Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Argostoli

15 - 16 settembre 1943

a cura del Magg. t. (ISSMI) Generoso MELE - Comando Divisione "Acqui"

Gli avversari

Antonio Gandin

Generale italiano (Avezzano 1891 - Cefalonia 1943). Nominato sottotenente di fanteria il 17 sett. 1910, il 9 ott. 1911 si imbarcò con le truppe destinate a Tripoli e alla conquista della Libia, da dove venne rimpatriato già l'8 ott. 1912 dopo che si era messo in evidenza ottenendo, fra l'altro, una medaglia di bronzo al valor militare. Tenente il 21 sett. 1913, nel maggio 1915 fu destinato al fronte di guerra; il 9 settembre dello stesso anno era promosso capitano e, il 14 ott. 1917, a pochi giorni da Caporetto, nominato maggiore. Nel corso del conflitto ricevette alcune onorificenze, fra cui, nel luglio 1915, un encomio solenne, poi trasformato in croce di guerra al valor militare, e una medaglia d'argento per la parte avuta nei combattimenti del giugno 1918 alla Nervesa. Fu smobilitato solo il 19 dic. 1919, poiché comandato, alla fine del conflitto, in zona d'armistizio in Carnia. Terminata la fase più specificamente operativa del suo percorso militare, si aprì per il Gandin la carriera nell'apparato centrale, in alternanza con i necessari periodi di comando. Assegnato, nel gennaio 1920, allo stato maggiore dell'esercito, fece domanda per partecipare, a Torino, alla scuola di guerra, da cui uscì nel novembre 1921. Terminato il corso di stato maggiore alla scuola venne comandato presso il ministero delle Finanze, dove rimase sino al marzo 1925. Il 4 nov. 1926 fu promosso tenente colonnello e, comandato un reparto fra 1926 e 1929, venne transitato di nuovo nel corpo di stato maggiore, con destinazione al comando del corpo presso il ministero della Guerra. In seguito passò alla scuola di guerra, tenendo corsi di storia militare fra l'inverno 1932 e l'estate 1935; il 28 marzo 1935 fu nominato colonnello. Un altro breve periodo di comando e, nel luglio 1937, venne destinato all'ufficio del comando del corpo di stato maggiore; quindi, nel maggio 1938, entrò a far parte della ristrettissima segreteria del capo di stato maggiore generale, P. Badoglio. Quest'incarico coronava una rapida carriera, per gran parte trascorsa negli apparati centrali dello stato maggiore, ponendo il Gandin in una posizione privilegiata da cui seguire l'evoluzione della politica militare del fascismo e perciò in grado di valutare il reale livello di preparazione dello strumento militare da parte del regime. Il Gandin, quindi, non poté non rendersi conto degli elementi di debolezza della preparazione italiana - come testimoniano certi suoi rapporti a Badoglio (fra cui, ad esempio, uno relativo alla parata militare del 9 maggio 1939) - senza, tuttavia, che né lui, in fondo ancora uomo di segreterie e di apparati, né Badoglio stesso potessero intervenire in alcun modo. Un elemento che favorì ulteriormente la carriera del Gandin fu la conoscenza della lingua tedesca, non molto diffusa fra gli ufficiali, soprattutto fra i più alti in grado; questo, insieme con la sua esperienza di stato maggiore e con l'incarico nella segreteria di Badoglio, gli permise di conoscere i termini precisi dei contatti e degli accordi fra Germania e Italia in materia militare e anche, in qualche occasione, di contribuirvi direttamente, presenziando a incontri politico-militari italo-tedeschi di altissimo livello. La positiva valutazione della persona del Gandin fu riconfermata anche quando si verificarono gli eventi che, nell'autunno 1940, al momento dell'attacco alla Grecia, portarono alle dimissioni (che erano in realtà una rimozione) di Badoglio dalla carica di capo di stato maggiore. Il 15 ott. 1940 il Gandin fu promosso generale di brigata e, dal 1° dicembre, venne nominato capo del prestigioso I reparto (addetto alle operazioni e alla pianificazione generale) del comando supremo italiano, incarico che occupò sino al gennaio 1943, cioè per tutto il periodo in cui capo di stato maggiore generale fu U. Cavallero, da molti considerato - a cominciare da Mussolini - l'anti-Badoglio. Nel frattempo, il 12 ott. 1942, era stato promosso generale di divisione e insignito, negli stessi giorni, della croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia. Il fatto che nel periodo di guerra agli incontri personali fra Hitler e Mussolini fosse presente il capo di stato