Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio turco di Antiochia

7 - 28 Giugno 1098

Il comandante turco

Kirbogha o Kerbogha (... - 1102 circa) è stato Atabeg di Mossul dal 1096 al 1102, al tempo della prima crociata.

Era un mamelucco, cioè uno schiavo di origine transcaucasica o est-europea, per lo più non musulmano, addestrato all'uso delle armi. Kirbogha fece carriera durante il regno (1072-1092) del sultano selgiuchide Malik Shah I, che gli affidò incarichi sempre più delicati sino a diventare un alto ufficiale del sultano. Dopo la sua morte, passò al servizio del figlio, Mahmud I (1092-1094) e, alla morte di questi, del fratello Barkiyaruq (1094-1105): questi nel 1094 lo inviò ad aiutare Aq Sunqur al-Hajib, che, dopo aver occupato Mossul per conto dello zio di Barkiyaruq, Tutush I, sultano di Siria, non solo non lo volle riconoscere sultano di tutta la Siria ma si era alleato col sultano dei Selgiuchidi, Barkiyaruq.Dopo la morte di Aq Sunqur al-Hajib, sul campo di battaglia, Kirbogha rimase a Mossul e nel 1096 fu nominato Atabeg di Mossul, capitale della Jazira, per conto del nuovo sultano, il figlio di Aq Sunqur al-Hajib, Imad al-Din Zengi, che era un bambino di circa nove anni.Dato che la Jazira, la regione di cui Mossul era la capitale, era una pianura tra il Tigri e L'Eufrate molto fertile ed inoltre ricca di nafta Kirbogha era divenuto il più potente emiro di tutta la Siria. Dopo la disfatta di Antiochia,torno' a Mossul, con la sua reputazione di soldato annientata, e vi morì pochi anni dopo.

La genesi

Raimondo Agilense, narra i tripudii e le allegrezze de soldati Cristiani dopo la vittoria e specialmente, che i cavalieri ei baroni celebrarono magnifici festini ne'quali furono senza scrupolo adoperate le Pagane danzatrici; e mostrando con altre simili prevaricazioni, aver obbliato essere stato Iddio autore delle loro prosperità. Ma la gioia e il tripudiare furono presto interrotti, da crudele spavento per l'appropinquarsi del formidabile esercito mussulmano.

Fin da quando cominciò l'assedio cristiano, Acciano e gli altri principi circostanti, privati de' loro dominii da' Cristiani, avevano chiesto soccorsi a tutte le potenze mussulmane per recuperare gli stati. Il sultano di Persia, capo supremo dei Selgiucidi, aveva promesso di aiutarli; e per suo comandamento (cosi riferisce Matteo Edesseno) il Chorazano, la Media, Babilonia, parte dell'Asia Minore e tutto il paese in tra Damasco, il mare, Gerusalemme e l'Arabia compreso, preparavansi alle armi per assaltare i Cristiani: a tanto esercito fu preposto capitano supremo Cherboga principe di Mossul. Costui era veterano guerriero e invecchiato sul campo, ora combattendo per Barchiaroc sultano di Persia, ora, per altri principi della casa di Malecco Scah, contendenti fra loro dell'imperio: talora vincitore, talor vinto e prigioniero, sempre però coinvolto nei tumulti delle guerre civili. Grande spregiatore era egli de' Cristiani, né meno estimatore di sè stesso, e similissimo al feroce Circasso celebrato da Torquato, millantavasi già liberatore dell'Asia, e correva per la Mesopotamia in sembianze di trionfatore; seguitandolo come ausiliari i principi di Aleppo e Damasco, il governatore di Gerusalemme, e ventotto emiri della Persia, della Palestina e della Siria. Cupidità di vendetta stimolava i soldati mussulmani, che giuravano in nome del loro profeta di voler sterminare tutti i Cristiani. Il terzo di', dopo presa Antiochia, furono veduti dalle torri i corridori mussulmani, inoltrarsi per la pianura. Ruggiero di Barnevilla prode cavaliero, volle escire ad affrontarli: recarono poco dopo in città i compagni il di lui corpo straziato da molte ferite e scevro della testa, che il nimico aveali mozza. Il popolo cristiano estimandolo martire, accompagnò le di lui reliquie al sepolcro.

