Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Crevola

28 aprile 1487

Il comandante sforzesco

Giberto BORROMEO

Appartenente ad una delle più potenti famiglie di feudatari milanesi, nacque a Milano verso il 1460 da Giovanni conte di Arona e da Cleofe Pio. Il grande rilievo politico del padre, che era fra i principali notabili milanesi, destinava il Borromeo a primeggiare nella vita pubblica del ducato, e un primo segno inequivocabile se ne poté cogliere già nel 1475, quando ancora in giovanissima età il duca Galeazzo Maria Sforza gli fece dono di alcuni broccati. Il 6 maggio 1484 sposò a Mantova per procura Magdalena di Brandeburgo, figlia di Fritz d'Hohenzollern fratello di Barbara marchesa di Mantova. Questo matrimonio, sapientemente negoziato dal conte Giovanni, fruttò ai Borromeo, oltre alla cospicua dote di 5.000 ducati, la parentela con gli Hohenzollern e i Gonzaga di Mantova che comportava l'inevitabile rafforzamento del prestigio e dell'influenza politica della potente famiglia milanese. Nel 1487 il Borromeo fu mandato dal padre, insieme con i condottieri Renato Trivulzio e il Bergamino, contro gli Svizzeri che avevano invaso la Val d'Ossola e minacciavano i possedimenti feudali dei Borromeo. La spedizione si concluse felicemente con la battaglia al ponte della Crevola del 28 apr. 1487, nel corso della quale i contingenti svizzeri furono messi in fuga.

La genesi

Tratto da: "L'Ossola inferiore - Notizie storiche e documenti", Vol. 1, Enrico Bianchetti, 1878

Dirò in questo capitolo di uno fra i più gloriosi fatti d'arme in questi luoghi combattuti. Benchè ne abbiano già diffusamente scritto il Corio ed altri storici in appresso, e benchè tale avvenimento non sia particolare all'Ossola inferiore, stimo opportunissimo di farne parola, poichè mi fu data la buona ventura di poterne attingere i particolari ad una serie di documenti originali e sin ora sconosciuti, da me rinvenuti nel gran mare dell'Archivio di Stato milanese. Ludovico Sforza, detto il Moro, cui la duchessa Bona aveva nella sua femminile debolezza trasmessa la tutela del giovine duca Gio. Galeazzo Maria e il reggimento dello stato, era entrato nell'alleanza strettasi a favore di Ferdinando re di Napoli, combattuto dalle armi del papa, il quale agognava di formare col regno di lui un principato ai proprii nepoti. Il pontefice, a divertire l'aiuto dello Sforza, tentò d'impigliarlo in altra guerra; e però eccitò vivamente gli Svizzeri a scendere ai danni del Milanese. Sedeva in quel mentre sulla cattedra di Sion il vescovo Iodoco di Syllinen, tenero assai più del temporale principato, che non della spirituale dignità. Era costui veramente l'uomo atto ad assecondare i voleri del papa; imperocchè nulla più stavagli a cuore dello impadronirsi della vicina Ossola e del sottometterla all'elvetico dominio. Cominciò egli pertanto dal cercare un pretesto qualsiasi all'aggressione, tessendo una filza di ben sessanta capi di accusa contro il duca di Milano e contro i conti Borromeo, signori della bass'Ossola e di Vigezzo. Querelavasi il ve scovo di infinite ingiurie, di ostilità, di soprusi, di violenze commesse contro i suoi sudditi, dai borghigiani di Domo e segnatamente di Vogogna; lamentavasi che la propria sede episcopale fosse stata spogliata di certi suoi diritti sovra alcuni uomini e pascoli nella valle Divedro, e di un certo tributo dovutogli dalla terra di Ornavasso; accusava finalmente il conte Vitaliano Borromeo di avere espressamente inviato nel Vallese un sicario per assassinarlo.