maggiore generale e, fra i suoi consulenti, proprio il capo del reparto operazioni, cioè il Gandin, accrebbe, evidentemente, il ruolo, il credito, le conoscenze di quest'ultimo nelle alte sfere, non solo a Roma ma anche a Berlino. Nell'ambito dell'apparato militare italiano il Gandin restava, in ogni caso, un elemento in grado di ispirare ma non certo di prendere in prima persona le vere e proprie decisioni strategiche anche se, a conferma del suo inserimento nel cuore stesso del sistema operativo militare, si può citare un elenco - sintetico e non esaustivo ma già di per sé significante - di "missioni all'estero di rilevante valore politico e militare" cui egli prese parte, vale a dire una serie di viaggi al seguito di Mussolini: a Berchtesgaden presso Hitler (18-21 genn. 1941), al Brennero (1-3 giugno 1941), in Pomerania presso il quartier generale tedesco (23 ago. a 1941), di nuovo in Germania (28 aprile - 1° maggio 1942) e in particolare a Berlino presso il comando supremo della Wehrmacht (28 dic. 1940 - 2 genn. 1941), in Russia presso il generale Gandin Messe (21 nov. - 2 dic. 1941), ad Abbazia in Istria per una riunione italo-tedesco-croata (1-5 marzo 1942), ancora a Berlino presso il comando supremo Wehrmacht per il problema dei carburanti (29 luglio - 8 ago. 1942), in Iugoslavia (9-12 ago. 1942), nelle isole dello Ionio e ad Atene (5-11 ottobre 1942), in Africa settentrionale ad Ain-el-Ghazal (5-8 nov. 1942), a Monaco di Baviera al seguito di Gandin Ciano (9-11 nov. 1942), in Tunisia (19-21 nov. 1942), in Germania sempre con Ciano (18-22 dic. 1942), in Libia e Tunisia (28 dic. - 19 genn. 1943). La caduta in disgrazia di Cavallero presso Mussolini finì, però, col coinvolgere anche il Gandin: in un primo momento il diffuso apprezzamento e la lunga attività nell'apparato militare gli fruttarono, fra fine gennaio e fine febbraio, la destinazione operativa più vicina a Roma come capo dello stato maggiore italo-tedesco in Africa; tale destinazione era, però, anche la più irta di difficoltà, vista l'ormai ineludibile ritirata dall'Africa settentrionale delle forze italiane, incalzate dagli Inglesi. Il 25 febbr. 1943, quando V. Ambrosio era ormai capo di stato maggiore generale, il Gandin fu nuovamente chiamato a dirigere il reparto operazioni del comando supremo e tornò in Germania al seguito di Mussolini (6-11 apr. 1943); ma, al ritorno da questo viaggio, fu di fatto sospeso, passando a disposizione del sottocapo di stato maggiore generale, e rimanendo così coinvolto nel disegno che mirava a emarginare i più stretti collaboratori di Cavallero. Dopo qualche settimana fu allontanato da Roma e nominato comandante della divisione di fanteria "Acqui". La divisione, all'epoca, svolgeva un ruolo di un certo rilievo all'interno del dispositivo che doveva garantire il possesso delle isole ioniche contro manovre anglo-statunitensi nel Mediterraneo. Quando il Gandin raggiunse il nuovo comando, nel giugno 1943, l'unità stava consolidando e rafforzando le proprie posizioni; il 25 luglio, al momento della destituzione di Mussolini, il Gandin si trovava a Cefalonia. Gli eventi che seguirono ebbero a Cefalonia un esito al tempo stesso onorevole e tragico quando, all'indomani dell'8 settembre, i rappresentanti delle forze tedesche chiesero al comando militare italiano nell'isola la resa delle armi. Gli scontri sporadici che seguirono il rifiuto italiano a cedere le armi, si trasformarono, dal 15 settembre, in aperti combattimenti. La reazione tedesca fu massiccia e brutale: dal 15 al 22 settembre nella sola Cefalonia caddero in combattimento 65 ufficiali e 1200 sottufficiali e uomini di truppa; 155 ufficiali e 4700 sottufficiali e uomini di truppa vennero barbaramente fucilati o trucidati. Infine, fra il 24 e il 28 settembre, altri 1700 uomini di truppa e 193 ufficiali furono eliminati dalle truppe tedesche. Fra loro, dopo il 24 settembre, cadde anche il Gandin. L'episodio di Cefalonia, quando fu noto, ebbe grande risonanza e controverse interpretazioni e conseguenze; comunque la motivazione dell'ultima medaglia concessa al Gandin, quella d'argento poi commutata in medaglia d'oro al valor militare alla memoria, ne fece un eroe militare affermando che "catturato dal nemico, coronava col supplizio stoicamente sopportato l'eroismo e l'alto spirito militare di cui aveva dato luminosa prova in combattimento".