Nascevano frattanto in tutti gli animi funesti presagi; molti invidiavano la sorte di quelli che già riposavansi nella pace della tomba. Apparvero finalmente da lunge le innumerevoli bandiere dell'esercito mussulmano. Invano Goffredo, Tancredi, il conte di Fiandra, corsero ad affrontare il nimico, lasciati morti sul campo non pochi de' loro compagni, dovettero precipitosamente ripararsi nella città, perloché lo spavento e la costernazione disanimarono tutti i pellegrini. Mancavano le provvigioni per sostenere un lungo assedio; trovavansi i Crociati alle spalle un nimico pericolosissimo che tenendo la cittadella, poteva con ogni vantaggio combatterli, e a fronte il poderosissimo esercito di Cherboga, le cui tende occuparono immantinente tutto il pendio orientale delle montagne e le sponde dell'Oronte. Reputo superfluo raccontare partitamente le piccole zuffe, nelle quali i soldati della croce non smentirono la fama del loro valore; nondimanco conoscevasi in essi esser venuta meno la confidenza nelle loro armi; non avendo osato tentar la giornata campale, forse unico espediente a prevenire i mali che già soprastavano alla città circondata da grandissima oste e il cui nuovo popolo non avea speranza di ricevere soccorso veruno. Cominciò pertanto la carestia; e i Cristiani fra tante conquistate ricchezze, morivansi di fame; vero è che ne' primi giorni, alcuni più arditi, andando nottetempo al porto di Santo Simeone, recavano alcune provvigioni; ma presto spiati dai Turchi e sorpresi, furono tutti trucidati; e i navigli che erano giunti alle foci dell'Oriente, non furono pigri a spiegar le vele e a discostarsi dalle coste di Siria. Rimasersi allora i Crociati come prigioni nell'occupata città, e forse invidiando a quel tempo, nel quale, sendo essi assediatori e trovandosi in simile penuria, avevano almeno il conforto di poter liberamente vagare per la campagna a procacciare viveri, e talora mediante qualche prospera zuffa, guadagnarsi temporaria abbondanza. I cronisti ci hanno tramandato memoria di questa carestia, nelle loro ingenue narrazioni, mostransi massimamente maravigliati dell'altissimo caro a che ogni sorta di viveri vendevansi; valendo più che il suo peso in argento, un pane, un uovo, le fave, una testa di capra o una coscia di cammello. Uno de' medesimi cronisti, dice aver inteso tali estremità, intorno alle miserie di Antiochia, da farne inorridir la natura e cheegli non ardisce ai suoi lettori comunicare. Ammazzaronsi dapprima le bestie da soma, dipoi icavalli da battaglia; la plebe con avidità aspettava di poter porre le mani e i denti addosso alle pelli degli animali uccisi, le quali tagliuzzate in minuti pezzi e cotte con pepe, camino ed altre spezierie trovate nel sacco della città, mangiavansi come scelta vivande. Vedevansi anco i soldati rodersi i cuoi degli scudi e delle scarpe che facevano rinvenire nell'acqua calda. Ma anco queste misere vivande vennero meno, e crebbe l'atrocità della carestia. Cosi', molti Crociati fuggironsi dalla città; alcuni andando al mare fra innumerevoli pericoli, altri accostandosi ai Mussulmani dai quali, negato Cristo, impetravanó poco pane.

Frattanto, l'imperatore Alessio, che era giunto a Filomelio, spaventato dalle sinistre novelle, sospese il suo cammino; onde il terrore si sparse per tutte le cristiane provincie: e immaginandosi ciascuno di vedere ad ogni poco sopraggiungere i Turchi debellatori de' Cristiani, gli stessi sudditi di Alessio, devastarono le proprie terre, affinché i nemici non vi trovassero che squallore di diserti e ruine. Donne, fanciulli, tutte le famiglie cristiane, seco recando i loro averi, seguitarono l'esercito imperiale, che ritornavasi a Costantinopoli, non udendosi in esso che pianti e gemiti, principalmente dei Latini, i quali accusavano il conte di Bloase che avesse disertati gli stendardi di Cristo e ingannato l'imperatore, e accusavano se medesimi del non avere precorso l'esercito greco, o del non esser giunti sì per tempo in Asia da potersi congiungere ai loro fratelli e morire con essi in Antiochia. Ma la fame cresceva nell'assediata città, e con essa la disperazione de'piallegrini, ormai a tanta debolezza condotti da non potei più trattare nè la lancia nè la spada. I pianti e i lamenti erano cessati, cupo universale silenzio, quale è nella profonda notte, o in luoghi disabitati, occupava Antiochia, come se ai pellegrini fosse venuto meno l'uso de'sensi, immobili e stupidi giacevansi per le vie, spegnendosi a poco a poco ne' cuori l'amore della vita. Raimondo Agilese dice, che il fratello non riconoscesse più il fratello, nè il figliuolo il padre; i più nobili, vergognando incontrarsi fra loro e dimostrarsi alla plebe, stavànsene chiusi nelle case loro che come proprie tombe consideravano. Ogni giorno o con insidie o con aperti assalti la città era tentata. I Mussulmani avevano occupata una torre trovata senza guardia; e il presidio della cittadella, apertasi una porta dalla parte orientale, ricevendo sempre nuovi rinforzi da Cherboga, superava di tanto in tanto i fossi e i muri che gli erano dal lato della città opposti, e scendeva, menando stragi, fino nelle vie abitate dai cristiani. Né però tali insulti, nè la presenza del pericolo, nè le grida de' feriti, né il tumulto di guerra, potevano scuotere i soldati di Cristo dal loro stupido letargo. Boemondo principe della città, affaticavasi vanamente a rinfrancarli, invano le trombe e gli araldi chiamavano alle armi, persuadendosi il tarentino principe che ad estremo invilimento facesse mestieri estremo stimolo, fece appiccare il fuoco in alcuni quartieri della città.

