Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio di Napoli

536

A cura di Francesco Santosuosso

Gli avversari

Teodato (482 - 536)

Teodato ("Thiudahad" in germanico, "Theodahatus" in latino) nacque nel 482 in un piccolo centro dell'odierna Macedonia denominato "Tauresium". Fu nipote del grande Teodorico, re degli Ostrogoti, in quanto figlio della sorella Amalafrida. Ricevette nel 534 i titoli di Duca di Tuscia e Re degli Ostrogoti, e venne associato al governo con la cugina Amalsunta, dopo la morte del figlio di lei Atalarico. Dopo averla fatta esiliare e uccidere su un'isola del lago di Bolsena per la sua condotta filo-bizantina , cercò di contrastare la reazione dell'imperatore Giustiniano, al quale aveva fornito in questo modo il casus belli. Intavolò quindi delle trattative con lui attraverso anche la mediazione di papa Agapito II. Ma nel frattempo il generale Belisario, inviato nella penisola su ordine di Giustiniano, aveva preso possesso della città di Napoli. Teodato, in preda alla paura, abbandonò Roma dove si trovava insieme con la sua corte e fuggì precipitosamente verso Ravenna. Si narra però che fu raggiunto sulla strada da due sicari mandati dal nuovo re Vitige, eletto dal popolo goto, dai quali fu assassinato. Il ritratto che ci è pervenuto di lui lo presenta come un re avido e codardo, indole che lo condannò ad essere diffidato e poi deposto dal suo stesso popolo.


Belisario

Nacque circa il 500 d.C. in un luogo al confine fra la Tracia e l'Illiria. Fece le sue prime armi sotto Giustino in Armenia e in Mesopotamia contro i Persiani; raggiunse allora il grado di comandante della fortezza di Dara, distinguendosi per il suo coraggio e per l'ascendente sulle truppe. Salito al trono Giustiniano, Belisario che gli era da lungo tempo amico, fu nominato magister militum per Orientem, ed ebbe il compito di por fine alla guerra coi Persiani. Pur disponendo di forze inferiori alle nemiche, egli riuscì a sconfiggere i Persiani presso Dara, grazie soprattutto alla sapiente disposizione tattica delle sue milizie (giugno 530). La vittoria, tuttavia, non fu decisiva; e l'anno seguente, quando i Persiani tornarono all'offensiva, Belisario dovette oltrepassare l'Eufrate per tagliare al nemico la via per Antiochia. Data la sproporzione delle forze, egli aveva deciso di evitare una battaglia campale; ma scontratosi con l'esercito persiano presso Sura, pare per iniziativa dei suoi generali in disaccordo con lui, dovette impegnarsi a fondo. L'esito della battaglia fu disastroso: fu una fortuna se Belisario, con sapiente e pericolosa manovra, poté trarre in salvo a Callinicum, al di là del fiume, i superstiti del suo esercito. Richiamato a Costantinopoli, fu destituito (fine del 531). Ma non rimase a lungo nell'ombra. Il 13 gennaio 532, scoppiò a Costantinopoli, nell'ippodromo, una terribile rivolta contro Giustiniano. Belisario, per volontà di Teodora, ebbe l'incarico di domare la rivolta. Egli assolse l'incarico con un'azione estremamente energica. La repressione fu spaventevole, se è vero, come ci riferiscono gli storici contemporanei, che non meno di trentamila persone giacquero al suolo. In ricompensa della sua fedeltà, Belisario fu prima reintegrato nel suo grado e quindi messo a capo d'un esercito che Giustiniano destinava alla riconquista dell'Africa. Belisario partì per la conquista di quel regno il 22 giugno 533, con un piccolo esercito di circa 15.000 uomini. Egli aveva il titolo di generalissimo e di magister militum per Orientem. Sbarcato ai primi di settembre a Caput Vada, località quasi deserta, il generale bizantino sgominò l'esercito nemico nelle due battaglie di Decimum (13 settembre) e Tricamarum (dicembre 533), inseguendo di luogo in luogo Gelimero, re dei Vandali, fino a costringerlo alla resa (marzo 534). In meno di sette mesi il regno dei Vandali era abbattuto e l'impero riportava il confine alle Colonne d'Ercole. Compiuta la conquista, Belisario fu richiamato alla capitale, e per volere di Giustiniano gli furono tributati con grande sfarzo, nell'ippodromo, gli onori del trionfo, che da secoli nessun privato aveva più ottenuti. L'anno seguente Belisario fu creato console. Ma prima che spirasse il termine del suo consolato, egli ebbe l'incarico di muovere alla conquista dell'Italia, impresa che si presentava più rischiosa, poiché gli Ostrogoti avevano forze e disciplina ben più salde che i Vandali. Partendo da Dalmazia e Sicilia, per dividere le forze nemiche, la campagna di Belisario procedeva con successi, fin quando, dopo che il generale conquisto Roma, dovette lasciare l'Urbe per congiungersi con un nuovo esercito che Giustiniano mandava in Italia sotto il comando di Narsete. Il disaccordo fra i due generali rese per lungo tempo impossibile l'attuazione di un piano organico ideato da Belisario, sì che la guerra si svolse con esito vario. Finalmente Giustiniano richiamò in oriente Narsete, lasciando a Belisario tutto il comando delle truppe che operavano in Italia. La guerra allora volse rapidamente al suo epilogo. I Goti, ammirando il coraggio e il valore di Belisario e interpretando alcune delle resistenze che mostro' verso determinati ordini dell'imperatore come segno di un'alta ambizione, gli proposero di divenire loro re e di ricostituire a suo profitto e con le loro forze l'impero d'Occidente. Belisario finse di accettare e domandò che gli si aprissero le porte di Ravenna; ma quando fu padrone della città, egli dichiarò che nulla desiderava per sé, e vi proclamò l'autorità dell'imperatore (maggio 540). Poco dopo, richiamato da Giustiniano, Belisario partiva per Costantinopoli conducendo seco Vitige, i principali dei Goti, e il tesoro di Teodorico. Ma per quanto gloriosa fosse stata la sua impresa, egli non ebbe questa volta l'onore del trionfo: troppa ombra davano all'imperatore e la sua gloria e la sua immensa popolarità. Poco dopo, anche per questa ragione, fu allontanato da Costantinopoli e inviato sul confine mesopotamico, ove era scoppiata la guerra con la Persia.

