
Battaglie In Sintesi
409
Nacque nel 370, morì nel 410. Lo stesso anno in cui morì l'imperatore Teodosio, 395, 
i Visigoti, che dalla pace del 382 erano stanziati su territorio romano come foederati
 nella Pannonia e nella Mesia, ma che avevano trascorsi tredici anni di vita irrequieta, 
 aspirando ad avere una propria patria, acclamarono duce Alarico, della stirpe dei Balti, 
 l'uomo che doveva legare indelebilmente il suo nome all'ultimo periodo della decadenza di Roma.
 Con lui infatti l'Italia fu per la prima volta percorsa e saccheggiata da un capo
 all'altro della penisola, negli stessi anni in cui la linea di difesa della Gallia
 veniva definitivamente infranta e incominciavano gli stanziamenti barbarici in 
 Occidente: per lui Roma stessa, per la prima volta essa pure (410), fu presa e 
 saccheggiata da orde barbariche. La caduta dell'Urbe fece sui contemporanei 
 un'impressione profonda; e dura ancora oggi, dopo tanti secoli, l'eco delle
 parole con cui S. Girolamo, all'annunzio della catastrofe, presagiva nella 
 rovina dell'Urbe, la vicina fine del mondo.
Il nome di Alarico comincia ad apparire alla fine del regno di Teodosio. Allora
 egli comandava un corpo ausiliario goto al servizio romano. Benché ancora
 giovanissimo, aveva già avuto campo di notare la debolezza dell'Impero,
 nonostante le recenti vittorie riportate dalle armi romane: e con intuito 
 politico non comune, appena l'occasione si presentò, egli approfittò del 
 dualismo militare esistente allora tra le due parti dell'impero, Occidente
 e Oriente, a proposito del possesso delle provincie orientali dell'Illirico 
 (Epiro, Mesia Superiore, Macedonia, Dacia, Acaia), attribuite da Graziano 
 all'Oriente e rivendicate invece da Stilicone per l'Occidente; e nel 395 
 iniziò i suoi attacchi contro Costantinopoli. Questi attacchi furono insieme 
 l'inizio del movimento definitivo, per cui il popolo dei Visigoti si spostò 
 dalle sue sedi sul Danubio e si avviò attraverso i Balcani, l'Italia, la 
 Gallia e la Spagna alle sue sedi definitive. Come Clodoveo, come Teodorico
 o come Alboino, Alarico può essere considerato il capo o l'uomo di genio che, 
 sia pure senza riuscire personalmente nell'intento, ha tuttavia dato al 
 suo popolo l'impulso atto a farlo uscire dallo stato fluttuante del nomadismo
 e ad assiderlo su territorî stabili e su basi acconce al suo incivilimento.
 E questo è, senza dubbio, il merito essenziale di lui.
L'azione militare di Alarico contro l'Impero romano, sia d'Oriente sia d'Occidente,
 incomincia nel 395 con una prima invasione della Macedonia e della Grecia, e
 si protrae, salvo brevi intervalli di quiete, per tutta la sua vita. Sono
 pochi anni, ma l'attività del barbaro fu untensa, e tanto più notevole se 
 consideriamo che anche se non collegata intenzionalmente coi movimenti degli
 altri popoli, essa tuttavia si affiancò a quella pressione formidabile che, 
 dopo varî assaggi, finì col rompere con una grande ondata, per così dire, il
 fronte romano in Occidente negli anni 406 e seguenti. Contro di Alarico, più che 
 in Oriente, sorge in Occidente un uomo, generale e politico, che gli stette
 degnamente a fronte, e che, sino alla sua morte avvenuta nel 408 violentemente, 
 oppose una valida resistenza e rappresentò in sostanza la reazione tutt'altro
 che trascurabile dell'Impero d'Occidente. Stilicone, accorso una prima volta
 nel 395 nel Peloponneso a fronteggiare il barbaro, aveva dovuto ritirarsi in
 principio di fronte agl'intrighi di Costantinopoli e specialmente del suo 
 collega e rivale Rufino, rinviando un corpo ausiliario sotto il comando del 
 goto Gaina (che, giunto a Bisanzio, costui invase nuovamente la Grecia nel 396.