Harald von Hirschfeld

Generale tedesco(10 luglio 1912 - 18 gennaio 1945)comandò la 78ma divisione Volksgrenadier durante la seconda guerra mondiale, venne insignito della croce di ferro. Hirschfeld, figlio di un commerciante di Meclemburgo, venne ampiamente istruito e addestrato all'estero, in Sud America, Spagna, Londra e Parigi e parlava correntemente italiano e spagnolo. Si unì alla Wehrmacht nel 1935 e fece gran parte della sua carriera nella 1a Divisione di montagna (Gebirgs-Division): nel 1938 è aiutante del 2° battaglione, nell'agosto del 1940 assume il comando della 7a compagnia, nell'agosto del 1942 guida la seconda compagnia e, a partire dall'ottobre del 1943, è il comandante del 98 ° reggimento di montagna.

Nel settembre del 1943, come colonnello nella 1a Divisione di Montagna, ebbe un ruolo importante nel massacro della Divisione Acqui, l'omicidio di 5.155 prigionieri di guerra italiani della 33ma Divisione di fanteria di montagna Acqui a Cefalonia. Il 15 gennaio 1945, venne promosso Generalmajor. In quel giorno fu ufficialmente messo al comando della 78a Divisione Sturm, che aveva guidato ufficiosamente dal 26 settembre 1944. Era il più giovane ufficiale generale della Wehrmacht. Fu gravemente ferito durante la Battaglia del Passo Dukla e morì lungo la strada per l'ospedale da campo il 18 gennaio 1945. Fu promosso postumo al tenente generale il 10 febbraio 1945. Hirschfeld fu sposato con Sylvinia von Dönhoff, che in seguito sposò la ex pilota di caccia Adolf Galland .