Da questo momento la fortuna di Belisario comincia a declinare, non certo per l'indebolirsi delle sue capacità militari, ma per l'invidia del sovrano, che lo cacciò in imprese rischiose e difficili negandogli i mezzi indispensabili per compierle con onore, per la sorda ostilità degli altri comandanti. Al comando dell'esercito orientale egli stette due anni, dibattendosi in continue difficoltà e in lotta con la moglie Antonina, che, sostenuta da Teodora, non faceva mistero dei suoi amori con un certo Teodosio. Nonostante ciò, Belisario liberò il territorio dell'impero dai Persiani e costrinse Cosroe alla pace. In ricompensa egli fu privato del comando (542) sotto l'accusa di avere, durante una grave malattia di Giustiniano, dichiarato in un consiglio di generali che, se l'imperatore fosse morto, l'elezione del suo successore non avrebbe potuto farsi se non in accordo con i capi dell'esercito; ma in realtà perché la sua potenza dava troppa ombra. Ma la corte non poteva fare a meno di lui e nel 544, reintegrato nel comando, fu spedito nuovamente in Italia. Qui, dopo la sua partenza da Ravenna, la situazione si era mutata rapidamente. I Goti erano stati vinti ma non domati del tutto: e dopo il richiamo di Belisario, l'Italia era divenuta nuovamente loro preda. Guidati da Totila, i Goti erano riusciti fra il 541 e il 544 a rioccuparla quasi del tutto. Per Belisario si trattava ora di una nuova conquista, ma in più difficili condizioni che otto anni innanzi, poiché le popolazioni italiche, oppresse dalla lunga guerra e dalle gravezze fiscali che il governo imperiale aveva già loro imposto, non erano più favorevoli ai Bizantini e perché i Goti erano ora guidati da un capo di grandi capacità militari. Inoltre egli era inviato in Italia con forze scarsissime, e senza mezzi finanziari che gli consentissero l'arruolamento di un nuovo esercito. Ed egli, appena arrivato in Italia, dopo aver tentato di raccogliere a proprie spese soldati in Dalmazia, si rese ben conto delle difficoltà dell'impresa e scrisse all'imperatore una lettera, in cui gli prospettava tutta la gravità della situazione (Procopio, Guerra gotica, ed. Comparetti, II, pp. 278-9). Ma alle sue richieste o non si rispose oppure si rispose con l'invio di piccoli riparti del tutto insufficienti anche a una tattica difensiva: così fu lasciato per quattro anni a logorarsi in vani tentativi. Corse da Ravenna a Roma, che riuscì a occupare solo perché era stata abbandonata da Totila, da Roma a Messina, da Messina a Rossano senza ottenere alcun sensibile successo; in ultimo, sfiduciato, ammalato per le fatiche e i dispiaceri, ottenne di essere esonerato dal comando e richiamato nella capitale (548). L'ultima impresa militare di Belisario fu la difesa di Costantinopoli nel 559 contro gli attacchi dei Bulgaro-Slavi. Gl'invasori furono ricacciati con gravi perdite. Il resto della sua vita Belisario lo trascorse in Costantinopoli. Non però nell'abbandono e nella miseria, come una tarda leggenda favoleggiò; ma fra gli agi che le sue immense ricchezze, accumulate con mezzi non del tutto leciti durante le sue spedizioni, gli consentivano, e gli onori che Giustiniano gli conferì fino all'altimo. Tuttavia nemmeno allora egli fu al riparo dai colpi dei suoi rivali: nel 562 fu accusato di essere stato a conoscenza e forse complice di una congiura che allora si ordì contro Giustiniano, e cadde per la terza volta in disgrazia. Anche questa volta tuttavia si rilevò; dopo alcuni mesi di arresto, caduto il suo più accanito avversario, il prefetto della città Procopio, Belisario fu riconosciuto innocente dell'accusa e reintegrato negli onori e negli averi. Morì tre anni dopo, nel marzo del 565.