Intanto il vescovo Iodoco aveva spedito a Vitaliano Borromeo l'intimazione di guerra, la quale il 28 dello stesso mese di ottobre già era stata notificata al duca. Ciò fatto, il vescovo pone alla testa de' suoi soldati il proprio fratello Albino. Le schiere, fanatizzate dalla voce dell'eloquente prelato, passano il Sempione e portano il ferro e il fuoco sul territorio ossolano. Alcuni luoghi di Valle Divedro sono occupati dagli Svizzeri; e presso lo sbocco di quella valle già si sta per venire alle mani, allorchè riesce ad alcuni confederati, ch'eransi uniti alle truppe vallesane, d'interporsi fra le due parti. Albino già sconcertato dal numero de' nemici che gli stanno a fronte, ben maggiore di quanto aveva previsto, cede alla ressa de confederati guadagnati da Ludovico il Moro, e frettoloso volge le spalle senza cercar battaglia. Iodoco, dissimulando a stento il suo dispetto, fa mostra di piegarsi ai pacifici desiderii de' suoi vicini e connazionali; non di meno, continuando nelle sue querimonie, sta spiando l'ora opportuna per ritentare la prova. Per oltre due anni dovè Iodoco de Syllenen frenare la propria impazienza, affine di non urtare contro i confederati alieni da ogni guerra. Finalmente l'occasione gli venne sul principio del 1487. I Grigioni, tratti anch'essi dal denaro del papa e dalla speranza di facile bottino, unitisi con altri Svizzeri, erano entrati in Valtellina, che misero duramente a sacco; ma alcun tempo dopo, più che rotti dalle truppe ducali, vinti dall'oro di Ludovico il Moro, erano scesi a trattato di pace, e sgombrato avevano il paese, dopo aver restituito il tolto. Nondimeno il vescovo del Vallese, colto pretesto da un tafferuglio accaduto fra alcuni uomini di Val Divedro ed altri vallesani, forse ad arte da lui medesimo provocato, il giorno 18 d'aprile fece dal fratello Albino intimare la guerra al duca, ed ordinò alle sue schiere d'invadere improvvisamente l'Ossola, e di tutta occuparla in nome della sede vescovile di Sion.

Il presidio di Domodossola era in quel tempo comandato da Gian Antenore Traversa, il quale non appena informato degli apparecchi del vescovo, ne aveva dato avviso al duca, che immediatamente aveva dal canto suo ordinato a vari suoi capitani di recarsi colle truppe in Ossola; aveva ingiunto ai podestà di Pallanza, della Riviera d'Orta e della Valle Sesia di spedir uomini armati in soccorso di Domo; ed anzi tutto aveva mandato in Vogogna Giberto Borromeo, primogenito del conte Giovanni, perchè valendosi di sua autorità signorile, desse opera ad armare sollecitamente gli abitanti de paesi nostri. Prima ancora che il vescovo Iodoco bandisse formalmente la guerra, Giberto Borromeo già era adunque in Vogogna; ma non ebbe a durar poca difficoltà per indurre gli uomini, singolarmente dell'Ossola superiore, a prestarsi alla difesa di Val Divedro. Più obbedienti e volonterosi si mostrarono invece gli uomini dell'Ossola inferiore, sudditi suoi: pure s'avvide Giberto che poco fondamento era a farsi sulle forze paesane; e però scrivendo al duca in data del 17, lo stimolava a mandar buone truppe, e vittovaglie, e denari. Ed ecco in quali termini ei s'esprimesse: - «La parte che V. S. dice, li homini del paese essere bastanti « a resistere ad ogni assalto dal verso del Valese, dubito che quella non prenda errore, et sia male informata, perchè la mazore parte de loro sono pussilanimi, et e de continuo se trova garra fra loro, non fidandose l'uno de l'altro. Et che sia vero: duy giorni fa fu comandato a che tutte queste vallate dovesseno andare al soccorso « de quelli de Devetro. Et essi promissono andarli. Hoghi ho trovato che pochi hanno attesa la promessa, excepto a quelli de parte Ferrera, quali non possono recusare la obbedientia mia per ritrovarme qua. Et anche quelli de Antrona, quali hoghi ho ritrovati al ponte di Crevola, che più avanti non volevano passare. Se non che tandem e con minatie et blandimenti li ho pur inviati drieto ali e altri, promettendoli non lassarche mancare victualie, ne « altro loro bisogno. Domani me sforzarò de conducere ali passi me parano più importanti tutti quelli homini poterò « havere dalle parte circustante, et quivi aspettarò quanto « vorano fare questi valesani. Dal canto mio non mancharò e de obviarli a tutta mia possanza, farendo la experientia de questi paesani, sopra li quali, come ho scritto a V. E. a non fazo grande fondamento » - All'indomani (18) giunse in Vogogna Zenone de Cropello con 500 fanti e 50 schioppettieri, recandosi poi tosto a Domo in aiuto di quel presidio, e dandovi lo scambio a 60 balestrieri a cavallo, i quali, standovi a disagio per la penuria di fieno e di acqua, retrocedettero a Vogogna. Per altra parte Renato Trivulzio, altro valoroso condottiero ducale e fratello del celebre Gian Iacopo, già erasi posto colle sue genti in cammino, ed il giorno 20 trovavasi a Somma, diretto a Vogogna.

