Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio di Mozia

397 a.C.

Gli avversari

Dionisio I il Vecchio

Tiranno di Siracusa. Figlio di Ermocrate, nato a Siracusa intorno al 432 a.C. Compare per la prima volta nella storia quale partigiano di un altro Ermocrate, figlio di Ermone, che, già prima della grande spedizione ateniese in Sicilia, aveva sostenuto una politica di accentramento di tutte le forze greche esistenti in Sicilia. Morto Ermocrate nel 408-7 in un tentativo fallito di tornare con le armi in Siracusa, Dionisio, che in questo tentativo era stato gravemente ferito e che aveva potuto solo a stento evitare una condanna, fu il continuatore della sua opera: e tale fu riconosciuto, quando egli sposò la figlia di Ermocrate. La minaccia impellente non era più, come alcuni anni prima, l'intervento ateniese, ma la rinnovata aggressione dei Cartaginesi, che approfittavano della situazione rovinosa, per i dissensi interni, per lo sperpero di uomini e di denari, lasciata dagli Ateniesi nella Sicilia greca. Questa situazione particolare non faceva del resto che aggravare i mali cronici, a cui aveva tentato di reagire la tirannide di Gelone e di Gerone quasi un secolo prima. Il tenace attaccamento alla propria autonomia impediva a ogni città di legarsi durevolmente con le altre in un saldo blocco che permettesse di contrastare validamente all'omogenea potenza cartaginese e di sottomettere in modo definitivo quegl'indigeni (Sicani, Siculi ecc.), che di per sé innocui diventavano pericolosi, perché infidi, a ogni conflitto. Né poteva avvenire che in regime costituzionale una città si assicurasse una stabile egemonia sulle altre città, perché era essa stessa all'interno indebolita dai conflitti dei partiti, ognuno dei quali si valeva dell'aiuto dei partiti corrispondenti in altre città, quando non ricorreva ai Cartaginesi stessi. L'unico rimedio conosciuto era la tirannide, che sopprimeva con violenza le lotte interne, preponeva a ogni problema il problema militare e quindi era in grado di espandersi e d'imporre con la forza il concentramento delle città greche: era peraltro rimedio, come si capisce, inviso, perché, con lo scopo di salvare la civiltà greca, impediva lo svolgersi di quelle attività che costituivano per i Greci il nucleo stesso della loro civiltà. Ciò spiega l'odio tenace che accompagnò tutta l'opera di Dionisio, fin da quando, poco dopo la morte di Ermocrate, oltrepassò i limiti che questi probabilmente si sarebbe imposto, se la sua impresa fosse stata fortunata, e si avviò risolutamente verso la tirannide: ciò spiega soprattutto la trista fama che rimase nei secoli, per opera soprattutto della tradizione elaborata in Atene o per influenza ateniese, intorno a questo uomo di stato che pure fu il più geniale e instancabile difensore della civiltà greca in Occidente e non fu insensibile nemmeno alle forme più raffinate di questa civiltà, se fu poeta, specialmente tragico.

