravamente gli assalitori. Ma Durando, ferito a una mano, lascia il campo verso le due. A Santa Lucia il Sirtori contrattacca, ripassa nuovamente il Tione. Attorno a Custoza elementi della divisione Cugia hanno ripreso, come s'è visto, Monte Torre e Monte Croce, e alle undici e mezzo le alture di Custoza sono riprese dalla divisione Covone e da resti della divisione Brignone. E continuano gli attacchi e i contrattacchi. Il Covone chiede invano rinforzi al Della Rocca: le divisioni Bixio e Principe Umberto e quella di cavalleria dopo le nove e mezzo restano del tutto inattive; ma il Della Rocca deve « tener saldamente Villafranca » e non compie nessuna grande manovra avvolgente per la pianura, né manda le 2 divisioni di fanteria o parte di esse di rincalzo sulle alture. Alle due e mezzo il Sirtori è di nuovo attaccato da forze soverchianti: i resti della sua divisione nel retrocedere per l'erta del vallone del Tione si sfasciano e così gli austriaci alle tre pomeridiane sono padroni di Santa Lucia. Allora anche la difesa di Monte Vento, presa di fianco, non può più sostenersi. L'arciduca Alberto prepara l'attacco risolutivo contro Custoza. Alle sedici il Covone ne avverte il Della Rocca; questi, tranquillo, risponde che cerca di mettersi in comunicazione col La Marmerà e intanto le 2 divisioni di fanterìa e la massa dì cavalleria continuano a restare al piano. Alle sedici e mezzo si sferra l'attacco nemico: 15 o 16.000 austriaci avanzano contro 8 o 9000 italiani, per di più digiuni dal giorno prima! Cade dapprima il Monte Croce, quindi il cerchio nemico si serra addosso al Covone, che per di più rimane ferito. Alle cinque e mezzo pomeridiane anche Custoza è perduta.

Le conseguenze

Ma la difesa ancora si aggrappa alle pendici di Monte Torre e verso Villafranca, fin quasi alle sette. Il Covone porta la sua divisione a Valeggio, ove giunge a mezzanotte. Le altre 3 divisioni del III Corpo ripiegano su Coito, protette dalla divisione Bixio, che dopo le sei respinge vari attacchi di cavalleria nemica e alle nove e mezzo abbandona Villafranca. Il nemico, spossato, con perdite in morti e feriti notevolmente più gravi delle nostre, non L'esercito italiano, anche solo mediocremente guidato, avrebbe potuto vincere; comunque, l'immeritata sconfitta del giovane esercito non era in sé cosa grave; rivestì invece la parvenza di un vero disastro per quanto avvenne in seguito e unicamente per colpa dei capi. Il La Marmerà ritiene completamente sfasciato e non più in grado di ricostituirsi il I Corpo e una parte del III; che non sia quindi possibile tenere la linea del Mincio; e paventa che gli austriaci vogliano sfruttare il successo passando il Mincio per compiere da Peschiera e da Monzambano una grande manovra avvolgente, oltre il fiume. Perciò non solo i ponti sono fatti saltare, ma il La Marmerà pensa, la sera del 25, di far ritirare l'esercito dietro il Po e dietro l'Adda, conservando solo le teste di ponte di Cremona e di Pizzighettone; e solo per la netta riprovazione del Covone e di alcuni altri, si adatta a limitare la ritirata a dietro il basso Oglio. Inoltre apprende che l'esercito austriaco non sarà più minacciato, dalla parte del Polesine, dalle 8 divisioni del Caldini. Alle 16 e 45 minuti, quando ancora a Custoza gli italiani eroicamente si sostenevano; il re aveva fatto telegrafare al Cialdini di passare immediatamente il Po; e questi aveva risposto che l'avrebbe passato l'indomani, secondo quanto era stabilito. Per dì più un successivo telegramma di Vittorio Emanuele avvertiva: «Dato ordine ripassare Mincio, guarderò tenere Volta e, riposate truppe, riprendere offensiva». E allora il Cialdini, nonché affrettarsi a passare il Po, pensava se non fosse opportuno rinunziarvi pel momento, e rispondeva: « Risultato battaglia d'oggi è grave e mi pone in grande perplessità». Ma il giorno dopo 25 giugno, alle ore 18 e 40 minuti, il Cialdini riceveva un altro telegramma a firma del La Marmora: «Austriaci gittatisi con tutte le forze contro Corpi Durando e La Rocca li hanno rovesciati. Non sembra finora inseguano. Stia quindi all'erta. Stato armata deplorevole, incapace agire per qualche tempo, 5 divisioni essendo disordinate». In seguito a questo telegramma il Cialdini rinunzia definitivamente a passare il Po; non solo, ma inizia a sua volta la ritirata del suo esercito dietro il Panaro, lasciando una divisione distaccata a protezione di Bologna.



Tratto da:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962