 Come tra le angustie montuose dell'Elide e dell'Epiro Alarico riuscisse a mettersi 
 in salvo, non è ben chiaro. È probabile che all'ultimo intervenisse anche un 
 accordo tra i due capitani. Il fatto è ad ogni modo che, dopo questa data,
 Arcadio, l'imperatore d'Oriente. riconosce Alarico come magister militum o dux 
 (così lo chiama Claudiano) nell'Illirico. Vale a dire che, mentre nella 
 Mesia egli era semplicemente un foederatus, qui diventava ad un tempo
 foederatus e governatore romano.
Tale è la prima fase dell'attività di Alarico e dei Visigoti. Come tutti, in
 genere, i capi e i popoli barbari, egli passa dalla semplice qualità di
 foederatus - che è in fondo il vecchio rapporto dei Germani stanziati
 sul territorio romano - a quella cui solo pervengono i capi più eminenti
 e i popoli più minacciosi. È un trapasso che segna una notevole spinta 
 in avanti, e che significa una grande trasformazione: perocché da milizie
 stipendiate i popoli barbarici si trasformano in elementi autonomi 
 affiancati alle popolazioni romane, sulle quali essi, attraverso i 
 loro capi, esercitano o una protezione o una pressione, in quanto i 
 loro capi sono i rappresentanti legali del potere imperiale. In questo 
 senso Alarico è uno dei primi esempî del genere. Senonché l'essere ariani, 
 egli e i suoi, impedirà, come è avvenuto in tutti i casi analoghi, 
 qualunque avvicinamento reale ed efficace con le popolazioni romane, cattoliche.
Quattro anni dopo, per cause ignote, ma che evidentemente vanno ricercate
 nel movimento generale di pressione delle popolazioni barbariche e,
 secondo molti, nell'aggressione che Radagaiso si apprestava a fare 
 dalla Rezia su l'Italia, Alarico, acclamato nel frattempo re dai suoi 
 Visigoti, abbandona l'Illirico e punta risolutamente sulla penisola. 
 Comincia così il secondo e più importante periodo della sua attività, 
 e il più drammatico e sanguinoso. Aquileia, che egli trovò sul suo 
 cammino, fu assediata; l'alta Italia devastata sino alla Liguria: e, 
 mentre l'imperatore Onorio era costretto a rinchiudersi non si sa 
 bene se in Milano o in Asti, anche Ravenna, benché inutilmente,
 veniva assalita. Finalmente, apparso Stilicone, che nel frattempo
 era riuscito a ricacciare Radagaiso, ma con l'aiuto di legioni
 fatte venire dalla Britannia e dal Reno (e di qui l'indebolimento
 fatale di quelle linee, sì che non ne fu potuta mai più ricostituire
 l'efficienza), Alarico fu sorpreso in battaglia campale a Pollenza, il 
 giorno di Pasqua, ossia il 6 aprile, del 402; e, sanguinosamente 
 sconfitto, obbligato a ritirarsi dall'Italia. La battaglia fu molto 
 aspra, e costò infinite perdite alle due parti: ma, se il barbaro 
 dovette abbandonare la penisola, non fu però tanto battuto da non 
 poter conservare, mediante un accordo, il governo dell'Illirico.
Stilicone aveva salvato l'Italia, che, con Roma alla testa, celebrò
 con grandi feste la liberazione, e poté esser salvata ancora, 
 dallo stesso Stilicone, nel 405, contro nuove orde condotte
 dal già vinto Radagaiso, che si poté spingere sin nei pressi 
 di Fiesole: dove tutti quei barbari, insieme con lo stesso
 condottiero, caddero o furono presi prigioni. Ma l'Impero era
 così debole che i barbari, respinti da una parte, ricomparivano
 dall'altra. Per sfortuna di Onorio, Stilicone, che, nonostante
 i suoi meriti innegabili, aveva commesso l'errore di sguarnire 
 il fronte occidentale, dando così modo, nel 406 e nel 407, al
 forzamento fatale della linea del Reno; Stilicone, che avrebbe, 
 ciò non ostante, potuto ancora essere la salvezza dell'Impero, 
 lasciatosi invece attirare dal desiderio di assicurarne la successione 
 al figlio Eucherio, finiva con l'essere vittima degl'intrighi 
 di corte e perire, in Ravenna, nel 408. Alarico, del quale si
 ha qualche notizia che in quegli anni avesse tentato d'accordarsi
 con Stilicone stesso, ripresa la libertà dei suoi movimenti, per
 la terza volta afferrò le armi e mosse, nell'autunno del 408, 
 verso l'Italia, sollecitato anche da tutti quei barbari i quali nella reazione
 seguita alla morte di Stilicone avevano perduto onori, cariche, beni e famiglie.