La lancia di Longino

Ogni giorno si divulgavano in Antiochia, rivelazioni, profezie e miracoli. In questo fervore delle fantasie, si rappresentano due disertori davanti al consiglio dell' esercito ed espongono qualmente, nel procurare la fuga, uno di loro fosse stato impedito dal fantasima del suo fratello ucciso già in znfi'a da qualche giorno; e l'altrodall'istesso Gesù Cristo, il quale ave-ali promessa la liberazione d'Antiochia. Il predetto fantasima similmente promise di escire dalla tomba con tutti isuoi compagni onde soccorrere ai Cristiani nella pugna; certi della vittoria la quale se è pericolosa e diflicile da conseguire contro uomini mortali; contro gli esseri superni e i morti è indubitatamente impossibile. Ma non reputandosi ancor sufficienti i miracoli inventati, un prete marsigliese chiamato Piero Bartolommeo , ne escogitò un nuovo, nè probabilmente senza partecipazione de' capi, da che dovevasi aspettare ogni miglior successo. Il detto prete adunque attestava in pieno consiglio, esserli apparso Santo Andrea per ben tre volte in sogno. Va' ( dicevali il santo apostolo), va' nella chiesa del mio fratello Pietro, di questa città. Cavando il suolo presso all'altar maggiore, troverete il ferro della lancia che farò il costato del nostro Redentare: e fin ciò dentro tre giorni. Quel ferro mistico, portato nella fronte dell'esercito, libererà i Cristiani dalla presente calamità e trafiggerà il cuore degli Infedeli. Il Legato, Raimondo e gli altri capi, credettero o piuttosto finsero credere questa rivelazione, della quale qualcheduno gli ha reputati primi autori. Si divulgò subitamenle per tutto l'esercito; argomentando i soldati, che nulla essendo impossibile al Dio de' Cristiani, perciò doveva esser vera; importando d'altronde alla gloria di Gesù Cristo la loro salvezza, per la quale era quasi tenuto soverchiare i termini della natura. Per tre giorni adunque prepàravasi l'esercito alla scoperta della Santa Lancia, con le preghiere e le ecclesiastiche funzioni; sarebbersi anco aggiunti i digiuni, ma si osservavano già da lungo tempo, esenza comandamento.

Venuto il mattino del terzo giorno, dodici Crociati,sceltiin trai più rispettabili del clero e de' cavalieri, andarono al luogo indicato da prete Bartolommeo, con molti operai provvisti de' necessari strumenti: fu scavato dapprima sotto l'altar maggiore, standosi tutti gli astantiin grande espettativa e profondo silenzio e immaginandosi ad ogni poco di veder brillare il miracoloso ferro. L'esercito at'i'oltatosi intorno' alle porte della chiesa che, per prudente comandamento de'sacerdoti e- del principi, erano state bene chiuse e sharrate, aspettava impaziente l'esito di quellasingolare investigazione. I lavoranti cavavano già da alquanto ore ed avevano aperta una caverna profonda da dodici piedi, senza. che la Lancia apparisse; continuarono nondimeno pazientemente fino a sera: Cresceva frattanto l'impazienza di tutti, e la speranza cominciava a venir meno: gli operai vinti dalla fatica, ebbero uopo di riposo. A mezzanotte fu fatto nuovo tentativo. Mentre i dodici testimoni stannosi pregando ginocchioni intorno alla fossa , prete Bartolommeo vi scende-dentro, e rimastosi solo nel fondo per breve tempo , rimonta sopra col sacro ferro in mano. Alto grido di gioia mandarono subito gli astanti; lo replicò l'esercito che, come è detto, stavasi assembrato fuori della chiesae propagavasi immantiuente per tutti i quartieri della città. Portasi in trionfo per la città il santo aspettato ferro; l'ammirano e lo benedicono tutti i Crociati, augnrandosene sicura vittoria; gli spiriti s'invasano di miracolose speranze; certa è la protezione del cielo: l'esercito riprende coraggio; il vigore e la robustezza stremati dalla fame, (tanta è la prepotenza del fanatismo) ritornano prontamente in quelli piuttosto fantasimi che corpi di uomini: dimenticansi i passati patimenti; né più sbigottisce alcuno l'eccedeute numero de' nemici; persino i vili agognano la pugna e con gli altri la chiedono ad alte grida.