Gli elementi su cui la tirannide nel mondo greco si poteva fondare erano due: i soldati legati alla fortuna del loro capitano e perciò generalmente mercenari; le classi diseredate che dalla tirannide si aspettavano con ragione un rivolgimento economico, perché la tirannide aveva interesse a deprimere le forze aristocratiche. A entrambi gli elementi Dionisio si rivolse, fin dal 407-6, quando l'occupazione cartaginese di Agrigento sollevò, insieme con i timori, l'indignazione dei Siracusani, che accusarono i loro strateghi di tradimento. Dionisio propose la nomina di nuovi strateghi e fu scelto tra questi, ma riuscì facilmente a liberarsi dei colleghi, accusandoli a sua volta e facendosi nominare solo comandante: poi, per un vero o simulato attentato contro la sua persona, ottenne anche una guardia personale di 600 soldati, naturalmente poi accresciuta, che gli assicurò in modo definitivo la dittatura. Tante concessioni non gli sarebbero venute con facilità l'una dopo l'altra, se egli nello stesso tempo non avesse dimostrato le migliori intenzioni democratiche, soprattutto con un intervento a Mozia in favore della democrazia, che lo rese celebre in tutta la Sicilia greca. La nomina di Dionisio non impedì tuttavia che i Cartaginesi continuassero nei loro successi, occupando anche Mozia e Camarina, la cui popolazione si rifugiò in massa a Siracusa, perché tutta l'organizzazione militare dei Greci era da ricostituire; né era possibile farlo immediatamente durante una guerra e con l'ostilità del partito aristocratico. Di questa ostilità l'episodio più grave fu, appunto in seguito alla perdita di Mozia, la ribellione della cavalleria siracusana formata, come ogni cavalleria, dai giovani aristocratici. Essa nella ritirata si distaccò da Dionisio, si precipitò a Siracusa, facendo strazio dei famigliari e della moglie di Dionisio, e credette di potergli chiudere le porte davanti; ma la fanteria rimasta fedele aiutò Dionisio a rientrare in Siracusa e costrinse i cavalieri a rifugiarsi in Etna. Intanto, approfittando di queste lotte intestine, i Cartaginesi stavano ponendo l'assedio a Siracusa; ma un'epidemia violenta li persuase alla pace. La quale fu conclusa alle condizioni che la parte occidentale della Sicilia con gli Elimi e i Sicani rimanesse ai Cartaginesi: le città greche evacuate e occupate dai Cartaginesi (Mozia, Camarina, Selinunte, Agrigento, ecc.) fossero di nuovo consegnate ai Greci, ma con l'obbligo del tributo ai Cartaginesi; Messina e Leontini, insieme con i Siculi, fossero autonome, e Siracusa rimanesse nelle mani di Dionisio esplicitamente riconosciuto dai Cartaginesi (404 a. C.). Era per il momento quanto occorreva a Dionisio, che aveva bisogno di una tregua per riorganizzare l'ordinamento della città e per ricostituire l'esercito e la flotta. In linea teorica Dionisio era solo il generale in capo, non sappiamo se eletto a vita o (il che è meno probabile) continuatamente rieletto; ma poi di fatto, come si capisce, egli poteva dominare a piacere l'assemblea popolare, che ancora rimaneva accanto a lui, sebbene con poteri limitati, perché Dionisio non solo la presiedeva, ma aveva egli solo il diritto di farvi proposte, e tutte le altre magistrature erano designate da lui. In tali condizioni gli fu assai facile di apportare radicali modificazioni alla cittadinanza, spossessando i cavalieri fuorusciti, distribuendo i loro beni fra i suoi partigiani e ammettendo nella cittadinanza con minori diritti schiavi emancipati o forse meglio i servi della gleba ancora rimanenti (i cosiddetti Cilliri). Intanto si fabbricava la roccaforte nell'isola di Ortigia, ostruendo con un muro l'istmo che la congiungeva alla