 Dopo alcune pratiche preliminari con Onorio, avviate con lo scopo di ottenere denari,
 e, ad un tempo, la cessione della Pannonia e il riconoscimento della sua vecchia
 dignità di magister militum, che gli era in fondo molto fruttuosa, avutone 
 un completo rifiuto, Alarico si mosse risolutamente puntando su Roma. Non lo 
 spaventarono né la maestà e il prestigio dell'Urbe, né gli ammonimenti 
 di molti che gli rammentavano la passata potenza romana. Dicesi, anzi,
 che rispondesse: "Contro la mia volontà sono spinto a questa impresa: 
 una forza irresistibile mi trascina e mi grida: muovi contro Roma e 
 distruggila!". Il vero è che egli non voleva distruggere, ma solo imporre 
 la sua volontà e far bottino. In fondo a tutte le sue pretese rimaneva pur 
 sempre l'esigenza fondamentale di avere terre stabili per il suo popolo 
 e dignità di governo per sé stesso.
Sembra strano che l'imperatore Onorio non accudisse ad alcun preparativo serio
 di difesa. Certamente nessuno osava nemmeno pensare che dei barbari 
 potessero violare il sacro suolo di Roma, e ognuno riteneva che, in 
 fondo, si trattasse di bande di predoni che, passato il primo impeto,
 il tempo stesso avrebbe stremati. Ma in realtà Alarico era tempra diversa, 
 e solo uno Stilicone l'aveva compreso e aveva saputo fronteggiarlo, o 
 con le armi o con gli accordi. Fatto sta che, giunti i Visigoti sotto
 le mura di Roma, questa poté solo salvarsi a prezzo d'oro, e lasciando 
 che 40.000 schiavi d'origine barbarica, reclamati da Alarico, se ne allontanassero.
 Una seconda e una terza volta mosse poi tra il 409 e il 410 il re visigoto 
 contro l'Urbe, mentre si allacciavano tra lui e Onorio trattative che
 svelano nella realtà la volontà vera del barbaro. Le sue pretese, 
 eccessive in origine, si restrinsero ad un dato momento alla domanda 
 che gli fosse ceduto il Norico. Evidentemente il Visigoto voleva 
 stabilirsi ai margini dell'Italia, almeno per allora, per poi insediare
 definitivamente il suo popolo nella penisola. Durante queste trattative,
 Alarico fece nominare dai Romani un nuovo imperatore, Attalo, che poi egli depose
 due volte, e di cui si servì come arma e fantoccio nelle sue lotte contro Onorio.
 Effetto di tutto questo fu che, finalmente, la notte del 24 agosto 410, i Visigoti 
 entrarono in Roma per la Porta Salaria, e per tre giorni la città rimase preda 
 alla ferocia e all'avidità. Grande fu la strage, maggiore la preda. Ma non tutta la
 città fu devastata: la religione o la superstizione trattenne i barbari dal profanare e
 dal derubare le chiese, e molti inermi o indifesi trovarono protezione all'ombra de' 
 santuarî, e specialmente nelle basiliche di S. Pietro e S. Paolo. Dopo tre giorni di
 saccheggio, i barbari, carichi di bottino e di prigioni, abbandonarono Roma. Era con 
  loro la bella Galla Placidia, sorella di Onorio, che poi andò sposa ad Ataulfo, 
  il successore di Alarico. Costui mosse poi verso il sud, saccheggiando ovunque, ma
  non fermandosi. Sembra che il suo scopo fosse di passare in Sicilia e in Africa, 
  ch'egli credeva necessario occupare per essere poi padrone in Italia. Ma, giunto 
  nei pressi di Cosenza la morte lo colse, forse per influsso del clima. Giordane, 
  tra altri (De origine actibusque Getarum) ci ha tramandato il racconto, ben noto 
  per il rivestimento poetico e romantico che ne ha fatto modernamente il poeta 
  tedesco Platen, secondo il quale il corpo del re fu sepolto nell'alveo del fiume
  Busento, il cui corso fu deviato per alcune ore e poi nuovamente incanalato
  nel letto di prima. Però gli schiavi che eseguirono tale lavoro furono 
  immediatamente sacrificati, perché non potessero mai rivelare il segreto.