Ora i capi dell' esercito avendo cosi disposti al loro fine gli animi dei soldati, prepararonsi alla campal giornata: mandarono deputati al capitano de'Mussulmani, propnnendoli o singolar tenzone, 0generale battaglia, e ambasciatore fu l'eremita Pietro, secondo il suo costume soverchiando tutti di zelo. Fu egli ricevuto nel campo nimico con risa e schemi, ammirando gl'infedeli la sua rozz'a e quasi cinica foggia del vestire, secondo loro stima poco convenevole al rappresentante d'una nazione o d' un esercito. Ma ciò non diminui l'alterezza del buono Eremita, il quale parlò davanti al superbo Cherboga in questa sentenza:I principi prediletti di Dio, riuniti in. Antiochia , mi mandano a te, aflinchè per parte loro ti ammonisca a levare l'assedio. Queste provincie, queste città, asperse del sangue de"martiri , furono già di popoli cristiani, i quali essendo tutti fratelli , noi venimmo in Asia per vendicare. gli oltraggi de' perseguitati e per difendere l' eredità di Gesù Cristo e de' suoi discepoli. Dio ha permesso che Antiochia e Gerusalenime per alcun tempo fossero contaminate dal vostro dominio, onde punire le peccata del suo popolo ; ora le nostre lagrime e le nostre penitenza' hanno rattemperata la sua collera e satisfiztto alla sua giustizia; lasciateci dunque liberi e quieti questi possessi, che la divina clemenza ne restituisce: noi v'accordiamo tre giorni per levare le tende e per partire. Ma se v'ostinate nella ingiusta impresa, dannata dal cielo; chiameremo contro di voi il Dio degli eserciti, e perché i soldati della Croce, disdegnano guadagnar la vittoria con astuzia, se il partir non vi piace, alla campal giornata vi diffidano. Cosi parlando l'Eremita, fissava imperterritamente in volto il supremo capitano Cherboga; nè vedendolo pronto alla risposta, proseguì: or via scegli i più prodi del tuo esercito, mandali a tenzone contra altrettanti de'nostri, o piuttosto armati tu stesso e scendi in campo contro a qual più vuoi de'Cristiani principi. Né l'una, nè l'altra di queste due proposte t'aggrada? allora da' il segno di general battaglia. Qualunque sia la tua scelta, vedrai tosto che nimici avrai a petto, e conoscerai a qual Dio serviamo.

Cherboga che non ignorava le estremità de' Cristiani, nè poteva immaginare per qual soccorso tanto insolentissero, dubitava se dovesse maravigliarsi o ridere della orgogliosa imbasciata, e se i principi Cristiani avessero perduto il senno, ovvero, mandandoli quello strano ambasciadore, volessero prendersi giuoco di lui e schernirlo; rimasesi però fluttuante alcun tempo io tra lo spregio e' il furore, finalmente rispose: uomo, ritorna a chi t'ha mandato e di loro, che il dettar condizioni in guerra, spetta ai vincitori, non ai vinti. Abbietti vagabondi, rifiniti dalla fame, fantasmi d'uomini non guerrieri, qual voi siete, potranno forse impaurire fiamminette e fanciulli, non i prodi che gli tengon presi in gabbia. A furia di parole non si debellano i soldati dell'Asia. Sapranno fra poco i Cristiani se questa terra sia nostra, o no; e nondimeno prima di estimarli, voglio esser cortese a loro della mia indulgenza. Sottopongonsi alla legge del sommo e santo Profeta Maometto per sempregloriosissimo davanti a Dio; ed io forse non curerà che cotesta città, già vinta dalla fame e già mia preda, soggiaccia alla soldatesca licenza. Forse degnerò concederne loro il possesso, rifornirli di armi, di vesti, di viveri, di donne e di quanto hanno difetto: poichè il sacro e venerando libro del Corano, impone di perdonare e di abbracciare fratellevolmente coloro, che ricevano la sua legge. Va, di' a'tuoi compagni, che non indugino a profittare della mia clemenza oggi ; domani non fia più tempo; la spada li caccerà da Antiochia; e conosceranno con ispavento se un Dio Crocifisso che non ha potuto libèrar sè stesso da vituperevole supplicio, potrà salvar loro dallo soprastante esterminio. L'Eremita sebbene inorridisse udendó si atroci bestemmie, non perduto però l'animo, voleva nuovamente rispondere; ma il principe di Mossul posta la mano sull'elsa della sua scimitarra, comandò che si cacciassero via que' vili penenti, che alla demenza osavano aggiungere l'orgoglio. Partissi adunque Piero seguitandolo gli altri deputati; e passando per mezzo al mussulmano esercito, corsero più volte risico della vita. Rientrati in Antiochia, l'Eremita riferì il successo della sua missione nell'assemblea da' principi e de' baroni. Prepararonsi tutti alle armi; correvano gli araldi di guerra per li quartieri della città, proclamando che pel venturo giorno si escirebbe in campo. Ogni crociato fremeva d'impazienza. I vescovi e i sacerdoti, aggirandosi per le affaccendate schiere, esortavano i Cristiani a farsi degni di combattere per la causa di Cristo. Fu consumata la notte in preghiere e sacre cerimonie; perdonaronsi le ingiurie; elargironsi elemosina; tutte le chiese orario stipate di guerrieri che umiliavansi a Dio e chiedevano remissione delle loro peccata. Furono trovate vettovaglie, e stimossi miracolo, non sapendo alcuno ove potessero esser nascoste; distribuironsi; e i soldati, frugalmente cibati, ricuperarono le smarrite forze. Declinando la notte, le reliquie del pane e della farina, adoperaronsi al sacrificio della messa e della general comunione. Centomila guerrieri rappresentaronsi contriti al tribunale della penilenza. Centomila guerrieri intervénnero alla eucaristica mensa: tutti alzarono i brandi sacri al Dio degli eserciti: il Pontefice li benedice.