città. Il consolidamento all'interno si poteva dire avvenuto. Poteva allora iniziarsi la riconquista della Sicilia libera dai Cartaginesi; condizione essenziale per poter poi rivolgere queste forze contro i Cartaginesi stessi. Ma l'inizio fu disgraziatissimo. Se l'opposizione politica era fiaccata all'interno, restava forte al di fuori fra i cavalieri asserragliati in Etna, fra gli altri fuorusciti dispersi per la Sicilia e per la Grecia, che erano riusciti a trarre dalla loro parte anche la madrepatria di Siracusa, Corinto. Perciò, quando Dionisio tentò un primo attacco a una cittadina sicula, Erbesso, si vide respinto da un esercito di Siracusani esuli e di Corinzi, i quali lo costrinsero a ritirarsi in Siracusa e lo assediarono. Solo l'aiuto di 1200 mercenari campani, già al soldo dei Cartaginesi, e le discordie degli avversari permisero a Dionisio di liberarsi dall'assedio. L'esperienza lo persuase quindi a riconciliarsi, per mediazione dei Corinzi, con gli esuli e soprattutto a rinnovare il suo piano di sottomissione della Sicilia. Non più attacchi a città minori, attacchi che lasciavano libere di accorrere in loro aiuto le città maggiori, bensì rapide sorprese su queste città stesse, e non solo per sottometterle, ma per trasformarle in modo che fosse evitato ogni pericolo di ribellione e fosse assicurata la capacità di resistenza contro i futuri attacchi cartaginesi: in altre parole, le città dovevano essere trasformate in colonie militari, mentre la vecchia cittadinanza era dispersa, in parte trasferita a Siracusa, in parte lasciata al suo destino. Così vennero trattate Nasso, Catania, Leontini ecc., instaurando un sistema che fu poi normale per tutto il governo di Dionisio e ricoprì la Sicilia e in seguito la Magna Grecia di una serie di colonie militari, delle quali alcune appositamente fondate, come Adranon presso l'Etna a sorveglianza dei Siculi. In Siracusa fervevano contemporaneamente i preparativi per la lotta contro i Cartaginesi, si fortificava la città e si costruiva una flotta di 200 navi, fra cui molte tretere e pentere, che erano la massima novità tecnica del tempo. Tali preparativi erano concomitanti con una di quelle epidemie, che in quegli anni a periodi intermittenti facevano strage di Cartaginesi, e costituiranno sempre le occasioni più favorevoli per gli attacchi di Dionisio Appunto per questa epidemia Dionisio poté aver mano libera in tutta la Sicilia per un anno intero (398 a. C.), in cui solo alcune delle maggiori colonie fenicie poterono resistere, mentre altre, quale Motia, cadevano, e si faceva in ogni parte una caccia spietata all'elemento semita. Ma l'anno dopo, Imilcone sbarcava con una flotta potente e riconquistava rapidamente tutto il terreno perduto, fino a giungere a sottomettere Messina. Infine si scontrava nelle acque di Catania con la flotta siracusana e la distruggeva in gran parte. Dionisio era costretto a ritirarsi in Siracusa una seconda volta ed era qui assediato. Insieme con l'aiuto spartano e corinzio di 30 triere comandate da Farace, veniva in soccorso dei Siracusani una nuova recrudescenza della peste nel campo cartaginese. Dionisio poteva uscire dalla città e assalire, con pieno successo, l'esercito d'Imilcone. Anche nel resto della Sicilia la resistenza punica era minima, e la rioccupazione di tutta la Sicilia greca insieme con alcune colonie fenicie, quale Solunte, poteva procedere rapidamente: sorgevano nuove colonie militari, tra cui sulla costa settentrionale Tindaride, popolata di Messeni venuti dal Peloponneso.