Il contesto: la Guerra greco-gotica (535-553 d.C)

La guerra greco-gotica, o guerra gotica, fu un'operazione militare facente parte di un più generale disegno espansionistico che coincideva con la politica della "Restauratio Imperii", attuata dall'imperatore protobizantino Giustiniano (527 -565 d.C.). L'ambizioso piano prevedeva l'opera di riconquista dell'Occidente, ovvero della "pars occidentalis" dell'antico Impero Romano, divisosi all'indomani della morte dell'imperatore Teodosio in due macroaree, gravitanti intorno alle capitali di Costantinopoli e Roma (a quest'ultima si sostituirono Milano prima e Ravenna poi). Questa si trovò sempre più a svolgere un ruolo a sé stante rispetto ai territori romani orientali, cosa che insieme al problema della "questione barbarica"e ad altri diversi fattori, pose le basi per l'avvento della divisione, avutasi nel 395. A capo delle due parti l'imperatore Teodosio lasciò i suoi due figli, Onorio (Occidente) e Arcadio (Oriente), coadiuvati rispettivamente dal generale vandalo Stilicone e dal goto Rufino, tuttavia i veri detentori del potere. Il primo compì molti dei suoi sforzi in politica estera (il problema dei barbari già dal III sec. d. C. stava diventando una spina nel fianco per la "pars occidentalis"), cercando di conciliarsi con i Visigoti e con le popolazioni germaniche al fine di permettere loro un pacifico inserimento all'interno delle strutture dello stato; l'operazione di affiancamento dei figli di Teodosio da parte delle due figure barbare di Stilicone e Rufino era dopotutto la prova più chiara della politica filobarbara attuata già da Teodosio stesso. Dal 406, fatidica data in cui il confine del Reno, non più sorvegliato perennemente, fu oltrepassato da orde di Vandali, Svevi e altre popolazioni germaniche, l'Europa, e quindi l'Italia stessa, fu scossa da massicce ondate di barbari, che con tempi e modi diversi avrebbero stravolto i suoi assetti politici, sociali e territoriali. Da questo periodo in poi, l'Imperatore Romano d'Occidente perse d'importanza e di prestigio fino a decadere del tutto (con la deposizione dell'ultimo imperatore d'Occidente da parte di Odoacre nel 476, ved. sotto) e l'autorità e il potere che l'Imperatore Romano d'Oriente si trovava così a rivendicare sui territori occidentali si rivelò sempre più essere puramente teorica.