La genesi

La battaglia di "Argostoli" fu la più considerevole e onerosa di tutte le operazioni di guerra e degli scontri tra italiani e tedeschi nel quadro generale della battaglia di Cefalonia. Durante la seconda guerra mondiale l'isola di Cefalonia fu occupata dagli italiani il 1º maggio 1941 come parte della campagna di Grecia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, avendo il presidio italiano (costituito dalla divisione Acqui) rifiutato l'intimidazione di resa fatta dai tedeschi, fu attaccato e sopraffatto con la perdita di circa 3000 uomini; dei superstiti oltre 5000 furono "giustiziati" (14-22 settembre 1943) in quello che è noto come l'eccidio di Cefalonia. A Cefalonia fu inviato ai primi di agosto un gruppo tattico al comando del tenente colonnello Hans Barge, costituito dal 966° reggimento fanteria da fortezza, rinforzato da due batterie semoventi e da elementi di supporto, per un totale di circa 1800 uomini, che presero posizione nella penisola di Lixuri, nella parte occidentale dell'isola. Una compagnia rinforzata ed una batteria semovente,con elementi di supporto,al comando del tenente Fauth, furono distaccati ad Argostoli, il capoluogo, sede anche del comando italiano. Da alcuni storici è denominata "Battaglia di Cima Telegrafo" o di "Monte Telegrafo", oppure ancora "Battaglia delle colline di Argostoli", perché fu combattuta in gran parte sulle alture nei pressi del capoluogo dell'isola. Si ritiene più appropriato denominare la battaglia con l'obiettivo principale dello scontro, al quale i tedeschi puntavano con due colonne, operanti: una, lungo la direttrice San Teodoro - Cima Telegrafo - Faraò, e costituita dal Gruppo Tattico Fauth , e l'altra nel settore orientale, lungo la direttrice Kardakata - Pharsa - Prokopata, quest'ultima sede del Comando Tattico italiano: in entrambi i settori furono i tedeschi ad assumere l'attacco.

Con lo scadere della proroga del termine dell'ultimatum italiano al comando tedesco dell'isola , alle ore 14.00 del 15 settembre, arrivava la risposta tedesca consistente nell'effettuazione di un violentissimo bombardamento aereo, con aeroplani da picchiata Stukas contro le postazioni italiane, le fortificazioni e i reparti delle colline.

La battaglia

Alle 14 del 15 una trentina di Stukas sganciavano bombe lungo il costone Faraò - Spillià - Chelmata contro le nostre batterie. La risposta fu rabbiosa ed immediata. Il rapporto di forza fra italiani e tedeschi era radicalmente mutato: i rinforzi, gli aerei, i mezzi navali ora erano tutti a favore loro. Nel frattempo la risposta «ad altissimo livello» che aveva invocato Gandin era arrivata da Berlino, ma era diretta solo alle truppe tedesche. La direttiva stabiliva che i militari italiani venissero divisi in tre categorie: quelli fedeli all'alleanza che continuavano a combattere al fianco dei tedeschi o che comunque prestassero la loro opera nei servizi ausiliari; quelli che si rifiutavano di collaborare; quelli che oppongono resistenza, o collaborano con le bande partigiane, che andranno trattati come nemici. Gli appartenenti al primo gruppo conservano le armi e saranno considerati alleati; i militari del secondo invece saranno considerati prigionieri di guerra e destinati alle organizzazioni