Ma questo nuovo e difficile trionfo non poteva placare i malcontenti, aggravati dalla situazione economica disastrosa. Mentre alcune delle più fiorenti città greche erano state distrutte e spopolate, creando migliaia di fuggiaschi, le spese militari che la politica di Dionisio comportava erano enormi e imponevano un fiscalismo che avrebbe da solo rovinato un'economia anche florida: oltre ai tributi (evidentemente limitati in caso di guerra) che, come dice Aristotele (Polit. V, 1313, b, 26), assorbivano le intere sostanze in cinque anni, un complicato sistema di dazi, di decime, ecc. sopperiva ai bisogni del bilancio, senza contare le entrate straordinarie (bottino di guerra, spoliazione di templi, confische) e l'alterazione del valore della moneta, a cui Dionisio ricorse più di una volta. Tutti questi malcontenti facevano capo a Reggio, fiera della sua tradizione di libertà, aperta agli esuli politici siracusani e soprattutto nemica ereditaria di Locri, che era strettamente legata con Dionisio: tanto che perfino ci narrano, con discutibile simbolismo, che Dionisio aveva sposato nello stesso giorno una donna di Locri e una di Siracusa. Un'improvvisa aggressione al castello di Mile (Milazzo), preparata da esuli di Nasso e di Catania, ma aiutata da Reggio, provocava l'apertura delle ostilità. Del che naturalmente approfittavano i Cartaginesi, tornando a sbarcare con Magone in Sicilia (393 a. C.). Dopo un vano tentativo contro Reggio, Dionisio stipulava una tregua di un anno con questa città e si rivolgeva contro i Cartaginesi, ma gli ammutinamenti del suo esercito lo costringevano a trattare con i nemici a condizioni per noi abbastanza oscure. È probabile tuttavia che la regione nord-occidentale della Sicilia con gli Elimi e parte dei Sicani fosse riconosciuta ai Cartaginesi. Dopo di ciò Dionisio tornava contro Reggio, a cui s'era unita tutta la lega delle città italiote (Crotone, Caulonia, Sibari, ecc.), infine consapevole che l'intervento di Dionisio nella Magna Grecia significava la sua volontà di sottometterla tutta. Dopo varie vicende, una vittoria presso il fiume Eleporo dava in mano a Dionisio Caulonia e Reggio: i cittadini della prima erano trapiantati a Siracusa; quelli della seconda, già risparmiati, erano poi per insubordinazione fatti schiavi in massa, e la città fu distrutta (386 a. C., l'anno del saccheggio di Roma per parte dei Galli, secondo un celebre sincronismo, capitale nella cronologia antica). Era ormai chiara la posizione politica di Dionisio La sua tirannide si poteva sostenere solo in quanto egli riuscisse a dominare tutta la grecità occidentale: ogni città libera era per necessità sua avversaria e valeva a concentrare intorno a sé tutti i nemici della tirannide, provocando interventi cartaginesi. Ma questo grande stato non poteva giustificarsi se non liberando la grecità da tutti i suoi nemici tradizionali: insieme con i Cartaginesi, gli Etruschi e i pirati (spesso gli Etruschi medesimi), che ne impedivano il dominio del mare e la sicurezza dei commerci. Mentre si veniva preparando la nuova guerra contro i Cartaginesi, che avrebbe dovuto essere definitiva, era iniziata una vasta colonizzazione militare nell'Adriatico, ed erano occupate Lissa, Lesina, Curzola ecc., fondata Ancona, colonizzata Adria, dove sarà inviato pressoché in esilio quale governatore uno dei principali collaboratori di Dionisio, Filisto, quando in un conflitto tra Dionisio e il fratello Leptine, risoltosi poi felicemente, Filisto prese le parti di quest'ultimo. E anche di questo periodo una dimostrazione militare contro gli Etruschi, senza conseguenze rilevanti, se non il grosso bottino con il saccheggio di un tempio presso Pirgi. La potenza di Dionisio, amata da alcuni, odiata dai più, s'imponeva alla stessa Grecia, dove Dionisio non mancava d'intervenire ovunque