In Italia, così come nelle altre regioni europee, i popoli barbari cercarono di ritagliarsi un loro spazio di autonomia e di governo, ma ben presto finirono per appoggiarsi (non sempre pacificamente) alla vecchia classe dirigente, che sola poteva fornire loro i mezzi culturali e giuridici per costituire anche solo un minimo di apparato amministrativo. Dopo lo sciro Odoacre, che nel 476 aveva spodestato il giovane imperatore Romolo Augustolo dichiarando di voler governare l'Occidente in nome dell'imperatore d'Oriente, fu la volta del re ostrogoto Teodorico. Costui su ordine dell'imperatore Zenone, preoccupato per la politica troppo espansionistica del predecessore, portò in Italia il suo popolo, ricevendo anche il beneplacito dell'aristocrazia romana, che ancor più che in Odoacre, vedeva in lui il governatore valido e forte, capace di mantener salde le strutture sociali antiche garantendo nello stesso tempo una pacifica integrazione del suo popolo all'interno dello stato. Notevole fu l'operato di Teodorico, che animato da forte spirito di collaborazione, operò egregiamente al fianco dell'aristocrazia e della Chiesa cattolica, non solo nell'ambito giuridico, ma anche in quello culturale e artistico, mantenendosi in linea con la tradizione romana (si veda ad esempio il Mausoleo di Teodorico di Ravenna). In seguito alla morte di Teodorico, avvenuta nel 526, il potere fu nelle mani del nipote Atalarico che, in quanto minorenne, fu affiancato dalla madre Amalsunta, figlia di Teodorico. Atalarico morì prematuramente, lasciando la madre a dividersi il governo con il nuovo sovrano Teodato. Costui, viste le tendenze filo-bizantine di Amalsunta che aveva stretto rapporti amichevoli con il nuovo imperatore d'Oriente Giustiniano, decise con un colpo di stato di rovesciarla, esiliandola poi sull'isola di Martana nel lago di Bolsena, dove in seguito morì strangolata per volontà dello stesso Teodato. Giustiniano, che con una spedizione militare affidata al generale Belisario era riuscito nel mentre a sterminare i Vandali in Africa e ad annettere quest'ultima all'Impero d'Oriente, dando così l'inizio alla sua opera di riconquista dell'Occidente romano, colse il pretesto della morte della sua alleata per volgersi anche contro i Goti e dichiarare loro guerra. Correva l'anno 535. Il lungo conflitto si sarebbe protratto per circa venti anni, arrecando gravi danni alla penisola italiana e ai Balcani (sebbene fu la prima il terreno di scontro che dovette pagare il prezzo più alto); stragi, distruzioni ma anche epidemie segnarono indelebilmente l'Italia da nord a sud, nonostante almeno da parte dei capi bizantini e di Belisario per primo si vollero limitare i comportamenti eccessivi e troppo violenti, ma molte volte la cosa sfuggì loro di mano (forse anche volentieri, o, come si pensa, per il carattere debole di Belisario). In campo militare la sorte fu alterna: dopo una prima fase di conquiste e vittorie per l'esercito di Belisario, che sconfisse le forze di Teodato prima e poi di Vitige, i Goti sotto la guida del loro nuovo re Totila, sovrano accorto e valido generale, seppero recuperare gran parte delle posizioni perdute, grazie soprattutto alla strategia del loro comandante che seppe sfruttare, a differenza dei suoi colleghi precedenti, i punti deboli dell'esercito bizantino. L'arrivo di Narsete, nuovo capo supremo delle forze imperiali, riuscì tuttavia a ristabilire le sorti e a condurre i soldati di Bisanzio alla vittoria definitiva nel 553, dopo la sconfitta e la morte in azione del sovrano Totila e del suo successore Teia. La guerra si concluse con un Italia devastata, socialmente e materialmente, e con le condizioni e i provvedimenti miranti a ristabilire nell'Occidente riconquistato (in modo tuttavia velleitario e anacronistico!) la normalità e lo 'status quo' precedente alle dominazioni barbare, in campo amministrativo-politico ed economico, nonché ovviamente ad affermare il dominio di Bisanzio su quei territori; provvedimenti che furono condensati nella "Prammatica Sanzione" del 554, emanata dall'Imperatore Giustiniano.