Sorse finalmente il giorno, sacro alla commemorazione dei santi Pietro e Paolo: spalancaronsi le porte di Antiochia; diviso in dodici corpi esciva l'esercito in contemplazione de'dodici apostoli. Ugone il Grande sebbene infiacchito da lungo morbo, precedeva nell'antiguardo, portando il gonfalone della Chiesa. Ogni principe, ogni cavaliere, ogni barone guidava le sue genti d'arme; il solo Tolosano, impedito da grave ferita, rimanevasi in Antiochia, con commissione di tenere in rispetto il presidio della cittadella, mentre i Cristiani combattevano il nimico. Il Legato Ademaro vestito della corazza con sopra il manto pontificale, conduceva i suoi alla pugna; Raimondo Agilense (secondo, ch'egli medesimo racconta) precedeva il Legato e come si esprime con la sua ingenuità: Io ho veduto con i miei occhi quello che riferisco, ed era io il portatore della Lancia del Signore. Giunto l'esercito al ponte dell'Oronte, il Legato fece un breve discorso ai soldati, promettendo i soccorsi e le ricompense del cielo: stavansi quei prodi ascoltando in ginocchio, quando il vicario del sommo Pontefice ebbe finito di dire, risposero unaaimemente: Amen. Intonò allora il clero il salmo marziale: Sorga il Signore, e i suoi nimici sieno dispersi. Gli ecclesiastici rimasi in Antiochia, circondati dalle donne e dai fanciulli, dall'alto delle mura benedivano le armi de'loro fratelli, alzando lè mani al cielo come Moisè, quando gli Ebrei con gli Amaleciti combattevano; e pregando al Signore che salvi il suo popolo e confonda l'orgoglio degli Infedeli. Le rive dell'Oronte e le circostanti montagne echeggiavano del guerriero grido: Dio lo vuole! Dio lo vuole! Procedeva frattanto lentamente e in bella ordinanza il cristiano esercito. Molti cavalieri che fino dalla loro infanzia avevano usato combattere a cavallo, allora camminavano a piedi; vedevansi illustri capitani cavalcar muli e giumenti. Il conte di Fiandra limosinando, aveva accattato tanto da comperarsi un cavallo; molti cavalieri avevano vendute le loro armi per vivere, ed ora andavano in campo con armi turchesche, non usati a maneggiare e perciò incomode per essi. Goffredo aveva tolto in prestito un cavallo dal conte di Tolosa, e con molto pregare in nome della santa causa che difendevano i Crociati. Vedevansi nelle schiere, uomini infermi, uomini smunti dalla fame, a cui le armi erano soverchio peso, ma la viva persuasione del celeste aiuto, rinfrancava tutti, e coloro che poco prima mal potevano reggere le loro proprie membra, ora come invasi da divino spirito, movevano audaci e confidenti della vittoria, contro nimico poderosissimo e da verun disagio travagliato.

La battaglia

I corpi dell'esercito mussulmano tenevano i colli che sono al levante di Antiochia di contro alla porta di San Paolo , e una parte del suo campo era nel luogo medesimo ove nel tempo dell'assedio aveva le tende Boemondo. Fra que'corpi, dice lo storico armeno, quello di Cherboga rassomigliava a inaccessibile montagna. Il capitano turco, vedendo i Cristiani avanzarsi in ordinanza , nè potendo persuadersi che movessero a battaglia, immaginò che andassero ad implorare la sua clemenza: ma inalberato sulla cittadella di Antiochia il vessillo nero, segno in tra esso e il presidio convenuto per annunciare la risoluzione de'Crociati, lo tolse di dubbio. Già il conte del Vermandese aveva assaltati, vinti e fugati due mila uomini posti a guardia del ponte di Antiochia, per cui doveva passare l'esercito cristiano; e i fuggitivi portarono lo spavento fino nella tenda di Cherboga che stava allora giuocando agli scacchi: scosso dal subito assalto, fece decapitare un disertore cristiano che aveva annunziata la resa imminente de' suoi, e volse tutte sue cure a combattere un nimico fatto feroce dalla fame e dalla disperazione. I Cristiani, passato l'Oronte, eransi ordinati in battaglia, distendendosi per tutta la valle dalla porta del Ponte fino alle Montagne Nere che distano dal settentrione d'Antiochia un'ora di cammino; avendo intendimento con ciò d'impedire al nimico l'impadronirsi degli approcci alla città e di circondarli. Ugo il Grande, i due Roberti, il conte di Belesma, il conte di Arnoldo, comandavano l'ala sinistra; Goffredo, Eustachio, Baldovino dal Borgo, Tancredi, Rinaldo di Tule, Everardo del Puisetto, comandavano la destra; il Legato Ademaro, Gastone Bearnese, il conte diDie, Rambaldo di Orangia, Guglielmo di Monpellieri, e Amangiò d'Albreto, comandavano il centro; e Boemondo un corpo di riserva che doveva soccorrere i Cristiani ovunque il bisogno portasse. Cherboga veduto l'ordinamento de' Crociati, comandò agli emiri di Damasco e di Aleppo di condurre i loro corpi sulla strada del porto San Simeone e collocarsi in modo che i Cristiani essendo rotti non potessero fuggire verso il mare nè ritornare in Antiochia. Cherboga medesimo dipoi ordinò le sue genti sulla riva destra dell'Oronte; comandando l'ala destra l'emiro di Gerusalemme; la sinistra un figliuolo di Acciano, impaziente di vendicare la morte del suo padre e la perdita di Antiochia; ed egli, il supremo capitano, ascese sopra un colle, d'onde potesse seguitare degli occhi i movimenti d'ambi gli eserciti.