potesse in favore della sua alleata Sparta; e un suo aiuto di 20 navi durante la guerra corinzia fu uno dei principali motivi che decisero Atene alla pace di Antalcida (387-6). La nuova guerra con Cartagine scoppiò infine nel 383-2 con un duplice attacco cartaginese in Sicilia e nella Magna Grecia. Dopo una grande vittoria siracusana a Cabala (luogo ignoto) con la morte del generale cartaginese Magone, Dionisio credette di poter imporre ai cartaginesi l'abbandono della Sicilia, ma questa condizione fu rifiutata e un ritorno offensivo dei Cartaginesi portò alla loro vittoria a Cronio, dove morì il fratello di Dionisio, Leptine. Si venne quindi alla pace, sfavorevole ai Siracusani. Essi dovettero pagare 1000 talenti, e il confine fu portato al fiume Alico, che lasciava in mano dei Cartaginesi Selinunte e parte del territorio di Agrigento: tale confine rimase poi sino alla conquista romana. Né valse a mutarlo l'ultima guerra che Dionisio ormai vecchio, ma tenacemente fedele al suo ideale, mosse contro i Cartaginesi, approfittando di una nuova pestilenza, nel 368-7, dopo aver adoperato il decennio di relativa pace per proseguire l'occupazione della Magna Grecia, conquistando Crotone, e per aiutare Sparta contro i Tebani, soprattutto dopo la battaglia di Leuttra (370-69), con ciò riconciliandosi per un momento gli Ateniesi, alleati di Sparta, che gli concessero la cittadinanza onoraria, gli premiarono una sua tragedia rappresentata nelle Lenee del 367 e infine conclusero una formale alleanza con lui in quell'anno. È dubbio se quest'alleanza avrebbe dovuto portare in futuro a un'effettiva collaborazione politica tra Dionisio e il blocco anti-tebano non solo nelle cose della Grecia, ma anche nella lotta contro i Cartaginesi. Dionisio, dopo aver liberato Selinunte ed Entella ed aver subito forti perdite navali per una sorpresa nelle acque di Erice, che lo costrinse a una breve tregua, morì nello stesso anno 367 senza aver potuto nulla concludere. Risultato del suo sforzo di quarant'anni era la salvezza della civiltà greca in Sicilia; ma la sua costruzione politica, ripugnante a quella stessa civiltà che voleva difendere, era destinata a crollare rapidamente.

La genesi

Volto al suo fine quest'anno Lisiade fu arconte in Atene, e furono tribuni militari in Roma P. Melio, Sp. Menio, L. Furio, ed altri tre. Allora Dionigi, tiranno di Siracusa, fornito a modo suo di quanto occorreva per la guerra, mandò araldo a Cartagine con lettera diretta al senato di quella città, nella quale diceva essere stata dal popolo di Siracusa decretata la guerra ai Cartaginesi, qualora questi non partissero dalle città greche di Sicilia. Questo araldo adunque, secondo che gli era stato commesso, passato in Africa, recapitò al senato quella lettera, la quale fattasi leggere prima nella curia, e poi al popolo, non poco affanno recò ai Cartaginesi per la paura della guerra imminente: imperciocché la pestilenza avea estinta una infinita moltitudine d'uomini; ed essi erano spogli d'ogni cosa necessaria al bisogno. Intanto presero a vedere a qual parte i Siracusani fossero per gittarsi incominciando le ostilità; e spedirono alcuni del senato con grosse somme di denaro a raccoglier gente d'Europa. Dionigi adunque uscito di Siracusa col fior de' soldati di questa città, e con grosso numero di stipendiati, e di ausiliarj, prese la strada dell'Erice; poiché non lungi da quel colle era la città di Mozia, colonia de' Cartaginesi, la quale al lora poteva somministrare il principal luogo forte per invadere la Sicilia; e quando egli l'avesse occupata, sperava di avere acquistato sopra i nemici un notabil vantaggio. Per tutta la strada adunque eccitando la