La genesi

Siamo all'inizio del conflitto, anno 553. La flotta imperiale affidata ancora una volta al comando di Belisario, con il grado di "generalissimo" ("strategòs autokràtor " ), ebbe l'ordine di attraccare in Sicilia, nei pressi di Catania, mentre il generale Mundo, sul fronte orientale, sferrava la sua offensiva ai territori goti della Dalmazia. Colti di sorpresa, gli Ostrogoti cedettero e Mundo con molta facilità se ne impossessò. Intanto anche Belisario non trovava una gran resistenza nell'isola, fatta una piccola eccezione per Palermo, conquistata con l'astuzia, e il successo non si fece aspettare. Entrò vittorioso in Siracusa, accolto con grande acclamazione dal popolo tutto, stanco del dominio goto. Teodato, temendo la sua triste sorte, si apprestava a concludere i conflitti stabilendo un accordo di pace con Costantinopoli. Venuto però a sapere di una sconfitta subita dall'esercito bizantino in Dalmazia, dove Mundo perse la vita, si risolse ad annullare le trattative. Cercò quindi con una controffensiva di riprendere il possesso dei territori dalmati, facendo così riprendere i conflitti. L'imperatore Giustiniano, dopo la morte di Mundo, inviò Costanziano, funzionario preposto alle scuderie imperiali, a capo di un esercito per riprendere il controllo della Dalmazia e della città di Solona, facendo tramontare il progetto di Teodato. Nello stesso periodo anche a Belisario fu dato l'ordine di riarmarsi e di superare lo stretto di Messina. Era l'inizio dell'estate, giugno 536. Durante la risalita della penisola, l'esercito non trovò nessuna difficoltà, al quale anzi si arresero facilmente sia il capo goto Ebermore ed il suo esercito di stanza a Reggio, sia anche gli abitanti della regione che anch'essi mal tolleravano i Goti. Percorsero tutta la Calabria e la Lucania, seguiti via mare dalla flotta, finché non giunsero in Campania dove la marcia si arrestò di fronte alla città di Napoli, ben difesa sia dalle mura e dalla guarnigione gota che le presidiava (si calcola fosse formata da circa 800 ostrogoti) sia per la natura stessa del luogo. Dopo l'ordine alla flotta di attraccare nel porto della città, che si trovava fuori tiro, Belisario si accampò nel suburbio, non lontano dalle mura.