Ma sul punto di appiccar la zuffa fu compreso di terrore. I Cronisti contemporanei ricordano alcune predizioni che annunciavano la sconfitta al principe di Mossul; il monaco Roberto descrive la di lui madre che prorompe in pianti e tenta, ma invano, dissuadere il figliuolo dalla giornata. Egli, molto rimesso dell'antico orgoglio, mandò proponendo ai principi cristiani di prevenire la strage generale, con la scelta di alcuni cavalieri dell'uno e dell'altro esercito per definire fra loro la gran contesa con le armi; proposta già per esso rifiutata, quando i Cristiani per i lunghi patimenti non credendosi più abili al combattere, la facevano, per imporre un qualche fine alle loro miserie; ma ora che si trovavano sul campo e tutti desiderosi della battaglia, estimando follia rimettere nel valore di pochi quello che si sentivano abili a conseguir tutti, credendosi dichiaratamente favoriti dal cielo, non vollero accettarla. Erano gli animi loro tanto esaltati che riguardavano quali prodigi i più naturali fenomeni; cosicchè, mentre escivano di Antiochia, essendo caduta lieve pioggia che rinfrescò l'arsura dell'aere e della terra, immaginavansi che il cielo spargesse sopra di loro le sue benedizioni e la grazia dello Spirito Santo. Giunti in prossimità de' monti, sendosi levato un vento fortissimo che accelerava l'impeto delle loro freccie e per conseguenza ritardava quello delle nimiche, estimavano che quello fosse il vento della divina collera imperversante a esterminio degl'infedeli. L'ardore e il coraggio de'combattenti erauo dalla stretta osservanza degli ordini aiutati j come più l'esercito s'appressava al nimico, più taciturno procedeva, per modo che nella valle non udivasi altro che il misurato calpestio delle schiere, nè altro vedevasi che nembi di polvere, in mezzo ai quali i ferri delle lancie e delle ignude spade scintillavano; di tratto in tratto rompevano il profondo silenzio ora le voci de'capitani, ora l'ecclesiastico canto de' salmi, ora le esortazioni del Legato.

Quando l'esercito cristiano fu giunto in cospetto del nimico, suonarono le trombe e le insegne posersi nella fronte delle schiere. Fu dato il segno; soldati e capi assaltarono gl'infedeli. Tancredi, il duca Normando, e quel di Lorena, sbaragliarono subito chi ebbero incontro. Le schiere non fecero l'assalto tutte a un tratto, ma le seguenti accorrevano sempre in soccorso delle precedenti, e quando tutte furono entrate in battaglia, un'ora circa dopo il primo attacco, i Mussulmani cominciavano a piegare e a disordinarsi. Ma mentre così prosperavano le armi cristiane alle falde delle montagne, gli emiri di Damasco e d'Aleppo eseguendo puntualmente gli avuti ordini, con quindicimila cavalli, avevano assaltato e fatto retrocedere il corpo di Boemondo che erasi fermato propinquo all'Oronte; procurando così di circondare l'esercito cristiano, con la speranza, dice una cronica contemporanea, di vincere senza pericolo e di stritolare il popolo di Dio fra due macini. Goffredo, Tancredi e alcuni altri capi, avuto avviso, che Boemondo non potea sostenere il nimico, accorsero in di lui soccorso; e gli assalitori, sentita l'efficacia del rinforzo, non solo disordinaronsi, ma pocostante andarono in rotta; e per assicurarsi la fuga, incendiavano molte barche di paglia e di fieno che per uso de' cavalli trovavansi sparse nelle pianure; onde sollevandosi gran fiamma e fumo, speravano che arebbero impediti i Cristiani dal poterli inseguire. Però niun ostacolo ebbe potenza di arrestare questi, che ebbri della vittoria, passarono per mezzo alle fiamme e fecero grande strage de'nimici, parte de'quali correvano verso il ponte San Simeone e parte verso il loro campo , sperando ricongiungersi al corpo di Cherboga. Ma divulgata per l'esercito mussulmano la rotta de'due emiri, tutti cominciarono a sgomentarsi e ogni schiera retrocedeva non senza precipitazione e turbando gli ordini. Suonavano le loro trombe a raccolta e i tamburi, e i più valorosi procuravano far capo sopra un vicino colle difeso da un profondo burrone; ma i Crociati avendolo superato, assaltano il nimico anco in quel riparo e ne fanno strage; chi resiste è ucciso, molti si salvano nei boschi e nelle caverne: per le montagne, per le pianure, per le rive dell'Oronte non si veggono che Mussulmani fuggitivi, che hanno gittate le armi e abbandonate le insegne.