moltitudine alle armi, egli a mano a mano andò levando gli ajuti delle greche città , le quali tutte di buona voglia si prestavano a quella spedizione, tanto perché detestavano il troppo grave giogo della dominazione punica, quanto perchè aveano forte desiderio di ricuperare in fine la libertà. Primi ad unirsi a Dionigi furono que'di Camarina; poi que' di Gela, e d'Agrigento; ed egli chiamò ancora gl'Imerj, che abitavano l'altra parte di Sicilia; e nel passaggio suo indotti a far causa comune quelli di Selinunte, tutto l'esercito suo appressò a Mozia. Egli avea sotto i suoi stendardi ottantamila fanti, e tre mila cavalli; ed avea messe in mare non meno di dugento navi lunghe, dietro le quali venivano forse più di cinquecento destinate ai trasporti sì delle macchine di guerra, che d'ogni altra provvigione. Veduto sì grande apparecchio gli Ericini, e spaventati dal numero delle schiere, non meno che spinti dall'odio contro i Cartaginesi, si misero nel partito di Dionigi; ma gli abitanti di Mozia, aspettando i soccorsi de' Cartaginesi, non lasciaronsi atterrire dalle grandi forze nemiche; e si prepararono a sostenerne l'assedio; immaginandosi ottimamente, che il primo pensiero de' Siracusani sarebbe stato quello di devastare Mozia, per essere la prima e principale alleata dei Cartaginesi. Giace, questa città, in un'isola sei stadj distante dalla costa, bella oltre modo per la moltitudine ed eleganza degli edifizj, e piena di abitanti ricchi d'ogni cosa. Ha poi essa una stretta strada, per la quale comunica colla Sicilia; e questa fu immantinente guastata dai Moziani, onde per essa il nemico non potesse appressarsi alla città. Dionigi avendo co'suoi ingegneri ben considerata la situazione, incominciò a far alzare su quella strada degli argini; e fatte entrare nell'ingresso del porto alcune navi lunghe, ne assicurò altre di trasporto al lido colle ancore; poi diede l'incarico dell'assedio a Leptine, comandante dell'armata, ed egli infrattanto con buona fanteria andò ad invadere le città alleate dei Cartaginesi. Tutti i Sicani a un tratto, intimoriti dalle forze che venivano loro contro, si unirono ai Siracusani; e delle altre città cinque sole si tennero in devozione de' Cartaginesi, e furono: Ancira, Solo, Egesta, Panormo ed Entella; onde i loro territori furono a un tratto saccheggiati, e ne vennero spiantati e tagliati gli alberi; e fu posto poi l'assedio ad Egesta e ad Entella. In questo stato erano allora le cose di Dionigi. Intanto Imilcone, comandante de' Cartaginesi, mentre era intento a raccoglier gente da ogni parte, e a preparare altre cose, manda con dieci navi un ammiraglio, ordinandogli, che salpando di notte occultamente, quanto più presto può, vada a Siracusa, ed entrato pure di notte tempo in porto, distrugga le navi che ivi sieno rimaste. Il che Imilcone faceva tanto per distrarre le forze nemiche, quanto per obbligare Dionigi a mandar parte della sua armata in difesa di Siracusa. E quell' ammiraglio infatti celeremente esegui' l'incarico, e di notte entrato nel porto di Siracusa, mentre nissun vi pensava, improvvisamente fracassò coll'impeto dei rostri quante navi trovò in quella stazione; ed avendole distrutte quasi tutte se ne ritornò a Cartagine. In questo mezzo Dionigi devastati tutti i territorj dominati dai Cartaginesi, e rinserrati i nemici entro le loro mura, ricondusse sotto Mozia tutte le sue schiere colla idea che, presa questa città, le altre si sarebbero arrese tosto. Laonde di repente postosi all'assedio con maggior numero d'uomini, colmò con argini tutto lo spazio interposto tra il lido e la città; indi appressò a questa le macchine a mano a mano che colle alzate si faceva terreno.