La battaglia

I napoletani, vista l'imminente minaccia di un assedio, si risolsero a mandare un tale di nome Stefano, eminente figura all'interno del governo della città, in veste di ambasciatore al campo di Belisario, con lo scopo di dissuaderlo dall'impresa. Di contro il generale dettò le sue condizioni, secondo le quali la loro resa e quella dei goti, con l'entrata pacifica dell'esercito in città, avrebbe giovato loro, assicurando per essi tutti i vantaggi che avevano già ricevuto precedentemente i siciliani. Stefano e insieme la popolazione, informata delle offerte del generale, erano sul punto di accettare, tanto più che erano a conoscenza della sorte prospera della Sicilia; senonché la parte conservatrice, rappresentata dalle personalità di Pastore e Asclepiodoto, prima costrinse gli ambasciatori ad estorcere a Belisario ricompense più grandi, ma poi, giacché con stupore di tutti quegli acconsentì alle nuove richieste, i due rivolsero al popolo tutto e ai goti un arguto ed efficace discorso con cui spinsero i napoletani ad opporsi all'esercito imperiale e ad imporre al generalissimo l'allontanamento immediato dalla città. Per nulla impaurito, Belisario la pose subito sotto assedio e con diversi assalti cercò di penetrare in città, ma le mura, sia per la loro stessa natura sia a causa della loro posizione e della presenza del mare da un lato, rendevano la scalata ardua e la conquista un vero grattacapo. Neppure la decisione di tagliare l'acquedotto principale della città valse a scoraggiare gli assediati, dal momento che la presenza di diversi pozzi all'interno della città riusciva in pieno a coprire il fabbisogno idrico della popolazione. Intanto, sebbene l'esercito era ben lungi dal far breccia nelle mura, gli assediati inviarono in segreto una delegazione a Roma incaricata di sollecitare Teodato ad inviare delle truppe di rinforzo che potessero così bilanciare gli schieramenti e rendere la situazione un po' più tranquilla per i napoletani. Ma Teodato, per il suo carattere spiccatamente pacifico (o forse codardo), non si risolse a far nulla, anche perché, come si narra, impaurito da un vaticinio che prefigurava l'esito nefasto della guerra e una sciagura per il popolo goto (!). Belisario, in ogni modo, era inquieto per le lungaggini dell'assedio (erano infatti già trascorsi 20 giorni dall'inizio dei primi assalti) e preoccupato per una impossibile resa della città; fu l'astuzia e la curiosità di un isauro, militante tra le truppe ausiliari dell'esercito bizantino, a rovesciare le sorti dell'evento: volle ispezionare la struttura interna dell'acquedotto che portava l'acqua alla città, di cui precedentemente era stato interrotto il flusso. Nel punto in cui esso si inoltrava al di là delle mura, trovò che il corso era ostacolato da un grande masso con al centro un foro di dimensioni sufficienti al fluire costante dell'acqua, ma che se opportunamente allargato, poteva fornire un ottimo percorso segreto da cui fare irruzione nella città. Riferita la grande notizia ad uno dei suoi superiori, lo scudiero di nome Paucaris, fu riportata immediatamente a Belisario, che, promettendo grandi ricompense a quel soldato, lo mise a capo di alcuni possenti uomini con i quali doveva in qualche modo rendere accessibile quel percorso. Dopo un estenuante ma minuzioso lavoro, compiuto tuttavia in gran silenzio e in poco tempo (si dice che Belisario ordinò a Bessa, uno dei suoi ufficiali, di attaccar discorso con i goti di guardia sulle mura per coprire il rumore dei lavori), i soldati riuscirono ad aprire la strada attraverso l'acquedotto. Belisario allora, forte di questa possibilità di conquista ma agitato per la strage che si sarebbe avuta di lì a poco del popolo napoletano, lo esortò ancora una volta a evitare lo scontro e a permettere l'entrata dell'esercito in città; ma i napoletani, ostinati, rifiutarono.