per l'economia bellica del paese. Infine gli altri: gli ufficiali saranno immediatamente fucilati; sottufficiali e soldati spediti sul fronte orientale. La direttiva riguardava tutti i fronti sui quali erano schierati gli italiani. Nel settore occidentale, nel contempo all'intenso bombardamento, i tedeschi - che nella notte avevano conquistato con il 910° Battaglione Pharsa e Davgata - attaccavano con il 909° Battaglione il settore tenuto dal II Battaglione del 17° Reggimento fanteria a Monte Telegrafo e nella zona di Lardigò, con manovra avvolgente su Argostoli movendo da Kardakata a nord e da San Teodoro a Lardigò a sud. Il Maggiore Altavilla (uno dei più brillanti ed audaci ufficiali della Divisione), comandante del II Battaglione del 17° Reggimento fanteria, schierato sulle alture di Cima Telegrafo, reggeva fermamente l'urto nemico, malgrado la minaccia dal cielo di numerosi aerei, che, a volo radente, mitragliavano i fanti, costringendoli a nascondersi fra le rocce prive di vegetazione. Per sottrarsi alla minaccia di aggiramento, le compagnie arretravano su posizioni più idonee alla difesa, dopo aver subito gravi perdite. Determinante, in questo momento, il contributo dei plotoni mortai da 81 mm. al comando dei Tenenti Cei e Zamparo che, con nutritissimo fuoco di sbarramento a grande capacità, tenevano a distanza i tedeschi dando tempo ai reparti in linea di riprendersi e organizzarsi. Un primo e parziale successo tedesco giungeva dagli attacchi precisi e funesti degli Stukas e dei semoventi della "Sturmbatterie" che facilitavano con straordinaria efficacia la fanteria tedesca, obbligando i soldati italiani sulla difensiva. Lo Sturmgeschütz III (cannone d'assalto su scafo Panzer III) fu uno dei tanti mezzi cingolati prodotto nel corso della seconda guerra mondiale dai tedeschi. L'installazione dell'armamento principale in casamatta anziché in una torretta girevole, benché rendesse il sistema d'arma meno efficace di un carro armato, rendeva il veicolo di più facile produzione e più economico. In questo momento di maggiore gravità, interveniva in linea la 2^ compagnia del 110° Battaglione mitraglieri di Corpo d'Armata che, grazie al suo appoggio di fuoco costante, facilitava l'inserimento in linea del III Battaglione del 17° Reggimento fanteria. Spinti da esempi di eroismo, sollecitati dagli ufficiali, inorgogliti dal successo che precludeva alla vittoria, i reparti si lanciavano all'assalto travolgendo una dopo l'altra le postazioni difensive tedesche: era ormai notte, Monte Telegrafo era finalmente in mano italiana, gli Stukas si erano ritirati ed i tedeschi ripiegavano inseguiti dai soldati italiani. A un certo punto, nel fragore della battaglia, si levava chiara una voce in italiano: "Italiani, non sparate più, ci arrendiamo". Per mezzo di parlamentari alle ore 2.00 del 16 settembre veniva stipulata la resa; i tedeschi contavano quarantacinque morti in combattimento, trecentocinquanta morti in mare e sessantatrè feriti. Da parte italiana, dodici caduti e ventotto feriti. Nel corso della notte il II Battaglione del 17° Reggimento fanteria riceveva l'ordine di rientrare a Mazarakata mentre il III Battaglione del 17° Reggimento doveva rioccupare le precedenti posizioni in difesa costiera.