Cherboga che aveva già spedito avviso della sconfitta de'Cristiani al califfo di Bagdad e al sultano di Persia, sendoli successele cose molto diverse dalla sua stima, fuggivansene verso l'Eufrate, seguitandolo piccolo numero de' suoi più fedeli soldati. Alcuni emiri eransene già fuggiti, prima che l'esercito andasse in rotta. Tancredi e alcuni altri capi, saliti su i cavalli del nimico, inseguirono fino a notte le genti di Aleppo e di Damasco, l'emiro di Gerusalemme e le reliquie del mussulmano esercito. Furono incesi i ripari dietro i quali s'era ricoverata la fanteria nimica e gran moltitudine di mussulmani vi fu arsa. Secondo alcuni storici contemporanei, rimasero morti sul campo, degl'infedeli circa centomila; de' Crociati quattromila che furono subito registrati nel catalogo de' martiri. Fu trovata abbondanza di viveri nelle tende de' Mussulmani ed inoltre quindicimila cammelli e grandissimo numero di cavalli. Secondo Alberto Aquense, trovaronsi ancora molti manoscritti, ove erano descritte le cerimonie de' Mussulmani in caratteri esecrabili, e per certo in Arabo le cui lettere furono per avventura credute da quei buoni Crociati, cifre negromantiche. Il vincitore pernottò nel campo nimico, ammirando il lusso orientale, ma con estrema maraviglia fu visitata la tenda dèi principe di Mossul, ricchissima di oro e di pietre preziose e che distinta in lunghe strade e fiancheggiata da alte torri, avea sembiante di città fortificata. Furono impiegati molti giorni per trasportare in Antiochia le spoglie de' vinti, fra le quali trovossi molto cordame e catene di ferro destinate ai soldati cristiani, che per loro buona ventura non andarono in opera. Il prospetto interno del campo Turchesco, facea testimonio più di fasto e magnificenza che di militare disciplina. I veterani compagni di Malech Sciah, erano quasi tutti caduti nelle guerre civili che da più anni desolavano l'impero de' Selgiucidi. L'esercito venuto alla ricuperazione di Antiochia componevasi di gente nuova e raccogliticcia da diversi popoli rivali, sempre disposti a combattere fra loro. Oltreciò i ventotto emiri che seguitavano Cherboga erano quasi tutti acerrimi nimici uno dell'altro, e poco o punto obbedienti al supremo capitano. Per lo contrario in questa circostanza furono in tra essi unitissimi i Crociati, persuasi tutti che dalla unione e dal buon ordine dipendeva il loro scampo. I varii corpi del loro esercito si ristrinsero saviamente a combattere in un sol punto, soccorrendosi a vicenda; Cherboga invece aveva divise le sue forze. Vero è che in questa giornata, e più nelle circostanze precedenti, il principe di Mossul, mostrò più presunzione che perizia di guerra; e già prima con la lentezza del suo cammino aveva perduta l'occasione di soccorrere Acciano e di sorprendere i Crociati. Puossi ancora aggiungere che i Latini ottennero la vittoria per la medesima ragione che avevano luogo di temer la sconfitta. Avendo perduti i loro cavalli, eransi esercitati a combattere a piedi, e la cavalleria mussulmana non potè sostenere que'fanti ordinatissimi, agguerriti nei lunghi pericoli e fatiche dell'assedio di Antiochia.

Le conseguenze

Molti Crociati attribuivano questa vittoria alla scoperta della santa Lancia. Raimondo Agilense afferma che i nimici non osassero accostarsi alle schiere nelle quali brillava il miracoloso ferro. Alberto Aquense, aggiunge che veduta la sacra Lancia, Cherboga fu compreso di spavento, come se avesse dimenticata l'ora della pugna. Il monaco Roberto, riferisce una circostanza non meno meravigliosa delle allegate: dice egli, che nel vivo della mischia fu veduta discendere una schiera celeste, con armature bianche e capitanata dai martiri santo Giorgio, san Demetrio e san Teodoro. Tali miracoli che raccontavansi per il cristiano esercito, e creduti senza dubbio, attestano della credulità e del fanatismo de'pellegrini, per cui sendo stati all'eccesso delle miserie e della disperazione condotti, divennero conseguentemente invincibili. Ma quando fu passato il pericolo, la santa Lancia, che avea fatti tanto confidenti della vittoria i Crociati, non ebbe più la loro venerazione e perse la sua famosa reputazione: la principale cagione di ciò fu gelosia; perchè sendo rimasta nelle mani del conte di Tolosa e de' suoi Provenzali, che ricevevano le grandi offerte fatte a quella, le altre nazioni cominciarono a veder di mal occhio una specie di gravezza pecuniaria imposta alla loro devozione, d'onde i Provenzali augumentavano mirabilmente di reputazione e di ricchezze, sicchè, come meglio apparirà dal processo di questa narrazione, cominciaronsi a muover dubbi sulla autenticità della medesima Lancia, che aveva operati tanti prodigi; e lo spirito di rivalità partorì gli stessi effetti che il sano criterio arebbe prodotti in secolo men barbaro.