Così il generale, sul far della sera, incaricò Magno, comandante delle milizie a cavallo, ed Enne, capo degli Isauri, di armarsi di corazza, scudo, spada e lanterna e condurre i 400 uomini a loro affidati all'interno della città, introducendosi nell'acquedotto dal punto in cui lo aveva fatto tagliare; insieme con il drappello mandò anche alcuni "suonatori di tromba", perché potessero dare il segnale all'esercito fuori le mura una volta penetrati all'interno. Belisario intanto si teneva pronto con gli addetti alle scale (che in seguito avrebbero dato alcuni "problemi") a dare l'ordine ai suoi uomini di assaltare le mura. I 400 si facevano strada nello stretto cunicolo ma alcuni, fiutato il pericolo, decisero di lasciare l'impresa e tornare indietro, nonostante le esortazioni del loro capo Magno. Tornati al capo, Belisario li rimproverò e a Magno (che era stato costretto a tornare con loro) affidò altri 200 tra gli uomini del suo seguito e li rimandò nell'acquedotto. Quest'ultimo però presentava uno spiacevole inconveniente per i soldati all'interno: era coperto non soltanto nel tratto al di fuori delle mura, ma lo era anche una volta introdottosi nella città, cosicché i soldati non erano in grado di distinguere in quale punto di essa si trovassero. Nonostante ciò, trovarono un punto da cui fuoriuscire: era un tratto in cui l'acquedotto era sprovvisto di copertura e da lì si sbucava nei pressi di un'umile abitazione. Dato che la parete era molto alta e dunque molto difficile da scalare per uomini armati di tutto punto, un soldato si offrì e, deposte armi e corazza, la scalò solo con l'ausilio di mani e piedi. Giunto fuori, si trovò faccia a faccia con la donna che in quella casa abitava; minacciatala di ucciderla se non si fosse mantenuta tranquilla e in silenzio, legò una solida fune al tronco di un ulivo che era spontaneamente nato in cima all'acquedotto e calò l'altro capo all'interno di esso. Con l'ausilio della corda, i soldati uno ad uno risalirono l'alta parete; giunti infine tutti all'esterno, si diressero furtivamente (era notte fonda) alle torri settentrionali del perimetro delle mura ( di fronte alle quali Belisario era in attesa con il resto dell'esercito), dove trucidarono le guardie gote, ignare del pericolo, e diedero quindi il segnale all'esercito, attraverso i suonatori di tromba, di dare il via all'assalto. Le scale tuttavia (come prima accennato), per via della singolare altezza delle mura, non arrivavano ai merli; furono quindi velocemente legate due a due, così da far in modo che fossero della lunghezza sufficiente a toccare la sommità delle stesse e permettere la scalata. Penetrati in città, si volsero verso quella parte della cinta che dava sul mare, sorvegliata non dai goti, bensì dai giudei (che più fra tutti si erano opposti alla resa della città e che quindi sapevano di non avere speranze di perdono in caso di sconfitta); quelle mura erano ardue da conquistare e per di più gli uomini di Belisario non potevano né servirsi di scale né scalarle a mani nude; per giunta i giudei si battevano con gran vigore e coraggio, forse anche animati dal fatto di non poter permettersi di cadere in mano nemica. All'alba, alcuni soldati erano riusciti ad arrivare in cima e i giudei, trovandosi accerchiati, furono sopraffatti, mentre alcuni di loro scelsero la via della fuga. Così, sterminata per intero la guarnigione, furono aperte le porte della città (quelle che si trovavano nel perimetro est vennero incendiate dagli uomini al loro esterno, dal momento che non erano più sorvegliate e che quei battaglioni non erano forniti di scale) per permettere l'accesso all'intera armata. L'esercito, ormai padrone del luogo, si abbandonò subito ad eccidi, saccheggi e a far di donne e bambini degli schiavi. Furono frenati solo dall'intervento di Belisario (aveva già previsto un tal genere di cose) che parlò loro in modo da farli desistere dal perpetrare inutili stragi e azioni malvagie, giacché sono "cose indegne della sorte dei vincitori". Napoli fu dunque presa, per la prima volta nella sua storia, dopo più di venti giorni di assedio, con la forza...e con astuzia.

Le conseguenze

Pastore, che assieme ad altri si era opposto a Belisario, visto ormai lo stato delle cose, morì colto da apoplessia, mentre Asclepiodoto, che aveva collaborato con lui, si recò da Belisario ad invocarne il perdono. Fu però attaccato da Stefano (che era stato, come sappiamo, propenso per la resa), il quale lo accusò di essere il principale responsabile della sconfitta e della morte di molti napoletani e di mostrarsi davanti agli occhi di tutti così sfacciato da presentarsi al cospetto del generale. Quegli si difese adducendo come motivo della sua condotta il proprio ideale patriottico e la sua indole fedele ai propri padroni, cosa quest'ultima che, a sua detta, lo rendeva ben diverso da Stefano e che i nuovi padroni avrebbero elogiato. Ma tuttavia, nonostante la perorazione rivolta a sé stesso, cadde vittima del furore del popolo napoletano dal quale venne barbaramente linciato. Intanto per Belisario e per l'armata imperiale la strada verso Roma era così aperta, e un ombra di terrore calò su Teodato, che intanto iniziava ad essere diffidato dal suo stesso popolo.



Bibliografia:
"La Guerra Gotica", Procopio di Cesarea, I - 8/10
"Soldati e guerre a Bisanzio: il secolo di Giustiniano", Giorgio Ravegnani, Il Mulino, Bologna 2009