L'assedio

In quel tempo Imilcone avendo osservato come Dionigi avea tratte a terra le navi, mise insieme cento delle migliori sue triremi, sperando che con improvviso assalto facilmente potrebbe impadronirsi delle medesime dappoichè egli avea all'intorno tutto il mare libero; ed ove un tal colpo gli riuscisse, di far levare l'assedio di Mozia, e portar la guerra a Siracusa. Partitosi dunque con cento vascelli, di notte tempo approdò alla spiaggia di Selinunte, e girato il Lilibeo sul far del giorno giunse a Mozia; dove nulla di ciò aspettandosi i nemici, una parte delle navi loro conquassò, e ne incendiò una parte, non potendo Dionigi portarvi alcun soccorso. Quindi entrato nel porto ordinò le sue navi in modo da potere assaltare quelle, ch'erano tratte a terra. Allora Dionigi fece avanzare le sue schiere alla bocca del porto: ma vedendo ch'essa era già presa dai nemici, non ebbe ardimento di calare le navi nel porto, essendo troppo manifesto, che per l'angustia di quella bocca doveasi con poche triremi combattere contro moltissime. E come abbondava di soldati, gli fu agevole conservare le navi che avea in terra, avendole fatte trarre in parte più remota del porto. Intanto Imilcone, che avea dato l'assalto alle navi, ch'erano più a portata sua, fu obbligato da una pioggia sterminata di dardi a ritirarsi; perciocchè in quelle navi erano stati messi saettieri e frombolieri in gran numero. Da terra poi, i Siracusani combattendo con catapulte che gittavano freccie acutissime, uccidevano quantità di nemici; e questa sorta d'armi incuteva agli assalitori terror grande, perciocchè era quella la prima volta, che se ne faceva uso. Sicchè l'Africano non potendo eseguire quanto s'era proposto, voltò verso il suo paese, giudicando non essere prudente cosa il tentare la fortuna di una battaglia navale con un'armata nemica maggiore del doppio. Ma Dionigi, avendo in fine a forza di braccia compiuto l'argine, spinse sotto le mura ogni sorta di macchine, abbattendo cogli arieti le torri, e colle catapulte cacciando gli oppidani dai luoghi di difesa, dai quali resistevano. Egli adoperò ancora torri condotte con ruote, e a sei solaj; con che venivano ad essere alte quanto le case della città. I cittadini di Mozia, quantunque si vedessero tanto da vicino soprastare il pericolo, e fossero privi d'ogni soccorso degli alleati, non per ciò si perdettero di coraggio: che anzi fermi in voler vincere in tanta lotta, primieramente collocarono soldati coperti di loriche sopra le antenne di alti alberi apposta piantati; e fecero, che questi da quelle altezze gittando stoppe intrise di pece, e fiaccole ardenti sulle macchine de'nemici, cercassero di abbruciarle. Attaccatosi tosto il fuoco a quelle macchine i Siculi accorsero prontamente, ed estinto l'incendio, col frequente usar degli arieti vennero a rovesciare una non piccola porzione di mura: nella qual parte fattosi da entrambi i lati un grande concorso, nacque gagliardissimo combattimento: perciocchè i Siculi credendo d'essere già padroni della città, erano fermi in sostenere ogni fatica per poter giungere a vendicarsi delle offese avute dagli Africani; e gli abitanti dal canto loro, pensando ai mali della cattività, di cui erano minacciati, non avendo scampo veruno né per terra, né per mare, erano deliberati di morire da uomini coraggiosi. Laonde disperando infine di difendere le mura, chiusi gli angiporti, si concentrarono nelle ultime case situate presso le mura; ed ivi fecero ogni loro estremo sforzo come in barriera con ogn'ingegno inalzata. Il che mise i soldati di Dionigi in nuova e maggiore difficoltà: imperciocchè essendo essi entrati a torme dentro le mura, e credendo d'aver già presa la città, da quelli che dagli alti tetti delle case combattevano, si videro pessimamente feriti. Eglino nondimeno appressando le torri di legno alle prime case, tenevano pronte le scale per salire; e perché i tetti delle case erano al pari delle torri, si combattè da vicino, tanto più, che per mezzo delle scale applicate ai tetti delle case, i Siculi con gran veemenza passavano quelle medesime.