Infrattanto gli Svizzeri, in numero di oltre sei mila uomini, guidati dal fratello del vescovo sedunese, e rinforzati da una forte schiera di giovani lucernesi, capitanati da Giovanni Bruk e da Giovanni Murer (4), valicato il Sempione eransi senza contrasti seri innoltrati in Val Divedro. Il mattino del 20 aprile, alle ore quattro di giorno, sboccavano per la stretta di Crevola; indi lasciata colà buona scorta e spedite alcune squadre in Valle Antigorio, si diressero su Domodossola, girando il borgo e recandosi a prender posizione sul colle di Mattarella. Tre squadre però tentarono di stringere il borgo d'appresso; ma il Zenone ed il Traversa, facendo buon uso delle artiglierie ch'erano sulle mura, seppero tenergli lontani, causando loro il danno di parecchi feriti e morti. Ciò vedendo, quegli armati si diedero a saccheggiare e quindi ad incendiare le case prossime al borgo, ritraendosi poscia, come il resto, a Mattarella. Al domani gli Svizzeri si sparsero per la costiera sin presso a Vila, come il dì innanzi ponendo a ruba ed a fuoco i casolari in cui si avvennero. Vi ritornarono il giorno successivo in numero di circa cinquecento per dar l'assalto a quella terra; ma vi trovarono ben disposti alla resistenza, sia gli abitanti del luogo, sia molti altri uomini accorsivi dalla valle Anzasca per espresso ordine del Borromeo. Però dovettero batter di nuovo in ritirata, accontentandosi di appiccare il fuoco ad alcune casupole discoste dal grosso dell'abitato. Lo stesso giorno per tempissimo il Trivulzio era colle sue genti d'arme ad Ornavasso e alcune ore dopo a Vogogna, dov'erano pur giunti Ercole Albanese, il Corso, ed altri capitani. Qui, aspettando i rinforzi che il duca scriveva esser per via, il Trivulzio e il Borromeo diedero opera ad apprestare gli alloggiamenti, a sorvegliare il nemico col mezzo di scorrerie di cavalleggieri, e a preparare alla resistenza gli uomini di Valle Anzasca e della Valle d'Antrona. Ma non andò guari, che il timore potè in questi ultimi assai più che il dovere, imperocchè patteggiarono cogli Svizzeri, obbligandosi a starsene quieti entro la valle, purchè non avessero a soffrire molestie di sorta. Continuavano intanto le scorrerie intorno a Domo, in una delle quali rimase in potere degli sforzeschi Antonio Lener, uomo di molta riputazione e autorità presso i nemici. Nella notte sopra il 25 parte degli Svizzeri ch'erano in Mattarella, lasciatavi una guardia di due mila uomini, si portò in Vigezzo: non tanto per impedire il soccorso che di là ne potesse venire alla piazza, quanto per farvi ricco bottino di vittovaglie e di ostaggi.