Nel settore orientale i combattimenti si svolgevano con particolare asprezza, anche perché i tedeschi, approfittando del ritiro del II Battaglione del 17° Reggimento fanteria dall'importante nodo di Kardakata, ancor prima dell'inizio dei combattimenti avevano occupato le posizioni predominanti, cioè tutta l'aspra dorsale montana, e si erano spinti fino agli abitati di Pharsa e Davgata, occupati in gran parte dal 910° Battaglione, comandato dal Maggiore Nennstiel. Il Comando di Divisione impegnato nelle trattative, non aveva raccolto informazioni precise sui movimenti tedeschi; il servizio informazioni garantito dai patrioti greci, d'altronde, s'era rivelato insufficiente. Cosicché lo schieramento tedesco costituiva un incognita. Dalle alture di Kardakata i tedeschi avevano spalancate davanti a loro sia la rotabile di nord-est che conduceva ai porti di Sant'Eufemia e Sami, sia la rotabile che puntava a sud tagliando a metà lo schieramento della Divisione. Lasciata una compagnia a presidio del ponte di Kimonico per bloccare un eventuale tentativo di aggiramento, il Maggiore Nennstiel dirigeva il resto del battaglione verso Kondogurata, si impossessava dei picchi dell'Aklevuni e raggiungeva i sobborghi di Pharsa avvolgendo intorno a Castrì la 9^ compagnia del III Battaglione del 17° Reggimento fanteria; da Pharsa a Pharaklata era un inferno di fuoco. L'attacco continuava dirigendosi verso Padiera tanto da essere abbandonata, rischiando di essere travolto anche Castrì. Ma tennero duro e bloccarono l'attacco tedesco; l'artiglieria compì un buon lavoro di sostegno, ma richiamò l'attenzione degli Stukas, le cui squadriglie si avventarono contro di essa seminando distruzione e morte. Interrotto l'attacco tedesco, il Generale Gandin effettuava una contromanovra con il II Battaglione del 317° Reggimento di fanteria, il quale, raggiunta Davgata, contrattaccava sul fianco sinistro il nemico, minacciando di tagliargli la strada. In attesa che si compiva questa manovra, il Capitano Saettone con una sezione carabinieri viene inviato nel settore allo scopo di arginare il ripiegamento, che si accentuava sempre più, del III Battaglione del 317° Reggimento di fanteria. I tedeschi, intuita prontamente la manovra, desistevano dall'attacco ritirandosi precipitosamente in direzione di Kardakata. Nello stesso momento il III Battaglione del 317° Reggimento, riorganizzatosi, passava al contrattacco attestandosi, unitamente al I Battaglione del 17° Reggimento fanteria su posizioni antistanti l'abitato di Pharsa tenuto saldamente da pattuglie tedesche. La situazione era decisamente favorevole alle forze italiane, che avrebbero potuto ormai annientare quelle nemiche, proseguendo per qualche ora la lotta; ma il Comando di Divisione, forse impressionato dall'asprezza dei combattimenti e dal logoramento degli uomini, faceva sospendere l'inseguimento, rinunciando incredibilmente a sfruttare il successo ottenuto con tanti sacrifici. Si concludeva così la prima giornata di combattimenti, che segnarono la conquista da parte italiana di Monte Telegrafo, la cattura di oltre 500 tedeschi e la ritirata del 910° Battaglione, comandato dal Maggiore Nennstiel, verso nord (Kardakata). Dopo la prima giornata di combattimenti il Tenente Colonnello Barge così riferiva al XXII Corpo d'Armata: "Gruppo Tattico Fauth, alle ore 23.00, causa troppo elevate perdite e preponderante pressione nemica, costretto alla cessazione della resistenza. 910° Battaglione, investito da attacco sul fianco ovest Razata; scopo impedire aggiramento sulla strada del passo, ordinato ripiegamento su linea estremità nord del Golfo di Livadi-Zola-Pergata. 966° reggimento difende con forze ancora disponibili penisola Lixuri". Di fronte agli sviluppi, il Generale Lanz stabiliva di rinviare definitivamente l'azione su Corfù finché non si fosse riusciti ad avere ragione della situazione a Cefalonia. Tutto il naviglio disponibile doveva essere utilizzato: il 16 settembre consisteva in tre dragamine, sei motozattere della marina, un cacciasommergibili e due piccoli vapori. Il comandante tedesco di Cefalonia riceveva la disposizione di mantenere le posizioni assunte fino a quando, il giorno successivo, non fosse giunta una squadra da combattimento del 98° Reggimento cacciatori da montagna. La disfatta del giorno 15 settembre era stata così pesante che il Generale Lanz si dovette giustificare di fronte al Generale Loehr, Comandante del Gruppo Armate Est; infatti il giorno 16 settembre telegrafava assicurando l'apertura, appena possibile, di un inchiesta del Tribunale Militare e aggiungendo di non aver alcuna influenza sul valore combattivo dei due battaglioni, formati da detenuti penali, né sul loro impiego nell'isola. Intanto a partire dalla notte sul 16 settembre cominciavano ad affluire sull'isola (per l'Operazione definita "Panther") rinforzi di truppe germaniche, in particolare:

- III Battaglione del 98° Reggimento cacciatori da montagna;

- II Battaglione del 724° Reggimento cacciatori da montagna;

- 54° Battaglione cacciatori da montagna ;

- 9^ e 7^ batteria da 105 mm del III Gruppo del 79° Reggimento art. da montagna.

Tutte queste truppe si erano imbarcate a Prevesa ed erano dirette nella baia di Akrotiri (a nord del capo omonimo), nella parte meridionale della penisola di Lixuri, e nelle baie di Myrtos e di Samos. Il Comandante del 98° Reggimento cacciatori da montagna, Maggiore Harald (figura a lato) von Hirschfeld, il giorno 17 settembre, assumeva il comando di tutte le forze germaniche esistenti nell'isola in sostituzione del Tenente Colonnello Barge. Quanto alla parte italiana, la serie di messaggi inviati al Comando Supremo iniziava alla ore 15.20: "Prego informare autorità competente che oggi sono stato costretto aprire at Cefalonia ostilità con tedeschi". Alle ore 15.30: "At ore 14.30 Stukas habent bombardato et mitragliato mie posizioni alt due aerei nemici allontanatisi in fiamme". Alle ore 15.40: "Tedeschi non accettano mia richiesta che divisione conservi armi alt at violenza risponderò con violenza". Alle ore 17.20: "Situazione ore 16.00 alt combattimento continua con intervento numerosi Stukas battuti da nostra artiglieria". Alle 21.55: "Situazione ore 19.00 alt infuria battaglia su tutta la fronte intorno at Argostoli alt nemico attacca alt intensissima azione aerea". Alle ore 24.00: " Battaglia ancora indecisa soprattutto per incontrastata azione aerea nemica alt darmi notizie". Ma la Divisione "Acqui" non poteva attendersi alcun rinforzo dall'Italia, dagli Alleati. I radiomessaggi trasmessi non avevano avuto nessun tipo di risposta nonostante il Comando di Divisione continuasse a inviarli ogni due ore. Essa restava sola e sempre più esposta ai raid aerei tedeschi. Ecco perché nella mente del Generale Comandante, sin dall'alba del giorno 16 settembre si delineava l'inderogabile necessità - ai fini di una rapida soluzione della battaglia - di occupare il nodo di Kardakata, vera chiave per il dominio dell'isola. Egli quindi elaborava una serie di operazioni che contemplavano l'impiego di tutto il 317° Reggimento fanteria, del I Battaglione del 17° Reggimento fanteria e del I Gruppo del 33° Reggimento artiglieria. Intanto il Generale Gandin disponeva che il II ed il III Battaglione del 17° Reggimento fanteria, i più provati nella lotta del giorno precedente, si dislocassero: il II Battaglione quale unità di manovra, nella zona del nodo stradale di Mazakarata; il III Battaglione a difesa costiera nelle zone di Minies e Svoronata; il I Battaglione del 317° Reggimento fanteria a difesa costiera nella baia di Sami. Il disegno di manovra della "Acqui" era semplice: attaccare da sud le posizioni di Kardakata con il I Battaglione (Tenente Colonnello D'Ara) del 17° Reggimento fanteria, il II Battaglione (Maggiore Fannucchi) ed il III Battaglione del 317° Reggimento fanteria, e da est quelle di Ankona con il I Battaglione (Capitano Neri) del 317° Reggimento fanteria. L'attacco doveva avere inizio alle ore sei del giorno 17 settembre: nell'attesa che il I Battaglione del 317° Reggimento fanteria effettuasse il trasferimento dalla zona di Sami a Sant'Eufemia - dove era schierato - alle posizioni di partenza (ponte di Kimoniko), il Generale Comandante ordinava al I Battaglione del 17° Reggimento fanteria e al II Battaglione del 317° Reggimento di serrare sotto; al III Battaglione del 317° Reggimento fanteria di riorganizzarsi nella zona di Davgata. Per sostenere l'offensiva dei tre battaglioni del fronte sud il Generale Gandin spostava in avanti anche le batterie del 33° Reggimento artiglieria: la 3^ batteria dalla periferia sud di Argostoli al campo sportivo, la 5^ batteria da Paliokastro a Davgata, la 1^ batteria si trovava già a Faraklata. Mentre il Generale Gandin emanava gli ordini di trasferimento dei reparti, l'aviazione tedesca realizzò un ponderoso bombardamento su Argostoli, anche se il Comando di Divisione, sin dal 15 settembre, aveva fatto allontanare anche i Carabinieri e la Guardia di Finanza, per evitare ogni pretesto che potesse in qualche modo giustificare un bombardamento del centro abitato.

Le conseguenze

Il disastroso bombardamento provocò la morte di circa ottocento ed il ferimento di circa duemila fra la popolazione civile. Lungo le strade, gli abitanti della cittadina - gente di tutte le età e di tutte le condizioni - uomini, donne e bambini - carichi di masserizie fuggivano piangendo e si accasciavano a terra, sfiniti dalla stanchezza.