Dall'altro canto questa vittoria d'Antiochia, parve successo tanto straordinario ai Mussulmani, che molti di loro abbandonarono l'islamismo. Il presidio della cittadella preso da terrore e da spavento, ricorse a Raimondo il giorno medesimo della battaglia; convertendosene trecento al Cristianesimo, andando dipoi a pubblicare nelle città della Siria, esser quello de'Cristiani il solo vero Dio: e tale fu l'impressione di questa vittoria negli animi de'Mussulmani, che, secondo Raimondo Agilense, se i Cristiani avessero subito mosso contro Gerusalemme, l'ottenevano senza difficoltà veruna. I Turchi dopo la memorevole sconfitta, non fecero più alcuna opposizione ai progressi de'Crociati. La maggior parte degli emiri di Siria, i quali eransi in tra loro divise le spoglie del sultano di Persia, non facevano maggior conto di questa occidentale alluvione, che di passeggiera burrasca, e senza considerare alle conseguenze che ne potevano emergere in pregiudizio dell'islamismo, chiusi ne'loro luoghi fortificati, aspettavano per istabilire i loro dominii e dichiararsi indipendenti, che tanta burrasca passasse. Il vasto imperio fondato da Togrul, da Alp Arslano, da Malecco Sciah, verso la metà dell'undecimo secolo, per i cui repentini argumenti erasi messa in apprensione Costantinopoli, e sperano i popoli d'Occidente sgomentati, stava sull'orlo della sua ruina e sulle reliquie erano per sorgere nuovi stati; perlocchè, secondo nota un istorico, sarebbesi creduto che Dio si pigliasse diletto a dimostrare che piccola e vil cosa sia la terra davanti a'suoi occhi, trasmettendo da mano in mano, come trastullo da fanciulli, una potenza mostruosa e formidabile a tutto l'universo.

Prima cura de'Crociati, dopo la vittoria, fu di mettere Gesù Cristo in possesso del paese conquistato, ristabilendo il suo culto in Antiochia; così mutò religione e popoli la Siria. Una gran parte delle spoglie de'Saraceni fu erogata a restauro e ornamento delle chiese, già state fatte moschee da'Turchi. Greci e Latini congiunsero i loro cantici e pregarono uniti il Dio de'Cristiani di condurli a Gerusalemme. I pellegrini pieni di nuovo coraggio chiesero unanimi ai loro capi che gli conducessero alla santa città, persuadendosi che la loro presenza dovesse incutere tale spavento negli infedeli da far libere tutte le strade, e che niuna delle città per dove passerebbero, ardirebbe nè meno di tirar loro contro un sasso. Nella qual occasione però videsi che difficoltà siavi nel condurre prestamente un'impresa che dipende da più voleri: perchè nel consiglio de'capi ognuno era di contraria sentenza all'altro: ricordavano invano i più prudenti non doversi lasciare al nimico tempo di rifarsi; ma i principi e i baroni, che fino allora avevano sopportata ogni estremità, divennero a un tratto paurosi degli ardori del clima e vollero indugiare in Antiochia fino ai primi giorni dell'autunno. Tra i motivi di questa inattesa risoluzione, ne erano alcuni che i capi non avrebbero mai voluti confessare, perchè probabilmente l'aspetto delle ricche e fertili contrade di Siria, l'esempio di Boemondo divenuto principe d'Antiochia, e di Baldovino signore di Edessa, avevano forse la loro ambizione stimolata, e distraevano i loro pensieri dalla santa impresa. Ma pentironsi presto i capi di questa loro risoluzione, perchè quei mali che paventavano viaggiando, vennero a molestarli in Antiochia, dico la pestilenza, per la quale, secondo una antica cronica, ogni luogo, era pieno di funerali e di seppellimenti, e la morte menava stragi non punto minori di quelle avevano fatte la fame e la guerra. Primamente peri molta turba delle donne e de'poveri che seguitavano l'esercito; dipoi furono spenti dal micidial morbo, molti nuovi Crociati venuti pur allora di Alemagna e da altre parti d'Europa. Contaronsi da sopra cinquanta mila morti in un sol mese, in tra i quali con universale rincrescimento meritano nota i capi, Enrico di Asque, Rinaldo di Amerbacca e molti cavalieri celebri pei loro gesti. Nel generale lutto il Legato che attendeva indefessamente a consolare gli infermi, cadde ammalato, e morì come il duca degli Ebrei, senza aver veduta la terra promessa.

Fino a che egli visse, tanto imperio aveva sulla moltitudine de'Crociati, che le leggi del Vangelo furono rispettate, e i capi si mantennero uniti, ma morto esso, il senso della giustizia disertò l'esercito, e la discordia s'insinuò nel consiglio de'principi. Il cadavere del Legato fu sepolto nella chiesa di San Pietro di Antiochia , nel medesimo luogo da dove erasi cavata la Lancia miracolosa. Tutti i pellegrini de' quali era il padre e che cibava ( secondo l'espressione d'uno contemporaneo ) delle cose celesti, assistettero piangendo ai suoi funerali. I capi scrissero al pontefice per annunziarli la morte del suo legato apostolico, pregandolo nel medesimo tempo che degnasse venire a comandarli a fine di santificare i vessilli della Crociata è ricondurre l'unione e la pace nell'esercito di Gesù Cristo.



Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842