Nel medesimo giorno per altra parte giunsero nuovi rinforzi a Vogogna, e fra questi il conte Gian Pietro Bergamino con circa due mila fanti: e però le forze che quivi e nei dintorni erano, ascendevano tra fanti, uomini d'arme, stradiotti e balestrieri a cavallo, a presso che tremila e cinquecento uomini. Anche gli assediati in Domo, che giornalmente avevano modo di comunicare con Vogogna, stavano di buon animo e preparati ad agire d'accordo. Ciò che maggiormente difettava era il denaro. Gli uomini d'arme condotti alla impresa avevano avuto promessa di toccar le paghe a Borgomanero ed a Vogogna, ma nulla avevano ricevuto; quindi è che il malumore già serpeggiava nelle file, e minacciava volgere a peggio. Il Trivulzio, il Bergamino ed il Borromeo battevano il chiodo, ma nulla o poco potevano avere dalle casse ducali, e sopperivano con ispedienti e col taglieggiare le nostre popolazioni; ond'è che il 26 aprile scrivevano di nuovo al duca, instando per aver denaro, essendo che degli uomini d'arme, dicevano, molti sono si poveri che non hanno el modo de fare ferrare li cavalli: et se allogiaremo a la campagna, como facciamo concto, gli converrà comprare el sole. Il dì seguente (27), ch'era un venerdì, Renato Trivulzio, desiderando esaminare d'appresso le posizioni de' nemici, tolto seco Messer Iacopo da Corte con cinquanta balestrieri e pochi uomini d'arme e di stradiotti, nel pomeriggio s'incamminò verso Beura tenendo la sinistra della Toce. Gli Svizzeri scorta dal loro accampamento la piccola schiera che si faceva innanzi - e credendo mettere quisti nostri in paura calarono più di cinquecento al piano, ed essendosi fatti alla rippa dell'acqua dal canto suo, e M. Renato et nostri dal canto loro affermati, non curandosi M. Renato de procedere più oltra, nè attacharli, M. Iacobo de gratia singolare hebbe de puotere passare l'acqua et assagiarsi cum inimici. Et così passata l'acqua ani« mosamente cum li balestrieri fu affrontato, in modo che azzuffatamente fu expediente a li inimici desseno sparpagliatamente in fugha, et lui seguendoli non li volsi e lassare che ne rimanessero morti de quelli cani più de a cinquanta et feriti assai - « M. Renato che vedeva tutto, lo aspectò sempre fin che fu senza alcuno nostro damno ritornato ad Sua Magnificentia, da la quale fu cordiale mente abbrazzato, non potendosi continere de basarlo. Così di questa singolare scaramuccia scriveva un testimonio oculare, Nazaro de Poma, famigliare di Bartolomeo Calco, primo segretario ducale; il quale aveva seguito il Trivulzio in qualità di suo cancelliere, ed era al campo in Vogogna. Anche il Corio narrando, benchè alquanto confusamente, di quella zuffa, osserva che fu più atroce fatto d'arme, che non richiedeva il numero dei soldati.