I Moziani allora, considerata la grandezza del pericolo, e tenendo sott'occhio le mogli e i figliuoli, mentre della salvezza di questi temevano, grandemente eran lieti di poter misurarsi petto a petto co' nemici. E qui vedi taluni dai presenti genitori pregati a non lasciarli ludibrio de'nemici, così animati alla pugna, senza riguardo alla propria vita cacciarsi con impeto in mezzo ai gruppi de'Siculi: taluni, all'udire le strida dolenti delle mogli e de'figliuoli, voler prima coraggiosamente morire, che vedere caduti in ischiavitù que' carissimi oggetti del loro amore: che infine niun adito era aperto alla fuga, cingendo il mare co' suoi flutti, e il nemico colle armi tutto intorno; e grave pensiero dava agli Africani, ed impulso a disperare di loro salute il crudel astio dei Greci, che già esercitato aveano enormemente contro quelli, i quali caduti erano nelle loro mani; e vedeano doverne pur essi cadere vittima. Non altro adunque lor rimaneva, che combattendo o vincere, o morire. E tale risoluzione essendo ben fitta nell'animo degli assediati, dir non si può quanto a' Siculi rendesse difficile l'espugnazione di quella città. Questi adunque combattendo sui ponti, che dalle loro altissime torri ai tetti delle case detto abbiamo essersi colle scale gittati, venivano con grave lor danno respinti, avendo incontro e la strettezza del luogo e la disperata temerità di un nemico prodigo di sua vita. Quindi venendo petto a petto a ferirsi, il più spesso e l'assalitore, e l'assalito egualmente piagati cadevano morti: altri rovesciati dagli opponentisi Moziani precipitavan giù de' tavolati, cadendo squarciati a brani, o infranti sulle sottopposte strade. Il qual miserando modo di combattere essendo continuato per intere giornate, un dì verso sera Dionigi il fece cessare, chiamando per mezzo dei trombettieri i soldati a raccolta e sospendendo l'assalto. Or mentre i Moziani eransi assuefatti a questo genere di fazione, e gli uni e gli altri essendosi ritirati , egli dà alcune coorti sceltissime ad Archilo turio, commettendogli la seguente impresa. Archilo in mezzo alle tenebre della notte va a mettere le scale ai già diroccati edifizj, e per esse entrato ben addentro, occupa un certo luogo in cui si fortifica, ed ivi s'ingrossa con altri che Dionigi gli manda. Accortisi i Moziani del fatto, è superfluo il dire con che animo accorressero a cacciar di là i nemici; e comunque fosse troppo tardi, a tale discapito suppliva la risoluta deliberazione di sostenere qualunque pericolo. Atroce per ciò fu la pugna, e dopo immensi sforzi a grande stento i Siculi poterono cacciar di quel luogo il nemico. Allora Dionigi non tardò un momento a condurre per l'argine l'intero suo esercito, e ad invadere la città.

Le conseguenze

A un tratto ogni luogo fu pieno de' cadaveri degli uccisi; perciocché i Siculi bramosi di vendicarsi della crudeltà degli Africani, quanti incontravano, fanciulli, donne, vecchi, non che altri, trucidavano senza misericordia. Ma desiderando Dionigi di vendere la turba degli oppidani onde trar pecunia, prese a contenere il soldato dalla strage de' cattivi; e veduto, che niuno ubbidiva a suoi comandi, e che i Siculi lasciavansi trasportare dalla sfrenata sete del sangue, non altro ripiego egli ebbe più che di far gridare per la voce di banditore , che ì Moziani avessero a rifuggirsi ne' templi dei Greci. Il che fatto, il volgo de' soldati cessò dalla strage, e si mise a dare il sacco alle case. Grande quantità di argento allora, non poca d'oro, e massima poi di preziose vesti, e d' ogni genere di ricchi arnesi cadde in mano de' vincitori: perciocché Dionigi concedette ai soldati il sacco della città, onde averli più pronti nelle altre imprese restanti. E ad Archilo, stato il primo a salir sulle mura, e ad internarsi nella città, in luogo di corona murale diede in regalo cento mine, e ogni altro rimunerò secondo i meriti. I Moziani scampati dalla strage furono venduti all'asta, e Daimene, ed altri Greci, che aveano congiunte le loro armi coi Cartaginesi, vennero crocifissi. Dopo queste cose Dionigi ordinò a Leptine, comandante dell'armata, che con centoventi navi stesse in osservazione, se i Cartaginesi venissero verso le spiaggie di Sicilia; e gli ordinò pure, che con iscorrerie, e corseggiamenti infestasse, come avea già prima prescritto, Egesta ed Eutella; ed egli ritornò a Siracusa coll'esercito. Incominciò allora a produrre le sue tragedie in Atene Sofocle, figliuolo di Sofocle, e riportò dodici vittorie.