Così finiva Alarico, senza in realtà aver conseguito nulla di definitivo. A giudicarlo 
così a prima vista, altro non appare di tutta la sua opera se non una serie di razzie,
 di assedî, di ruberie, per le quali egli spostò ripetutamente il suo popolo dall'uno
 all'altro capo della penisola balcanica e dell'italica. La stessa presa di Roma e
 il relativo saccheggio. lasciando da parte l'impressione derivante dal fatto 
 inaudito, dopo otto secoli, che un esercito nemico avesse potuto violarne le mura,
 non avrebbero in sostanza un valore maggiore di tanti altri assedî di città, anche
 importanti, come Aquileia e Ravenna. Ma se bene si giudica e si riassume in uno 
 sguardo sintetico la breve ma fervida attività di questo barbaro, che fu indubbiamente
 uomo di talento, si deve riconoscere che egli obbedì a un profondo bisogno 
 della sua razza e indicò ad essa il modo di soddisfarlo. Se anche il suo 
 successore Ataulfo non riuscì nell'intento, così non fu degli altri che 
 vennero dopo di lui, ai quali arrise la fortuna di stabilirsi definitivamente 
 nella Spagna. Ciò facendo, essi seguirono non solo l'impulso, ma l'esempio dato
 da Alarico. Ché, se si astrae dai saccheggi e dalle miserie che accompagnarono i
 movimenti di A. e quelli dei suoi successori, cose contingenti che difficilmente 
  potevano essere evitate o limitate, sta il fatto che tutti o quasi tennero fermo 
  il principio stabilito da A.: e cioè di procedere non tanto alla distruzione
  dell'impero e dei suoi elementi, quanto d'inserirsi in esso, vale a dire in una
  sua parte, e ottenere di questo il riconoscimento giuridico.
				
Nel 408 Alarico invase l'Italia e a novembre riuscì già a mettere Roma sotto assedio. L'assedio fu tolto solo dopo il pagamento di una notevole somma di denaro e l'impegno di suggellare un'alleanza con i Visigoti che consentisse loro di stabilirsi all'interno dell'Impero. Tuttavia, il governo di Ravenna si rifiutò di soddisfare quest'ultima condizione e cercò di organizzare una risposta militare pur senza indebolire il piccolo esercito italiano di cui aveva bisogno per proteggersi dall'usurpatore Costantino di Britannia. Per fare ciò, all'inizio del 409, fece trasferire in Italia sei legioni originariamente dislocate in Dalmazia (circa 6.000 uomini) al comando di Valente. Giunti nella penisola, questi soldati ricevettero l'ordine di recarsi a Roma ed entrarvi come presidio militare, approfittando del fatto che i Visigoti si erano ritirati in Etruria. Valente commise l'errore di condurre le sue truppe direttamente lungo una strada principale invece di usare strade secondarie. Probabilmente imboccò la via Flaminia proprio come avevano fatto i Visigoti l'anno precedente, ma questa strada attraversava l'Appennino, attraversando valli e gole ideali per delle imboscate. Allo stesso modo, passava vicino ai confini dell'Etruria, e quindi non doveva essere difficile per i Visigoti avere notizie dell'arrivo dell'esercito romano.
Gli uomini di Alarico tesero proprio un'imboscata in un luogo favorevole aspettando che i legionari ignari arrivassero. Valente e le sue truppe furono completamente colti di sorpresa e praticamente tutti i componenti di quell'esercito furono uccisi o fatti prigionieri. Riuscirono a fuggire solo lo stesso Valente e circa 100 soldati che finalmente riuscirono a rifugiarsi a Roma.
Fu il più grande disastro militare per i romani durante l'intera guerra con i Visigoti. Da allora evitarono di usare le loro truppe per scontri in campo aperto contro quei barbari e si limitarono a difendersi nelle città murate.