All'arrivo in Mattarella di quegli Svizzeri fuggiaschi e feriti, Albino di Syllinen temendo d'essere assalito prima del ritorno delle squadre di Vigezzo, mandò loro premurosamente l'ordine di richiamo; poi comandò di tosto levare gli alloggiamenti, e prima che aggiornasse incamminò le salmerie e le truppe verso il luogo di Crevola, disegnando colà riunire tutte le forze sue e ritornare all'offesa. Il Zanone ed il Traversa, veduto che gl'inimici s'eran levati, celeramente da Domo spedirono a Vogogna un messo per avvertirne i capitani ducali; quindi inseguendo con parte del presidio gli Svizzeri, presero a molestarne gli ultimi squadroni per indugiarne le mosse. In Vogogna intanto il Trivulzio, il Bergamino ed il Borromeo prestamente adunano il campo. In un momento tutti sono in pieno assetto di guerra, di non altro timorosi che di lasciarsi isfuggire il nemico. Il valoroso Iacopo da Corte, primo si slancia co' suoi balestrieri; nè la Toce gonfia di acque, nè l'asprezza della via il trattengono; vola a Domo, toglie seco gli altri balestrieri che ivi erano, ed animosamente raggiunge il nemico. A Preglia si unisce al Zanone e al Traversa, ed impegna la zuffa. Sopraggiunge in buon punto il Trivulzio con parte delle genti d'armi e de'fanti. Suo primo pensiero è di mandare per alpestri sentieri in Val Divedro Nicolò Albanese, Gian Giacomo Cerano e Pietro da Brazzo, con cento uomini scelti, perchè ruinassero il ponte Orco e tagliassero al nemico ogni via di scampo. Ordina quindi i fanti e la cavalleria e si fa pur egli ad investire gli Svizzeri. Mentre qui si combatte e si contrasta il passaggio della Diveria, ecco dall'altra parte della Toce, verso Trontano, comparire in gran numero sui fianchi della montagna i Frilli, che traendosi dietro il fatto bottino sboccavano dalla Valle Vigezzo, accennando di volersi riunire al grosso dell'esercito loro. Ciò vedendo Iacopo da Corte, sempre desideroso di segnalarsi in ogni più ardua impresa, si reca da Renato Trivulzio, e con vivissime istanze lo prega di lasciargli guazzare il fiume e correre all'incontro de'Frilli. Il comandante in riscontrarlo sì baldo e ben disposto: va, Iacopo mio - gli disse - se may desideri avere honore, dimonstra a questa volta l'animosità tua; et vedi ad ogni modo cum quisti tuoi balestrieri, homini da bene, di dipportarti talmente che quisti non passino più avanti; et io rimarrò qua de opposito de quisti se vorranno far ponte.

A tal risposta Iacopo, pieno di ardore, si pone alla testa de' suoi valorosi balestrieri e di un piccolo drappello di venticinque stradiotti. Dato di sprone a cavalli, passano la Toce a guado e di carriera volano a piè del monte sotto Trontano, in quella che i Frilli già erano calati e stavano per allargarsi al piano. Ma, questi, scorto i cavalli che si accostavano turbinando, s'unirono serrati, avendo sulla fronte un centinaio di schioppettieri e dietro di sè il bottino. Gli sforzeschi appena arrivati in buon punto, scaricarono le balestre con tanta maestria, che ciascheduno quasi imberciò un nemico. Dal canto loro gli Svizzeri sostennero fortemente l'urto, e risposero col dar fuoco agli schioppetti; nessun danno per altro recando a nostri, all'infuori di due soldati feriti e di alcuni cavalli morti. Si riappiccò allora la zuffa più da vicino, pugnando spada contro spada e picca contro picca. Ma veggendo Iacopo da Corte che gli avversari suoi in tal forma stavano ostinati in loro ordine, che se non morti si potevano trarre dallo squadrone dove erano uniti (CoRIo), pensò di rinnovare l'accorto infingimento degli Orazi. Partite adunque le sue soldatesche in due ale, l'una di balestrieri e l'altra di stradiotti, e postosi egli nel mezzo con cinquanta balestrieri, rifece gagliardamente un altro assalto scaricando le balestre; poi bruscamente rivolgendosi indietro, finse di porsi co' suoi in fuga; sicchè gl'inimici pensando essere i nostri veramente in rotta, scomposero le file inseguendogli per buon tratto e sparpagliandosi al piano. In quel punto il valente condottiero, dato di volta ai cavalli, con impeto maraviglioso ritornò con tutti i suoi sopra i nemici: i quali, non potendo sostenere un tanto furore, in breve ora furono sì sbaragliati e malconci, che ne rimasero sul terreno, tra feriti e morti, più di mille. Si diedero gli altri alla fuga abbandonando sul luogo il bottino, e inerpicandosi a gran fatica sulla montagna; dove poi, inseguiti dai montanari, furono ad uno ad uno miserabilmente trucidati. Renato Trivulzio stavasi intanto fortemente in pena per Iacopo da Corte; e nulla sapendo di quanto era colà occorso, gli spedì un messo che il confortasse a tener testa, assicurandolo che stava per movere in soccorso di lui. Iacopo, mostrando al messo il campo sparso di cadaveri e di morenti, gli disse: guarda tu proprio et considera, et puoy ritorna ad M. Renato, et del bia:ogno che havemo si è, che ne sono anche certi pochi da acconzare come li altri. Il messo appena ritornato di là della Toce si scontrò col Trivulzio, il quale più non potendo frenare l'ansia impaziente, già erasi mosso per recare aiuto a Iacopo, cui singolarmente amava. All'udire come s'eran passate le cose, Renato levò le braccia con meraviglia e contentezza somma, e andava sclamando: oh! buon piccinino, che Dio ti benedica, che Dio ti benedica! Poi ingagliardito nell'animo rifece i passi e di nuovo risolutamente si spinse contro gli Svizzeri, i quali s'erano al ponte di Crevola agguerriti dietro alcune case e ripari, aspettando l'arrivo de' Frilli, di cui ignoravano ancora la sorte.

La battaglia

In questa giunsero sopra luogo anche il Bergamino e il conte Giberto Borromeo col rimanente degli uomini di grave armatura e con i fanti. Messa adunque in bella ordinanza l'esercito, i capitani sforzeschi mandarono innanzi le truppe a piedi, fiancheggiate dalla cavalleria, e diressero il nerbo dell'attacco contro il ponte. Il Traversa smontato da cavallo e coll'elmetto in capo, primo si fece avanti sul contrastato terreno. Fu vivo il combattimento, valorosi i Ducali, non meno valorosi gli Svizzeri. Tanto fu quivi il numero degli uccisi che, come narra il Corio, pareva essersi nell'acqua edificato un altro ponte coi loro cadaveri. Dopo qualche poco di tempo riuscì ad alcuni nostri cavalleggieri di passare il fiume e attaccare gl'inimici di fianco: a corso lanciato vi giunse pure da Masera Iacopo da Corte co' suoi balestrieri e stradiotti; sicchè gli Svizzeri, vedendosi assaliti da ogni banda, cominciarono a perder terreno e a rifuggiarsi nelle case vicine. Sul ponte erasi intanto impegnata una singolare tenzone. Il Traversa menando molto bene le mani si trovò petto a petto con certo Anz Müller da Lucerna, uomo di erculee forme, capo de'Frilli poc'anzi sconfitti, e che solo con altri diciannove compagni aveva potuto raggiungere il grosso del suo esercito. Preso da rabbioso furore, l'Anz Müller aveva più aspetto di belva che di soldato. Non di meno il Traversa gli si fe' sotto animosamente. Risuonavano le rotelle e gli elmi de'colpi poderosi; dai due capi del ponte, dalle due rive della Diveria trepidanti assistevano allo strano duello i combattenti, allora che un tal Gian Giacomo Dordoni da Modena, capo d'una squadra di fanti italiani, messosi terzo in quel ballo, con un terribile fendente del suo spadone spaccò l'elmo e la testa al formidabile lucernese, che ruzzolò sovra gli altri cadaveri. Albino de Syllinen, supremo comandante delle truppe vallesane, ch'era stato presente al conflitto, veduta la miserabil fine di Anz Müller, sgomentato dal numero degli uccisi, ferito ei pure, cominciò per il primo a dar l'esempio della fuga, e lo seguirono gli altri. Diedero allora gli Sforzeschi furiosamente addosso ai fuggenti, incalzandoli, snidandoli dalle case e dai ripari, sospingendoli, precipitandoli nel fiume, menandone strage orrenda. Molti pur caddero presso il rovinato ponte Orco, bersagliati dalle saette e da valanghe di sassi, che i nostri, appostati su quei dirupi, rotolavan dall'alto. Anche di coloro fra gli Svizzeri, ch'eran giunti a guadagnare i monti, pochissimi pervennero in salvo. Imperocchè gli altri, o smarriti per le balze selvagge moriron di fame, o raggiunti dai montanari perirono scannati. Narrano anzi gli storici, che sì grande era l'odio e l'esaltazione negli uomini di quei luoghi, che incrudelirono persino sovra i cadaveri. Moltissimi pur furono i prigionieri, grande il bottino, tutte le bandiere degli Svizzeri in mano ai vincitori. Gli annali elvetici fanno ascendere ad un migliaio il numero del loro morti; ma dal Corio e dalle carte di quel tempo appare che furono oltre i due mila. Trecento uomini perdettero i soli Lucernesi - e fra questi trova« ronsi cinquanta giovani dei più distinti della città, i quali - per tal modo gravemente espiarono la loro prima impresa guerresca».

Vuolsi per contro che gli uccisi di parte nostra siano stati solamente due, secondo il Corio e la popolare tradizione; e quattro, secondo le citate carte. Ma parmi dovervi essere in ciò non poca esagerazione, poichè un sì piccol danno sembra inverosimile in un fatto d'arme cotanto accanito, in una battaglia nella quale gli Svizzeri stessi mostrarono tanta intrepidezza e tanta ostinazione. Ad ogni modo grande fu certo il numero anche dei nostri feriti, e fu tra questi il Renato Trivulzio, il quale il dì medesimo scriveva dal campo al duca: Io Renato rimango ferito da uno schioppo nel solo del pede: ma el piacere che provo nel haver facta questa cosa insieme con questi altri homeni da bene, me leva el dolore Ottimo capitano era il Trivulzio, e curante, più che di sè, dei soldati, come si vede dal suo carteggio pubblicato fra i documenti del secondo volume, il quale rivela la premurosa cura che di essi aveva in ogni tempo. A lui forse nocque la maggior fama del fratello Gian Giacomo, ond'è che poco se ne occuparono gli storici milanesi. Questo solo se ne conosce, che fu governatore di Cremona, ed in più imprese capitano generale delle armi di Ludovico Sforza, cui si mantenne sempre fedele, malgrado che il fratello Gian Giacomo, passato contro il Moro agli stipendi di Francia, lo sollecitasse ad imitare l'esempio. Allorchè poi, dopo la rotta di Novara, lo Sforza fu fatto prigioniero, Renato si pose al servizio de Veneziani e vi rimase fino alla morte. Valentissimo capitano era pure Giberto Borromeo, primogenito del conte Giovanni, il quale sì gagliardamente si comportò nella narrata impresa contro gli Svizzeri, che il Duca ed il Senato a rimunerazione sua decretarono, che Scendi dal cielo, et dammi Euterpe et Clio Harmonia lunga et grave, E 'l suon vario et soave Di sette corde tempra al canto mio. Udite voi, o la voce sprezzate Di chi vi prega et chiama ? O m'ingannan le grate Schiocchezze, che la turba nostra brama? Cantar vorrei l'impresa perigliosa, Onde mi viene il nome, De l'avo mio, et come De i fieri Elvetij insanguinò la Tosa: Che primo doppo Giulio la turba Indomita et altiera Occide, prende et turba, Sì che n'empie le sponde a la riviera. Chi senza noi potrìa far note a pieno De le lance il vantaggio, Et l'industrie del saggio Duce, che gli fe" morder 'l terreno? Chi 'l suo valor, che per strani sentieri Discendendo dal monte Co' le squadre d'arcieri Contra tutta Alemagna ottenne 'l ponte?........ alle gentilizie insegne di sua famiglia fosse aggiunto un freno, a denotar d'aver egli saputo frenare e reprimere la baldanza dell'oste vallesana

Le conseguenze

Dopo la battaglia il Bergamino, il Borromeo ed il Cottino se ne stettero co' fanti a Crevola, distribuendo gli uomini d'arme, gli stradiotti ed i balestrieri nei casolari posti sulla costiera fra Crevola e Domo. Il Trivulzio con altri feriti si recò a Domo, e di là per barca a Milano lungo la Toce ed il naviglio. Nei due giorni successivi cadde gran quantità di pioggia, sì che pareva diluviasse; rendendo per tal modo più triste e lugubre l'ufficio del seppellimento dei morti. Presso la fossa ove tanti corpi furon sotterrati, fu poi eretto un piccolo oratorio dedicato a S. Vitale, nel cui dì festivo avvenne la battaglia, col voto di dovervisi ogni anno recare processionalmente nel giorno 28 aprile, per rendere solenne grazia a Dio dell'ottenuta vittoria. Benchè la disfatta de' Vallesani sia stata completa, nè si avessero a temere sì presto nuove invasioni da quel lato, non di meno delle truppe ducali non furono rimandati ai soliti quartieri che gli uomini d'arme; e questo per cagione del lamentato difetto di acqua in Domodossola. Per la ragione medesima, ed altresì per mancanza di vittovaglia, vi furon trattenuti soltanto trecento fanti e pochi balestrieri, col Traversa, il Zanone e Jacopo da Corte. Il rimanente dell'esercito, col Bergamino ed il Borromeo, fu accampato in Vogogna e ne' suoi dintorni, aspettandovi l'arrivo di Ludovico il Moro, zio e tutore del duca, il quale aveva divisato di recarsi in Ossola per determinare sul luogo quali opere fossero ad erigersi per fortificar meglio il paese. Partì Ludovico da Milano l'8 maggio, ch'era un lunedì. Pernottò in Arona presso il conte Giovanni Borromeo, ripartendo seco lui al domani per alla volta di Vogogna. A Domo passò in rassegna il presidio e fece distribuire a settantacinque fanti feriti un ducato per ciascheduno, promettendo d'inviare denaro ancora per gli altri non appena fosse di ritorno in Milano. Visitò quindi la vallata e singolarmente il luogo del conflitto; ordinò che fosse ristaurato il castello di Mattarella, rafforzate di nuove opere le mura del borgo e le torri di Trontano e di Beura, ricostrutti i due antemurali di Valle Antigorio, e finalmente riattato e completato quel sistema di torri d'osservazione, le quali, poste a cavaliere di rupi isolate ed in acconcia situazione servivano per trasmettere i segnali in caso di aggressione. Per tal modo l'approssimarsi dell'inimico veniva in meno di due ore avvertito dalla estremità di Valle Antigorio sino al Lago Maggiore colle torri di Passo e di Cristo nel comune di Premia, di Randina in quello di Mozzio, di Remio presso Crodo, di Monteaveglio vicino a Montecrestese, di Mattarella, di Cardezza, Pallanzeno, Megolo, Cuzzago, Ornavasso, Mergozzo, Fondotoce, e finalmente di Feriolo e di Baveno sul lago.

Il giorno 23 del seguente luglio fu poi stipulato un istrumento di pace, cui presero parte i più distinti patrizi del Vallese e dell'Ossola; ma tuttavia non fu levato ogni pericolo di nuova guerra. Il vescovo Iodoco mal sapeva acconciarsi alla sconfitta; l'onore e gl'interessi erano in gioco; gli animi grandemente eccitati contro il prelato ed il fratello di lui, cui sospettavasi compro dall'oro di Lodovico Sforza. Nuovi preparativi adunque si stavano colà facendo copertamente. Certo Antonio Raspino di Valle Anzasca, proveniente da Sion, ne avvertì Bartolino de Albasino podestà di Vogogna, il quale con sue lettere del 18 settembre ne riferì ai conti Borromeo. Pochi giorni dipoi altri di Valle Antigorio, venuti similmente dal Vallese, confermarono la stessa cosa al podestà della valle, che ne scrisse al Traversa, assicurandolo che quei valligiani erano dal canto loro ben risoluti a volersi difendere. Per altra parte il duca ne era pur stato contemporaneamente informato dai suoi agenti presso gli Svizzeri; per il che aveva già mandate nuove artiglierie e munizioni in Domo, e speditovi l'ing. Cristoforo da Gandino per sollecitamente condurre innanzi tutte le opere di fortificazione. Ma oltre che nelle armi confidava lo scaltro Ludovico nel potere irresistibile del denaro, col quale seppe ancora una volta guadagnarsi alcuni fra i più influenti personaggi della Lega, i quali tanto seppero adoperarsi presso la Dieta, e questa presso il vescovo vallesano, che per allora ogni pericolo di prossima guerra fu scongiurato.